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Sabato 11 novembre a Firenze con Franco Berrino

Sabato 11 novembre 2017 alle 18.30 avrò il piacere di essere con il dottor Franco Berrino a Firenze, nell’ambito dei festeggiamenti per i 40 anni di Terranuova.

E’ un appuntamento importante al quale parteciperanno anche altre persone impegnate in prima linea per inaugurare e portare avanti quel nuovo paradigma culturale che pian piano sta prendendo piede.

Ringrazio gli organizzatori che hanno pensato a me e al Movimento per la decrescita felice, e tutti quanti voi che vorrete esserci di persona o col pensiero.

Tutte le informazioni per la serata li potete trovare qui

 

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Felici e contanti o contenti?

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La decrescita non è e non può essere uno slogan

Di Alessandro Perosa

  1. In principio era un grido di battaglia

 

Sluaghghairm, da cui slogan, è una parola di derivazione gaelica – composta dai termini ghairm ‘grido’ e sluagh ‘guerra’ – che significa grido di battaglia lanciato dai componenti di una tribù o di un clan contro i propri nemici. La sua prima attestazione in italiano risale al 1905, quando il termine viene usato per significare sentenza o massima, così come anche talvolta leitmotiv, parola d’ordine di una causa o linea di partito.

Parallelamente a questi significati, nel XX secolo, il mondo occidentale ha declinato il termine slogan anche – e soprattutto – in ambito pubblicitario come sinonimo di motto creato per caratterizzare un prodotto. E così, nel processo di onnimercificazione compiuto negli ultimi duecento anni dalla razionalità capitalista, prima, e da quella tecnologico-capitalista[1], poi, da originario grido di battaglia ha finito per significare in modo quasi esclusivo «frase ad effetto, brevissima e incisiva, della pubblicità commerciale»[2].

L’orizzonte semantico contemporaneo lo considera, quindi, uno strumento espressivo sintetico, rapido ed efficace, spesso orecchiabile, pronunciato con l’intento di enunciare un concetto, magari risaputo e spesso ovvio, destinato a restare impresso il più possibile nella mente del destinatario. Si tratta di una frase fatta, di una locuzione che serve a blandire, a circuire le persone, persino a confonderle, e non certo a coinvolgerle in un processo relazionale paritetico e linguisticamente significante. Chi ha interesse a spostare l’attenzione delle masse su un oggetto o su un fatto minore, usa la tecnica dello slogan come arma di «distrazione» collettiva. Così come chi vuol convincere i consumatori della bontà di un prodotto, ne esalta a dismisura le qualità con frasi ad effetto, che colpiscono l’attenzione e condizionano i gusti di chi ascolta.

Si pensi, a tal proposito, al fenomeno commerciale delle mode o alla tecnica con cui il potere economico riesce a garantirsi ‘nuove’ crescite del volume d’affari, attraverso la spinta compulsiva all’acquisto, stimolata dall’obsolescenza percepita e sorretta dalla pubblicità, che dello slogan si nutre.

Nella società dell’immagine, in cui ci troviamo a vivere, il ‘grido di battaglia’ non può che essere suadente e capace di orientare il senso estetico e i bisogni delle masse, facendosi ben presto strumento di tortura psicologica. Chi opera nel mondo pubblicitario sa che una «frase fatta» e una rima ben assestata consentono di memorizzare senza sforzo un prodotto, che diventa desiderabile principalmente in quanto portatore di novità. Perché il nuovo, in un mondo abitato da chi crede di camminare nel solco dell’innovazione continua e illimitata, è sempre meglio del vecchio. E lo slogan serve proprio a convincere l’acquirente che il prodotto stipato nello scaffale sia davvero il migliore in circolazione: «Acquistalo, e non rimarrai deluso!», è il refrain più noto. «Non seguire il gregge, fai la pecora nera e compra la nostra auto», recitava uno spot di una nota casa automobilistica: salvo però omettere che se tutti i possibili acquirenti fanno le pecore nere, finiscono inevitabilmente per seguire il gregge, non si distinguono più dagli altri e si conformano al gusto mediano.

La «parola pubblicitaria» serve a comunicare messaggi e simboli in modo rapido, attraente e facilmente comprensibile. Per questo motivo, anche il suo stile è linguisticamente mediocre: non si tratta di fare letteratura, di affascinare con narrazioni raffinate, o di viaggiare verso l’utopia coi piedi ben piantati in cielo fra i sogni. Qui si deve solo persuadere l’acquirente della bontà del prodotto: e per farlo non resta che elaborare frasi fatte, facilmente memorizzabili e semplici nella sintassi.

Se si osserva con attenzione il contesto relazionale entro cui agisce questo tipo di linguaggio, ci si accorge però che proprio il proliferare di discorsi concisi e orecchiabili produce una degenerazione sociale e politica. Perché questo tipo di linguaggio non solo controlla e orienta i comportamenti economici della massa, ma finisce per trasformare per intero la lingua – e con essa l’orizzonte culturale – della società.

