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La democrazia e i suoi simulacri

di Maurizio Pallante

Il valore fondante della democrazia consiste nel fatto che, se si garantisce un pari potere decisionale a tutte le opinioni politiche che riconoscano pari dignità a tutte le opinioni politiche, le decisioni relative a ogni aspetto della vita sociale vengono prese a maggioranza dopo aver valutato i punti di vista di tutti i gruppi d’interesse, la più ampia gamma di pareri professionali, tecnici e scientifici, l’espressione delle differenti sensibilità culturali. Le scelte politiche fatte in questo modo hanno le maggiori possibilità di rispondere alle esigenze della maggior parte della popolazione senza penalizzare eccessivamente gli strati sociali che non le condividono. Questo processo non garantisce che abbiano sempre e comunque queste caratteristiche positive, ma è il più favorevole affinché ciò avvenga.

Se, invece, nelle dinamiche politiche la ricerca della maggioranza prevale sul confronto delle idee, la democrazia viene rispettata formalmente, ma si trasforma nell’affermazione del più forte numericamente. Di conseguenza i contributi che possono essere dati dalle minoranze alla definizione delle decisioni da prendere vengono mortificati, le decisioni che rispondono agli interessi e al sistema dei valori degli strati sociali rappresentati dalla maggioranza possono penalizzare pesantemente gli strati sociali rappresentati dalle minoranze, si creano lacerazioni nel tessuto sociale. La democrazia si trasforma nel suo simulacro.

In Italia la concezione alta della democrazia si è realizzata esclusivamente nel breve periodo dell’Assemblea costituente (25 giugno 1946 – 31 gennaio 1948) e la carta costituzionale che ne è scaturita ha definito le condizioni per realizzare al meglio le sue potenzialità. In questo contesto valoriale, per garantire l’apporto di tutti gli orientamenti politici e culturali ai processi decisionali fu adottata una legge elettorale proporzionale pura. Questa concezione della democrazia durò pochissimo. Fu abbandonata già nelle elezioni del 1948, in cui lo scontro per conquistare la maggioranza si basò sull’esasperazione delle differenze ideologiche e non sul confronto dei contenuti programmatici. Fu trasformata, anche giuridicamente, nella versione in cui la ricerca della maggioranza numerica prevale sul confronto delle idee con la riforma della legge elettorale del 1953 – passata alla storia con la definizione di legge truffa coniata dai suoi avversari – che assegnava il 65 per cento dei seggi della Camera dei deputati al partito o alla coalizione di partiti che avesse ottenuto più della metà dei voti validi. La coalizione di maggioranza, che sulla base della sua preponderanza numerica aveva imposto l’adozione della legge, non superò il 50 per cento dei voti, il premio non scattò e la legge fu abolita. Non per questo fu abbandonata nella prassi la concezione della democrazia come affermazione del più forte numericamente, che cominciò ad attenuarsi soltanto all’inizio degli anni sessanta.

La ripresa del confronto sui contenuti tra orientamenti politici e culturali diversi consentì, tra il 1962 e il 1978, di approvare una serie di riforme molto importanti: l’estensione dell’obbligo scolastico ai 15 anni di età, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, il diritto di famiglia, le Regioni, il Sistema Sanitario Nazionale, lo Statuto dei lavoratori. Questa fase si chiuse in maniera drammatica nel 1978 con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, che segnò la ripresa della concezione della democrazia come gestione del potere da parte del più forte numericamente.

Lo stesso processo di trasformazione della democrazia avvenuto a livello istituzionale si è riprodotto inevitabilmente nelle dinamiche interne ai partiti, soprattutto quelli al governo, dove alle correnti veniva riconosciuto il diritto di indicare un numero di ministri e sottosegretari in proporzione alla loro consistenza numerica. Poiché l’esercizio del potere era indispensabile per sostenere gli interessi delle categorie sociali da cui si ricevevano i voti necessari a ottenere la maggioranza, la democrazia si è ridotta sempre di più a essere un esercizio del potere conquistato in base alla prevalenza numerica e finalizzato a mantenere la prevalenza numerica per continuare a esercitare il potere.