Il parlare è un atto originario di fondamentale importanza. Chi parla e nomina le cose in modo compiuto e col rispetto necessario, conferisce a queste stesse cose realtà. La realtà quindi non è data una volta e per sempre, ma è parlata. Ovvero, una res è proprio quella res, e non un’altra, perché nell’atto di nominarla s’innesca un percorso di ri-conoscimento linguistico che costituisce la cosa stessa e la rende vitale. La realtà non sarebbe ciò che appare – e non si darebbe a ognuno di noi nelle forme in cui siamo abituati a ri-conoscerla – se non esistesse la possibilità di dire le cose (enti) che appaiono, chiamandole per nome. E dare un nome agli enti significa de-finirli, porli in ordine, collocarli all’interno di un contesto ontologico unitario, costituito dai variegati ‘modi d’essere’ (forme delle res), che chiamiamo realtà.

Non è certo il caso di aprire in queste righe una riflessione sul rapporto generativo tra il parlante e la «cosa nominata», ma è pur sempre utile notare che la parola pronunciata modifica il mondo che abitiamo, e il mondo, a sua volta, condiziona il nostro modo di esprimerci.

Per questo motivo, chi impoverisce il linguaggio attraverso il sistematico ricorso allo sluaghghairm trasforma anche l’orizzonte in cui vive, rendendolo sempre più uniforme e monodimensionale. In un contesto sociale in cui lo slogan assurge a gesto linguistico prioritario, l’intero orizzonte sociale, culturale e politico non può far altro che mostrare lo spazio sloganistico come segno del tempo. Se tutto è riconoscibile linguisticamente attraverso lo slogan, diventano tali anche le parole che nominano l’amore, le relazioni sociali, politiche, le dinamiche interpersonali, che per mostrarsi in forma realmente umana avrebbero invece bisogno di profondità, di riflessione, di pazienza linguistica, di tempo generativo. Un amore soggetto a slogan può essere consumato, ma non certo vissuto con la pienezza necessaria. Lo slogan è il sesso che vince sull’eros; è il bisogno che schiaccia il desiderio; è l’oppressione che annulla la libertà di un’esperienza vissuta in pienezza e gratuità: perché l’atto di donare all’altro tutto se stesso palesa una complessità irriducibile e non rappresentabile in uno spot. Quando tutto è slogan, la donazione di sé diventa anch’essa sloganistica: lo slogan quindi trasforma il mondo e l’uomo in res condizionate dal «grido di battaglia» del mercato. Dove tutto ha un prezzo, soggetto alla domanda e all’offerta.

Ora, non è necessario essere dei raffinati glottologi per capire che la semplificazione linguistica sta trasformando radicalmente gli esseri umani e le relazioni che essi costituiscono con l’ambiente circostante. E d’altra parte, chi ha un minimo di profondità intellettuale, comprende molto bene che questo tentativo di compiere una sorta di reductio ad unum linguistica e culturale è volto a uniformare gusti e orientamenti, in vista di una maggiore ottimizzazione del sistema produttivo. La comunicazione per slogan serve a divertire e a rendere orecchiabile un’idea, una pro-posta commerciale (che diventa surrettiziamente im-posta), un messaggio pubblicitario, che puntano a collocare in tutto il mondo i medesimi prodotti. Chi parla non si preoccupa di sapere se la merce reclamizzata o l’ostentazione di una certa idea sia (almeno per lui) davvero buona o nociva, condivisibile o inaccettabile, dispotica o conviviale, sostenibile o distruttiva. L’importante è che la frase ad effetto resti piantata bene in mente agli ascoltatoti, e sappia sovrastare le altre «grida di battaglia» che si affacciano nell’agone con sempre maggior violenza, tenacia e ostinazione.

In un mondo in cui le informazioni sono sovrabbondanti, è necessario andare rapidamente al dunque, e per farlo bisogna ridurre il vocabolario ai soli termini che abbagliano. Per questo motivo, l’uso reiterato di questa tecnica comunicativa finisce per imbarbarire il linguaggio, che punta soltanto all’eufonia e alla pronta memorizzazione, conseguite attraverso metodiche di costruzione sintattica prese in prestito – non prima di averle stravolte – dalla poesia[3]. D’altra parte lo slogan è spesso in rima e costruito secondo una metrica che gli conferisce un andamento ritmico suadente, tale da prestarsi alla facile memorizzazione. La sua fortuna è anzitutto musicale: strutturalmente è di certo più vicino al rap che alla musica «colta». Ovvero, si presenta con un’idea schematica e superficiale, che si esprime in poche formule approssimative[4]. La musica ritmica e le parole eufoniche si fanno jingles, si insinuano nei meandri della memoria e consentono di accomunare una frase ad effetto a un determinato prodotto.

Chi abita dentro l’orizzonte tecnologico-capitalista fa ogni giorno esperienza di questa neolingua. Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno può pensare di farla franca, neppure chi crede di appartenere all’élite culturale. Perché gli stessi pubblicitari sono vittime dei messaggi che inventano: d’altronde se il limite del mio linguaggio è il limite del mio mondo, chi inventa o parla per slogan finisce per vivere irrimediabilmente nel mondo sloganistico che ha creato. Egli ne è parte, ne viene condizionato come tutti gli altri. È questa, se si vuole, la vittoria dello strumento sulla razionalità: è il dominio del mezzo che prende pieno possesso dell’essere umano, trasformandolo dalle fondamenta.

Lo slogan s’impadronisce di tutti noi rendendoci marionette in mano altrui. Slogan è la voce del potere impersonale, è la voce di chi vuole massimizzare il dominio e punta dritto al sodo, ben sapendo che questo sodo è violenza, sopruso, proprietà: ma disconoscendo, al contempo, che proprio quel sodo a cui aspira è la lama affilata con cui l’homo publicitarius sta tagliando il ramo sul quale è seduto.

 

 

  1. Lo slogan è la forma violenta della parola economica

 

Lo sluaghghairm è una lama di coltello che entra nel cuore dell’essere, fino a sfibrarlo; è uno strumento linguistico feroce, che abita la scissione ontologica, se ne nutre, e cibandosene approfondisce il solco che separa il singolo dal contesto in cui si trova[5]. Per colmare questa frattura violenta è necessario portare a compimento l’orizzonte entro cui si rende pensabile ogni parola, ogni azione, ogni istituzione, ogni potere del «nostro» mondo ontologicamente frammentato; è necessario condurre al tramonto l’occidente, ovvero farlo morire, ch’è poi un portarlo alle estreme conseguenze, per vederlo finalmente schiantare sulla linea estrema del proprio mondo; sì che lì, al confine tra cielo e terra, possano scorgersi un giorno le luci di una nuova alba utopica.

Se lo slogan porta all’eccesso la frammentazione ontologica (ovvero la scissione fra l’Io e il contesto naturale, fra l’Io e l’altro da sé: umano e non umano), il logos paziente, rispettoso e pronunciato sottovoce – quasi sibilando – apre le porte a una relazionalità conviviale e fraterna di tipo orizzontale, in cui tutti si riconoscono reciprocamente come parlanti. La parola, che si affranca dalla voracità, conferisce una pacifica realtà al mondo; il discorso conviviale fa partorire lentamente le cose, le ordina sullo spazio esperienziale e le pone in una relazione costitutiva non-violenta: le une senza le altre sarebbero impensabili, perché ogni cosa è proprio quella cosa in virtù dei rapporti ontologici e linguistici che la parola stessa costituisce con l’essere circostante. Mentre il tecnicismo sloganistico scinde i legami e s’impone sulla scena come un Deus ex machina che condiziona il mondo, manipolando le facce esterne (che sono gli elementi formali chiamati significanti) e talvolta anche quelle interne (i significati) dei termini. Per questo lo slogan è lo strumento prediletto dall’ideologia, che pretende di dire il vero e costringe la realtà poliedrica ad entrare all’interno di uno schema preordinato, sfinendo la realtà stessa e coartando la libertà d’ognuno.

Chi vuole liberare il proprio linguaggio dalla violenza non può far altro, allora, che ripensare dalle fondamenta nuove forme sintattiche capaci di «prendere tempo». Il discorso paziente e-duca i parlanti, che dalla relazione conviviale traggono nuova linfa esistenziale; si vive nel discorso, perché le parole che nominano le cose, consentono un reciproco riconoscimento. Chiamare qualcosa col proprio nome significa dargli realtà, portarlo in superficie, relazionarsi al suo modo d’essere, ovvero alla sua forma. E non è forse proprio questa l’idea di Simone Weil, quando nel ragionare sul bene e sul male scrisse: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»[6]?

 

L’uso sistematico dello slogan non è ristretto al solo ambito economico, ma in una società dell’onnimercificazione tutto viene ridotto a mercato e a relazioni mercantili. Si pensi ad esempio al condizionamento subito dallo sport e dalla politica, che dello slogan continuano a fare ampio uso con conseguenze incalcolabili sulla riduzione dell’immaginario sociale. Il motto politico imbarbarisce il discorso e lo rende commerciale. Le proposte programmatiche si trasformano in banali consigli per gli acquisti, in promesse vuote, anche se magari di particolare effetto. E non è un caso che la politica sia scomparsa ormai da tempo dalle sedi di partito, dai luoghi storici d’aggregazione, dalle piazze, dai cortei, dai luoghi di cultura, finendo relegata negli angusti ambiti dei talk show televisivi. Luoghi fittizi in cui maschere parlanti urlano e cercano il consenso senza curare minimamente la profondità della riflessione e il rigore del pensiero.

Ma c’è di più. Un di più rappresentato dal web, ch’è ormai la dimensione principale in cui si trova a vivere l’homo technologicus. E questo di più è una voragine senza fondo, che rischia di inghiottire ciò che incontra, ricacciandolo nel ventre dell’insignificanza. Perché la parola pronunciata nello spazio virtuale è parola che vive a nessun dove: ma questa, più che anelare all’utopia, spinge difilato verso la distopia ideologica del potere tecnico che sottomette ogni cosa all’incremento del suo dominio.

Quando si ragiona sul linguaggio in rapporto al mondo virtuale, è necessario cercare di capire quale sia la dimensione verbale di quel mondo. O per dirla altrimenti: dato che i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio, quando mi trovo a chattare sui social, che tipo di parole uso? E che mondo è quello dei social? Dove si trova? E che valore hanno le parole mediate da una tastiera e da uno schermo? E l’altro, con cui entro in relazione, esiste davvero, è una persona che conosco e che immagino stia parlando con me in questo momento, o ignorando chi sia (perché non lo conosco, non l’ho mai visto, non so neppure dove abiti), io suppongo che il tizio con cui credo di parlare esista sul serio, quando invece potrebbe essere un fake, magari anche autogenerato dal computer?