Questa negazione sostanziale della democrazia, ottenuta con l’adozione delle sue procedure formali, è stata sostenuta da una sistematica riduzione delle sue prerogative in nome della governabilità. Se la democrazia viene di fatto privata della sua funzione di sistema decisionale fondato sul confronto e la mediazione tra differenti orientamenti politici, la conquista e il mantenimento della maggioranza numerica sono facilitati dalla sostituzione del sistema elettorale proporzionale col sistema maggioritario, come è avvenuto in Italia con la riforma elettorale del 1993. Il maggioritario riduce anche formalmente la democrazia a competizione tra due schieramenti contrapposti per conquistare la maggioranza numerica. Finalità che è stata confermata dalla progressiva riduzione delle differenze di contenuti programmatici tra i partiti.

Su cosa si confrontano due schieramenti che sostengono due modalità parzialmente differenti per raggiungere lo stesso scopo di far crescere l’economia, se non sulla conquista della maggioranza per esercitare il potere?

Gli orientamenti politici che non accettano di rientrare in uno dei due, perché si propongono di tutelare gli interessi di categorie sociali non rappresentate adeguatamente da essi, vengono esclusi dalla possibilità di contribuire alla formulazione delle decisioni da prendere, come richiederebbe la concezione alta della democrazia. Il risultato inevitabile di queste esclusioni è l’aumento del numero di coloro che non si sentono rappresentati da nessuno dei due schieramenti e di conseguenza non vanno a votare, o annullano la scheda, o la lasciano in bianco, o votano, turandosi il naso, non a favore di uno di essi, ma contro quello che ritengono più lontano dalle loro idee.

La trasformazione della democrazia nel suo simulacro ha fatto scendere la percentuale dei votanti a valori in cui la maggioranza dei voti rappresenta una piccola minoranza degli elettori.

Attualmente in Italia va a votare tra il 50 e il 70 per cento degli aventi diritto, ma nelle elezioni regionali del 2014 in Emilia Romagna non è stato raggiunto il 38 per cento. Con i premi di maggioranza previsti dalle leggi elettorali basta raggiungere il 40 per cento dei voti – che, con una percentuale di votanti del 50 per cento rappresentano il 20 per cento del corpo elettorale – per ottenere il 60 per cento dei seggi.
Si può considerare democratico un sistema che assegna una maggioranza assoluta qualificata a una coalizione di partiti votata da un quinto degli elettori?

La concezione alta della democrazia implica l’ascolto rispettoso delle idee espresse da chi la pensa diversamente, la capacità di argomentare rigorosamente e in maniera persuasiva le proprie opinioni, la disponibilità a modificarle. Seleziona i migliori.

La concezione competitiva della democrazia implica il rifiuto di prendere in considerazione le opinioni di chi la pensa diversamente, annulla la necessità di argomentare rigorosamente e in maniera persuasiva le proprie opinioni perché sono i numeri a farle prevalere, favorisce l’affermazione delle persone più aggressive, sia nella maggioranza, sia nella minoranza. Seleziona i peggiori.

Uscire da questa spirale di negatività crescente non è facile, perché la concezione alta della democrazia è sparita dall’immaginario collettivo, mentre l’asprezza della contrapposizione tra partiti, che non di rado nelle sedi istituzionali sfiora i limiti della violenza fisica, ha diffuso l’idea che quello sia l’unico modo di fare politica. Queste dinamiche conflittuali vengono amplificate dai mezzi di comunicazione di massa in conseguenza della loro spudorata trasformazione da strumenti di informazione a strumenti di propaganda dell’uno o dell’altro degli schieramenti politici in competizione. In questo contesto la concezione alta della democrazia viene considerata una forma d’ingenuità da anime belle che non conoscono la dura realtà della vita e sottovalutano la cattiveria dell’animo umano.