Ma non è ancora tutto. La tecnologia ha finito per trasformare dalle fondamenta il mondo, e con esso anche l’essere umano: le sue abitudini, il suo linguaggio, le sue passioni. A fronte di una scissione ontologica, di una frantumazione della relazione sociale, si cerca la connessione continua col mondo virtuale. Nessuno è più in grado di stare con se stesso, di abitare il silenzio, e paradossalmente ciò avviene all’interno di un contesto sociale che spinge sempre più alla frammentazione, alla disgregazione dei legami sociali. Perché quando si è soli si è anche più facilmente preda del mercato. E così, l’homo technologicus abita da ignaro la separazione, il rintanamento sociale, per poi connettersi alla grande rete virtuale che collega singole monadi in tutto il mondo. Egli incarna realmente la solitudine, per vivere relazioni artificiali sui social. E nel percorrere a perdifiato la contemporaneità tecnica, arriva al paradosso per cui i ritmi di vita sono così pressanti e disumani da rendergli impossibile qualunque altro tipo di rapporto che non sia mediato dallo schermo di un computer. Perché deve lavorare, consumare, produrre a ritmi sempre più sostenuti. E al contempo – è qui l’inganno – crede a torto che quello spazio di vita sociale perduto, lo possa recuperare in maniera fittizia navigando in internet: con l’illusione di avere il vento in poppa e il mondo a portata di mano.

Ma sui social non si può parlare davvero, ed è impossibile esprimere un ragionamento sul serio, un pensiero profondo che abbia un minimo senso, che intenda esprimere un sentimento, una visione, una lettura del mondo e della vita. Davanti allo schermo non ci sono gli occhi dell’altro a guardarti. Non si sente il suo respiro affannato o gioioso, non vedi le emozioni scintillargli dagli occhi, e non esiste il mondo con le sue luci e i suoi colori cangianti. Hai solo uno spazio bianco virtuale su cui scrivere uno stato (d’animo?) che qualcuno commenterà, probabilmente senza neppure averlo letto bene. D’altra parte non c’è tempo, e le parole sono sempre troppe. Così, per fare in fretta, non resta che esprimersi per slogan, per frasi fatte, masticate e vomitate una miriade di volte da pubblicitari che intendono orientare gusti e bisogni. Frasi che non significano niente, perché sono decontestualizzate, perché non si ha l’agio di difenderle, di argomentarle, di criticarle. Nei social è come se le parole calassero dall’alto, da un altrove insondabile, sconosciuto. E allora tutto diventa inutile: non ha più senso distinguere, articolare pensieri, ragionare. La parola non significa più niente, ma serve soltanto a lanciare un grido. Che maschera spesso un’accorata richiesta di riconoscimento. D’altronde cos’altro è la lotta per emergere sugli altri, per scalare la piramide sociale, per la fama? Cos’è la rincorsa al successo televisivo e mediatico in genere? È un disperato bisogno di vedersi riconosciuti in un mondo che ha distrutto le relazioni ontologiche, i legami sociali e familiari, lasciando tutti soli e in balia del mercato.

Per tutta questa serie di motivi sin qui discussi, la decrescita felice – che si propone di ricucire le scissioni ontologiche, riequilibrando i rapporti fra gli esseri umani e il resto della natura – non può assumere in alcun modo le caratteristiche di una «parola bomba», né tanto meno venir confusa con lo slogan. Perché lo slogan è la forma violenta della parola economica.

 

 

 

[1] Per comprendere in quale senso debbano essere intese la cultura capitalista e quella tecnologico-capitalista si rimanda al saggio: A. Pertosa, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014, (si veda in particolare il capitolo III).

[2] M. Cortellazzo – P. Zolli, Il nuovo etimologico, Zanichelli, Bologna 2015, p. 1540 (nota relativa alla voce slògan).

[3] Cfr. F. Sabatini, Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, «Il Ponte» 24 (1968), pp. 1046-1062 (il saggio è stato ristampato in Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità. Antologia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma 1987, pp. 91-98; poi in Chiantera 1989, pp. 121-138); A. Stefinlongo, L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Aracne, Roma 2008, pp. 195-219.

[4] Il vocabolario Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2003, p. 1690.

[5] Della scissione ontologica ho parlato diffusamente in Pertosa, Dall’economia all’eutéleia, cit. (si vedano in particolare i capitoli III e V).

[6] S. Weil, Quaderni (volume primo), Adelphi, Milano 2010, p. 199 (or. Cahiers, I, Librairie Plon, Paris 1970).

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“Destra e sinistra addio”: Maurizio Pallante e una nuova declinazione dell’uguaglianza

“Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono”.

 

L’ultimo saggio di Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio, è in un certo senso il sedimentato culturale di un processo di evoluzione teorica cominciato dall’autore ormai vent’anni fa, con Le tecnologie d’armonia (Bollati Boringhieri, Torino 1994), e proseguito con l’elaborazione della sua «decrescita felice», che si caratterizza per i richiami all’autoproduzione e alla proposta di riduzione selettiva di tutte quelle merci che non sono beni, e che in alcun modo possono diventarlo.

 

Da decenni Pallante critica il modo di produzione industriale della società tecnologico-capitalista, che si sta dirigendo – ormai, forse, senza alcuna possibilità di recupero – verso la catastrofe. Tuttavia in questa sua ultima fatica, non si limita ad osservare gli aspetti critici della razionalità economica occidentale, ma si spinge fino al cuore. Al centro.

 

E spingersi al centro significa mettere in discussione le categorie culturali e politiche che hanno creato le condizioni per considerare positivamente l’attuale modo di produzione industriale, responsabile di una crescita economica – con annesso disastro ambientale – senza precedenti. E le categorie fondamentali di cui si parla sono quelle della destra e della sinistra. Parole, queste, che negli ultimi duecento anni hanno distinto chi riteneva le diseguaglianze tra gli esseri umani costitutive e naturali (destra), e chi al contrario le considerava di origine sociale, e quindi riducibili con accorgimenti politici ed economici adeguati (sinistra).

 

Il saggio Destra e sinistra addio si manifesta al momento opportuno. E non solo, si badi, perché la politica italiana (ma è forse diverso altrove, nel vasto mare occidentale?) palesa una mediocrità costitutiva, ma proprio perché destra e sinistra operano ovunque sulla base di una comune valutazione positiva del modo di produzione industriale, ch’è ormai giunto al capolinea. Entrambe considerano le rivoluzioni industriali un progresso rispetto al passato, salvo poi distinguersi quanto alla modalità di distribuzione dei benefici. Entrambe hanno concorso a spingere masse di persone dalle campagne alle città, trasformando milioni di contadini in milioni di proletari al servizio del grande capitale. La storia ha poi mostrato che le politiche della destra sono più efficaci per far crescere l’economia e la competizione di quelle di sinistra. E i risultati di questa razionalità sventurata sono, ormai, sotto gli occhi di tutti.

 

Ma veniamo al saggio. Per capirne appieno il senso è necessario intanto riflettere sul titolo. Dire Destra e sinistra addio non equivale a sostenere che la destra è uguale alla sinistra. D’altronde lo stesso autore mette più volte in risalto le differenti pulsioni: quelle della destra alla disuguaglianza, e della sinistra all’uguaglianza. Ma la pulsione all’uguaglianza, è questo un nodo cruciale, non è prerogativa assoluta della sinistra. Pallante afferma a ragione, infatti, che la pulsione all’uguaglianza preesiste alla sinistra e le sopravviverà.

 

A partire da questa considerazione, diventa fondamentale allora soffermarsi sul sottotitolo del saggio: Per una nuova declinazione dell’uguaglianza. È appunto qui il segreto: l’uguaglianza. L’uguaglianza oltre la sinistra.

 

Questa impostazione, per essere compresa appieno, richiede una riconsiderazione ontologica del tutto. Necessita di un ripensamento delle relazioni in senso orizzontale non solo fra esseri umani, bensì anche fra esseri umani e contesto naturale (di cui l’essere umano fa parte). L’uomo non è più il signore della terra, ma è un modo d’essere fra altri modi d’essere che compartecipano all’unico essere.

 

Pallante nota, allora, come per ripensare la società in modo ecologicamente sostenibile, sia fondamentale mettere in discussione l’antropocentrismo che caratterizza l’occidente in senso violento.

 

Maurizio Pallante

Maurizio Pallante

 

In queste pagine, mi pare si aprano spazi nuovi, utopie che baluginano all’orizzonte e che – richiamandosi esplicitamente a una spiritualità costitutiva dell’essere – creano le condizioni per un ripensamento cosmocentrico della cultura, della società, della politica e del mercato.

Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono, ripartendo dal singolo che non si pone più su un piedistallo rispetto al contesto. E quel singolo-in-relazione è il medesimo a cui si rivolge anche Papa Francesco nella sua Laudato si’: «bisogna operare il bene, dal momento che il male esercitato sul mondo è male fatto a se stessi». Tutto è in relazione. Perché l’essere è tutto, e niente è fuori dall’essere.

 

Questa nuova visione del mondo è troppo grande e complessa per poter essere espressa e compresa politicamente dalle categorie di destra e di sinistra. Qui c’è di più. C’è quella visione del mondo che si sottrae alla volontà di sopraffazione per lasciarsi dire ancora, ancora e ancora da una parola polisemica, che spalanca spazi di poesia. Quella poesia del vivere in comunione col creato e con la natura a cui tutti noi afferiamo, senza distinzione.

 

In questo senso – e per molti altri, che ognuno di voi saprà indicare – Destra e sinistra addio è un libro che si manifesta in un tempo opportuno. Perché se ci sarà ancora la possibilità di un domani, destra e sinistra dovranno appartenere necessariamente a un dolorosissimo passato.

Alessandro Pertosa

Fonte: Italiachecambia.org

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Reddito incondizionato. Riflessioni di Vincent Cheynet

Credo sia utile far conoscere in Italia queste riflessioni critiche sul reddito di cittadinanza, presentate da Vincent Cheynet in un video su You Tube. Le sue argomentazioni sono molto stimolanti, ma sarebbe utile integrarle con una proposta finalizzata a ridurre il numero dei disoccupati, soprattutto tra i giovani.