Una proposta formulata recentemente per ridare vitalità alla democrazia nella sua accezione etimologica di governo del popolo, è l’uso dell’informatica per consentire agli iscritti a un partito di pronunciarsi sulle decisioni da prendere su temi di particolare rilevanza politica, o di partecipare alla formazione delle liste elettorali indicando un nome da un elenco di autocandidature precedentemente filtrate da un’apposita commissione. In realtà questa proposta manifesta quanto profondamente sia penetrata nell’immaginario collettivo la convinzione che la democrazia si identifichi con la ricerca della prevalenza numerica, e non con la formazione di una maggioranza in conseguenza di un confronto di idee in cui ognuno ha la possibilità di maturare un’opinione consapevole dopo una discussione approfondita, sia con chi la pensa allo stesso modo, sia con chi ha opinioni diverse.

Se gli iscritti a un partito, ognuno chiuso nella sua stanza davanti al suo computer, schiacciano un tasto per indicare la loro preferenza tra due possibilità alternative di scelta, si sta semplicemente effettuando una conta per verificare quale delle due opzioni abbia il maggior numero di consensi. Se gli iscritti a un partito, ognuno chiuso nella sua stanza davanti al suo computer, schiacciando un tasto indicano un nome da un elenco di autocandidature supportate soltanto da un curriculum e da una dichiarazione d’intenti, si sta semplicemente effettuando la conta di chi ha il maggior numero di sostenitori, amici e parenti. E si offre la possibilità di presentare la propria autocandidatura anche a chi non ha niente a che fare col partito, ma si inserisce in questo meccanismo soltanto perché intravede la possibilità di essere eletto.

Invece di rafforzare la democrazia, questo uso dell’informatica ne costituisce un altro simulacro. Una procedura veramente democratica si realizzerebbe se gli attivisti di un territorio indicassero, dopo un’ampia discussione aperta alla popolazione, il nome di uno di loro che conoscono bene perché si è distinto per il suo impegno sui problemi sociali, economici e ambientali locali.

Nelle forme semplificate di consultazione in cui i consultati possono soltanto dire sì o no a una scelta effettuata da chi gestisce il potere, si annida il germe del plebiscito. Questa procedura è stata usata, al posto delle elezioni, da regimi antidemocratici per sottoporre alla ratifica degli elettori una lista bloccata di candidati alle assemblee elettive predisposta dal partito al governo. Se si utilizza per chiedere agli iscritti di un partito se condividono o meno una decisione presa dai suoi organi dirigenti, o anche soltanto dal suo capo politico, diventa uno strumento per tacitare la minoranza interna che vi si oppone, far passare per antidemocratico chi non si adegua e, se lo statuto lo prevede, espellere i dissidenti. Dietro l’apparenza di una decisione presa democraticamente a maggioranza, è la negazione della democrazia.

La valorizzazione della concezione alta della democrazia è il modo in cui si manifesta nell’agire politico il paradigma culturale che induce a perseguire la sostenibilità ambientale, un’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, la tutela dei fattori abiotici, la solidarietà al posto dell’indifferenza e della sopraffazione. Un soggetto politico che faccia di questi valori i suoi pilastri fondanti non può fare a meno di proporsi anche questo obbiettivo, a partire dall’impostazione delle sue dinamiche interne.

 

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Sta cambiando tutto in fretta, troppo in fretta

di Jacopo Rothenaisler

La guerra non dichiarata in corso è iniziata esattamente 250 anni fa. Era il 1769. La scoperta della macchina a vapore diede inizio alla prima rivoluzione industriale e ad una nuova epoca geologica, l’Antropocene, termine coniato dal biologo Eugene Stoermer proprio ad indicare l’impatto che l’Homo sapiens ha sull’equilibrio del pianeta, il ruolo dell’essere umano e della sua attività nel determinare le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Iniziò la corsa a bruciare i combustibili fossili, il primo fu il carbone, che ci ha portato ai giorni nostri.

Attualmente, ogni secondo, l’umanità consuma 1.000 barili di petrolio, 93.000 mc di gas naturale, 221 tonnellate di carbone, ed un Avatar di Second life – quindi una figura digitale creata in un mondo virtuale – consuma più energia di una persona reale di un paese in via di sviluppo. Siamo consapevoli che la combustione di combustibili fossili, assieme alla deforestazione e l’allevamento di bestiame, aggiungono enormi quantità di gas a quelle naturalmente presenti nell’atmosfera, e che alcuni gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono un po’ come il vetro di una serra, catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio.

L’attuale sistema economico però, mentre da una parte favorisce l’accumulo di risorse nelle mani di una élite super privilegiata ai danni dei più poveri, dall’altra, attraverso l’impiego di enormi risorse finanziarie, rafforza la posizione dei soggetti che negano l’origine antropica del cambiamento climatico.

Mentre è in corso, come afferma Noam Chomsky, un vero e proprio smantellamento della ragione, il cambiamento climatico in atto procede in fretta, troppo in fretta. E’ necessario cambiare direzione, e farlo il più velocemente possibile. Il ritmo è la questione cruciale.

Il ritmo è ora la parola chiave per il clima. Non dove stiamo andando, ma quanto velocemente stiamo andando lì. Il pericolo che maggiormente ci minaccia a causa dell’aumento della temperatura del Pianeta è l’innalzamento del livello del mare. Se aspettiamo fino a quando questa prospettiva si rivelerà in modo chiaro potrebbe essere troppo tardi per evitare l’innalzamento del livello del mare di diversi metri e la perdita di tutte le città costiere, la maggior parte delle grandi città del mondo e tutta la loro storia.

Questi cambiamenti sono associati con processi di feedback (retroazioni) amplificati, la cui dinamica di incremento è stata largamente sottovalutata. Un sistema in cui i principali componenti sono gli oceani e il ghiaccio è un sistema che ha una grande inerzia. Fuori equilibrio però è un sistema in cui è difficile ripristinare rapidamente l’equilibrio.

Quando inizia a cambiare, tenuto conto dell’esistenza di processi di amplificazione, innesca una situazione di grande preoccupazione. Non siamo certi di aver superato un punto di non ritorno, ma è certo che la sostanziale inazione della gran parte dei Paesi hanno ridotto il numero di opzioni a nostra disposizione e soprattutto reso quelle necessarie così radicali da non poter essere messe in pratica da governi democratici/elettivi.

La responsabilità connessa ad una iniziativa politica che nasce in una situazione di così grande pericolo per l’intera umanità è innanzitutto quella di dire le cose come stanno e proporre le drastiche e impopolari misure necessarie a scongiurare le conseguenze. Possiamo tranquillamente permetterci di essere trattati con sufficienza, ironia o disprezzo. Non solo siamo abituati, siamo soprattutto consapevoli che i fomentatori e gli autori di tali sentimenti nei nostri confronti stanno in realtà trattando così non noi ma i loro stessi figli e nipoti negando a loro il futuro.

 

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Sintesi dell’incontro nazionale di Roma del 23 febbraio 2019

sostenibilita-equita-solidarieta

Il Centrale Teatro Preneste, in cui si è svolto l’incontro, è stato riempito da sottoscrittori dell’appello arrivati da molte regioni italiane. Dalla Venezia Giulia alla Sicilia, per indicare la provenienza di coloro che hanno fatto i viaggi più lunghi. Abbiamo iniziato puntualmente alle 11 con una relazione introduttiva di Maurizio Pallante che ha ricordato le ragioni del nostro impegno politico, soffermandosi in particolare sulle motivazioni per cui va oltre la contrapposizione tra destra e sinistra, che ha caratterizzato le dinamiche politiche dell’epoca storica avviata dalla Rivoluzione industriale. Un’epoca che si sta concludendo con la prospettiva di una autodistruzione dell’umanità in conseguenza del superamento dei limiti della sostenibilità ambientale causato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci.