Questa piaga, che amareggia la vita di una percentuale inaccettabile di persone per periodi di tempo sempre più lunghi, deriva dal fatto che l’orario di lavoro di 8 ore è rimasto immutato da quasi un secolo (in Italia è stato introdotto nel 1923), mentre le innovazioni tecnologiche hanno accresciuto in modo straordinario la produttività, riducendo al contempo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto.

Questo processo, se non è accompagnato da una riduzione dell’orario di lavoro, comporta un aumento dell’offerta di merci e una contestuale riduzione della domanda, perché soltanto gli occupati ricevono una retribuzione che li mette in condizione di acquistare le merci che vengono prodotte. Oltre la sofferenza di un numero crescente di persone che non riescono a soddisfare le loro esigenze vitali autonomamente, l’aumento della produttività senza un aumento dell’occupazione è la causa della crisi iniziata nel 2008 e ancora ben lungi dall’essere risolta, o quanto meno attenuata. Poiché, a mio modo di vedere, le argomentazioni di Vincent Cheynet sono culturalmente fondate, l’unica alternativa per aumentare il numero delle persone che si guadagnano dignitosamente la vita col loro lavoro è una drastica riduzione dell’orario di lavoro.

Questo sarebbe anche un modo molto efficiente, oltre che equo, di aumentare la domanda e, quindi, di attenuare la crisi. Ma si scontra con la remora culturale da parte degli occupati ad accettare una riduzione del loro orario di lavoro, non solo perché aprirebbe inevitabilmente una discussione sulla riduzione delle loro retribuzioni, ma soprattutto perché una società che identifica il benessere con la crescita della produzione tende ad appiattire gli esseri umani sulla dimensione di produttori e consumatori di merci, riducendo l’importanza della creatività, dell’arte, delle relazioni umane, della spiritualità, della conoscenza disinteressata.

In questo contesto la riduzione dell’orario di lavoro può essere percepita soltanto come una diminuzione del tempo impegnato nelle attività che danno un senso alla vita, come una riduzione della propria realizzazione esistenziale e della propria importanza sociale, mentre l’aumento del tempo in cui non si svolge il ruolo di produttore di merci o di fornitore di servizi non può che essere considerato un aumento del “tempo libero”, del tempo in cui ci si distrae, ci si riposa, o si cerca di “ammazzare il tempo” con qualche sottospecie di lavoro o di hobby. Non come un aumento del tempo disponibile per svolgere altri tipi di attività, non lucrative, ancora più importanti delle attività finalizzate alla sopravvivenza e alla soddisfazione delle esigenze materiali.

La definizione del paradigma culturale della decrescita non può prescindere dall’affrontare il tema del lavoro. Queste riflessioni di Vincent Cheynet costituiscono un importante contributo da approfondire.

Maurizio Pallante, 15 dicembre 2015

 

 

 

Buongiorno, mi chiamo Vincent Cheynet, sono il caporedattore del mensile francese La Décroissance. Sono anche l’autore di un nuovo saggio intitolato Décroissance ou décadence (Decrescita o decadenza), che è stato pubblicato nel 2014 alle edizioni Le Pas de côté.

Qui vorrei fare un chiarimento su un argomento esterno alla decrescita, che affronto nel mio libro. Questo argomento è il “reddito incondizionato”, definito anche “reddito di cittadinanza” o con altre denominazioni. Ce ne sono molte per indicarlo. Abbiamo visto negli ultimi anni alcuni attivisti che hanno cercato di inserire questa rivendicazione nel mondo dell’obiezione alla crescita presentandola come una sorta di chiave di volta della decrescita.

La rivendicazione di un “reddito incondizionato”, cioè di uno stipendio pagato per tutta la vita dallo Stato, sia se si scelga di lavorare o no, trova un’eco in alcuni attivisti di sinistra, tra gli ambientalisti, gli “alter-mondialisti”, ma anche di destra e fino alla “destra della destra”. Il papa dei “neo-pagani”, Alain de Benoist, ha dichiarato che questa idea “merita di essere studiata da vicino”. E le ha dedicato un approfondimento nel numero di gennaio 2014 della sua rivista Eléments (Elementi).

Presentata ingenuamente o abusivamente da alcuni attivisti con le connotazioni di un’idea di “sinistra”, questa rivendicazione sembra, in realtà, totalmente trasversale allo spartiacque tradizionale. Così l’assemblea costituente del “Movimento francese per un reddito di base” si è svolta sotto la direzione congiunta di una personalità come Patrick Viveret, classificato tra gli intellettuali alter-mondialisti, e quella di Christine Boutin, presidente del “Parti chrétien-démocrate (Partito Cristiano-democratico), di destra.

In effetti, questo progetto di reddito incondizionato ha le sue radici molto più nel pensiero liberale e ultra-liberale, come vedremo.

Recentemente, Laurent Joffrin, il famoso (in Francia) direttore del quotidiano Libération si è entusiasmato per questa idea di “reddito incondizionato”, sotto l’influenza di una stella ascendente dell’ultra-liberalismo in Francia, Gaspard Koenig, che è il creatore del think tank liberale “GenerationLibre”(Generazione libera).

Il 22 luglio 2015, Laurent Joffrin ha spiegato nel suo giornale che la proposta è stata “originariamente concepita da Milton Friedman e destinata non solo a eliminare la grande miseria, ma anche di riformare da cima a fondo uno Stato-provvidenza che questi intellettuali considerano obeso e inefficace”. Ricordiamo che Milton Friedman è uno dei più famosi esponenti del liberalismo economico. È il fondatore della Scuola di Chicago, che ha diffuso le idee ultraliberali in tutto il mondo.

Ma Libération non è l’unico giornale a difendere questa idea di reddito incondizionato. Dall’altro lato della Manica, il Financial Times, cioè il giornale dell’alta borghesia inglese, si domandava nel numero del 5 Maggio 2015 come potrebbe essere un programma “conservatore radicale”. La sua risposta: gettare alla spazzatura tutte le prestazioni sociali e sostituirle con un reddito minimo per tutti di 8.000 sterline all’anno cioè circa 11.000 euro. Sarebbe la fine dei contributi sociali, la fine della sicurezza sociale. La privatizzazione completa della scuola. Eccetera. Dunque è molto logico che troviamo come promotori del reddito incondizionato dei personaggi del liberalismo e ultra-liberalismo come Alain Madelin (famoso in Francia per essere un politico dell’ultra-liberalismo) e il suo figlio spirituale in Francia Gaspard Koenig, o negli Stati Uniti Milton Friedman. Però questa proposta trova dei sostenitori anche nella destra moderata in personalità come Dominique Villepin e Christine Boutin, e nei grandi media, come abbiamo visto.

E qui veniamo alla decrescita. Nel mio nuovo saggio, ho scritto a questo proposito: «Il ruolo dei sostenitori del reddito e della gratuità incondizionati sarà di sovvertire ciò che vi è di sovversivo nella decrescita, cioè la possibilità di svezzamento: tenteranno di rivoltare la decrescita contro sé stessa per farne il supporto di una teoria del ritorno alla fase orale. È sintomatico questo mantenimento nell’età del seno. Di connotazione matriarcale, trova in queste condizioni un terreno fertile per svilupparsi. È altrettanto rivelatore che i libertari del Parti pirate (Partito pirata) abbiano subito adottato questa proposta. Rimanere un geek mantenuto in vita dalla poppata di un papà e una mamma odiati, questo programma non poteva che entusiasmare questi cyber umani».[1] Secondo questa prospettiva, non è sorprendente che un “politologo” deleuziano, politologo tra virgolette molto grandi, legittimi costantemente questa rivendicazione nei suoi interventi in nome del “ricordo del seno della madre”. Alain Valterio, psicologo junghiano, osserva: “Quando si sogna un altro mondo, è sempre l’ideale di un mondo più materno che viene in mente.” Questa rivendicazione, in nome del “ricordo del seno della madre ” rimanda direttamente alle tesi da Zbigniew Brzezinski e della Commissione Trilaterale. Ecco quanto si può leggere su Brzezinski e la Commissione Trilaterale su Wikipedia: « La parola tittytainment è stata utilizzata nel 1995 dal democratico Brzezinski, membro della Commissione Trilaterale ed ex consigliere di Jimmy Carter, nelle conclusioni del primo Stato del Forum mondiale al Fairmont Hotel nella città di San Francisco. L’obiettivo dell’incontro era analizzare lo stato del mondo, suggerire degli obiettivi e degli obiettivi desiderabili, proporre delle attività iniziali per raggiungerli e definire politiche globali per ottenere la loro attuazione. I dirigenti riuniti a San Francisco (Gorbaciov, Bush, Margaret Thatcher, Bill Gates, Ted Turner, eccetera), sono arrivati alla conclusione che “nel prossimo secolo, due decimi della popolazione attiva basterebbero a mantenere l’attività dell’economia globale”. Il problema che si porrà allora sarà il modo di governare l’80 per cento della popolazione restante, superflua nella logica liberista, priva di lavoro e di opportunità di qualsiasi tipo, una condizione che alimenterà una frustrazione crescente. È qui che è entrato in gioco il concetto proposto da Brzezinski. Brzezinski ha proposto il “tittytainment” una miscela di alimento fisico e psicologico che addormenterebbe le masse e controllerebbe le loro frustrazioni e proteste prevedibili. Lo stesso Brzezinski spiega l’origine del termine tittytainment, come una combinazione delle parole “tit” (“seno” in inglese) o “titillate” (“stuzzicare per eccitare gentilmente” in inglese) ed “Entertainment” (intrattenimento), che in nessun caso , deve essere interpretato con una connotazione sessuale, ma invece come allusione all’effetto soporifero e letargico che l’allattamento materno produce nel bambino quando poppa». Ecco, relegare una gran parte della popolazione davanti agli schermi in un mondo virtuale, fornendole l’imbeccata minima grazie a questo reddito incondizionato si inserisce perfettamente in questa logica. È già purtroppo in opera per un segmento crescente della popolazione. È inoltre buffo osservare le persone  più pronte a volere la distruzione di uno Stato designato come “intrinsecamente totalitario”, reclamare il suo seno per tutta la loro esistenza. Interpellato su questa idea, il filosofo anti-liberal Jean-Claude Michea sostiene che questa proposta di reddito incondizionato non potrebbe “certamente essere il fondamento etico di una società socialista.” (La Décroissance, numero 100, giugno 2013).

Nel suo giornale Fakir, il giornalista della “sinistra della sinistra” François Ruffin ricordava che «anche noi siamo attaccati a questa “moralità politica”: ” Tu non consumerai più di ciò che produci”, o ancora, come ha scritto Michel Clouscard: “Non lavorate mai”, che equivale a dire chiaramente “Lasciate o fate lavorare gli altri”. E François Ruffin metteva in guardia che: «il reddito di base – o anche la sua rivendicazione – non scavi ancora più il divario tra occupati produttori di beni e servizi (nel terzo mondo o qui), e una piccola borghesia culturale consumatrice, affinché questo passo avanti serva all’emancipazione di tutti e non sia il supporto all’edonismo di una classe agiata». (Fakir, numero 64, Febbraio 2014). In effetti, il padre della critica del liberal-libertarismo, il filosofo Michel Clouscard, vicino al Partito comunista, presentava questo tipo di rivendicazione come il prodotto dell’antropologia capitalista: voler consumare senza produrre, ovvero l’aspirazione della piccola borghesia a elevarsi nelle classi sociali raggiungendo l’aristocrazia oziosa e la grande borghesia che vive di rendita. François Brune, il “papa dell’anti-pubblicità” e collaboratore di Le Monde Diplomatique osserva : «Ciò che mi stupisce, di tutti coloro che reclamano un “reddito universale” è l’idea che ho il diritto a tutti i miei diritti senza dovermi preoccupare di tutti i miei doveri. La giusta nozione sarebbe di definire ciò che in cambio di un “reddito universale” dovrei fornire come lavoro universale! Sotto la copertura di un’opinione progressista, questi utopisti estendono a tutti l’ideologia del “vivere di rendita” che caratterizzava l’ambizione dei borghesi del 19° secolo! Ogni uomo che vuole vivere degnamente desidera meritare col suo lavoro i mezzi della sua sussistenza: è il disprezzo di considerare la possibilità di essere un assistito a vita». Ci sarebbe ancora molto a dire su questa rivendicazione portata da «ribelli» per raggiungere la «classe agiata» esente dal dovere di produrre, che vive da parassita sulle spalle delle classi lavoratrici e della natura. Questa aspirazione è stata l’argomento dell’economista e sociologo statunitense Thorstein Veblen (1857-1929) nel suo capolavoro The Theory of the Leisure Class (Teoria della classe agiata) pubblicato nel 1899. La presenza di Patrick Viveret, teorico e messaggero dei famosi “Creativi culturali”, tra i più ferventi sostenitori di questo progetto di reddito incondizionato è ovviamente anche molto rivelatrice.

Il movimento operaio ha sempre sacralizzato il lavoro – come i tempi di riposo per altro – e non era tenero con gli oziosi. Per documentarlo, ricordiamo soltanto qualche parola dell’Internazionale: «L’ozioso andrà alloggiare altrove. È della nostra carne che essi si nutrono». È quindi particolarmente buffo sentir utilizzare la vecchia retorica stalinista di “deriva di destra” da parte di alcuni attivisti del reddito incondizionato che respingono così ogni obiezione al loro progetto. I tentativi di intimidazione, il terrorismo intellettuale, procedono speditamente. Sono certo l’antitesi di ciò che deve essere il dibattito, la dialettica, soprattutto per la decrescita.

Non di meno è vero che un visionario precursore della decrescita come Andrée Gorz è stato un sostenitore di questa idea di reddito, come è stato cieco al pericolo del condizionamento digitale. Essere fedeli a queste grandi menti critiche, è saper essere critici di fronte al loro lavoro, non santificarli e limitarsi a interrogarli. Per farlo, è sufficiente convocare altri grandi precursori della decrescita come Tolstoj, Gandhi, Lanza del Vasto, eccetera, per i quali la difesa del lavoro era al centro della loro opera. Infatti, il lavoro non è solamente un tripalium, cioè uno strumento di tortura (da cui derivano il francese travailler, lo spagnolo trabajar e nei dialetti italiani il siciliano travagghiari e il sardo traballari, nota del traduttore), è anche un mezzo di realizzazione di sé, di realizzazione sociale.

Che dire per concludere ? I grandi media hanno bisogno di due grandi rappresentazioni per denigrare e squalificare la decrescita. La prima è rappresentare gli obiettori alla crescita come una sorta di adepti di un revival hippy che vivono nudi nei boschi. La seconda è quella di ideologi avulsi da ogni realtà. Di conseguenza le poche volte che si volgono verso la decrescita, lo fanno verso questi tipi di rappresentazione. Chiunque capirà bene il perché, dato il loro inquadramento economico attuale e gli interessi per cui lavorano. Questa idea demagogica di un reddito incondizionato, soprattutto in piena crisi del debito, è una manna dal cielo per loro, come per tutti i detrattori della decrescita, che fanno di tutto per presentarla come una sorta di coalizione d’irresponsabili infantili.

[1]              Geek: è un termine di origine anglosassone che indica una persona eccentrica o non collocabile nella massa, con una forte passione o esperienza nel campo tecnologico-digitale o in un altro speciale campo di interesse, che lo porta a essere percepito come troppo intellettuale.