La prima sessione dell’incontro è stata dedicata all’esposizione di esperienze locali che prefigurano la possibilità di realizzare forme di relazioni sociali fondate sulla collaborazione e la solidarietà, di attività lavorative che utilizzano le risorse dei territori non solo senza stravolgerli, ma valorizzandone la bellezza, di forme di volontariato finalizzate a diffondere comportamenti rispettosi degli ambienti in cui si vive, di forme d’impegno politico non partitico per difenderli dalle aggressioni portate in nome del profitto, di forme di volontariato a tutela delle categorie sociali più svantaggiate. Nelle loro differenze gli elementi che le accomunano sono un sistema di valori che supera l’appiattimento degli esseri umani sulla dimensione materialistica e consumistica; la scelta di non limitarsi a organizzare forme di opposizione a scelte politiche ed economico-produttive devastanti, ma di costruire alternative più interessanti e più desiderabili sia dal punto di vista economico e lavorativo, sia dal punto di vista ambientale; la dimostrazione che l’affermazione “un altro mondo è possibile” non è soltanto uno slogan, ma una prospettiva di cui si possono costruire anticipazioni a livello locale. Anticipazioni che per essere più efficaci devono essere concepite come tasselli da affiancare per tentare di costruire un’alternativa globale: esempi da cui trarre indicazioni riproponibili, con i necessari adattamenti, in altre realtà locali.

La seconda sessione ha definito le prossime tappe da percorrere per arrivare a costituire ufficialmente il soggetto politico di cui questo convegno è stato una tappa preparatoria. In particolare sono stati indicati alcuni obbiettivi strategici a questo fine:

– la costituzione di un gruppo di lavoro che predisponga uno Statuto coerente con i nostri principi e le nostre finalità; le modalità d’iscrizione;

– le modalità per scegliere il nome: a partire da quelli formulati nel brainstorming lanciato insieme alla diffusione dell’appello, un piccolo gruppo di esperti in comunicazione ne sceglierà una rosa ristretta da sottoporre ai sottoscrittori dell’appello;

– l’allargamento del gruppo composto da 4 persone che ha gestito la fase iniziale di questo progetto politico, auspicabilmente con l’inserimento di donne, per gestire la fase successiva, da questo incontro al momento in cui il soggetto politico verrà costituito ufficialmente, presumibilmente nei mesi di settembre o ottobre;

– la costituzione di circoli territoriali tra i sottoscrittori dell’appello e l’individuazione all’interno di ogni circolo di un responsabile della formazione;

– un primo ciclo di formazione a carattere residenziale, rivolto ai responsabili della formazione di ogni circolo, ma aperto a chiunque voglia parteciparvi, dal pomeriggio/sera del venerdì al dopo pranzo della domenica; i responsabili della formazione di ogni circolo dovranno a loro volta organizzare corsi di formazione a livello territoriale.

È seguito un breve spuntino di pranzo nel porticato antistante il teatro, utile per scambi di opinione e conoscenza reciproca tra i partecipanti. Subito dopo è iniziata la terza sessione, caratterizzata da due interventi culturali di grande spessore, nonostante l’esiguità del tempo a disposizione. Fabio Pinzi ha parlato della permacultura come opportunità per riprogettare sistemi umani belli, ricchi, produttivi e accoglienti. Giuliana Mieli ha parlato del femminile e della sua importanza nella rivoluzione ecologica. I due interventi sono stati anticipazioni di riflessioni più ampie che saranno svolte nei corsi di formazione. Hanno suscitato un forte interesse tra i partecipanti, come è stato dimostrato dalle richieste ai due relatori di partecipare a incontri che saranno organizzati dai costituendi circoli territoriali.

La quarta sessione è stata una tavola rotonda tra tre studenti, introdotta da un intervento di Jacopo Rothenaisler, che ha evidenziato l’importanza dello sciopero mondiale degli studenti del 15 marzo contro l’inerzia dei governi nei confronti della crisi climatica. Questa scelta delle giovani generazioni, che subiranno più pesantemente le conseguenze dell’irresponsabilità delle generazioni precedenti, è l’unica possibilità di indurre i governi ad adottare misure più drastiche per ridurre l’effetto serra di quanto non abbiano fatto sino ad ora nelle sedi internazionali. Gli interventi di Kevin Simäo Ograbek, studente dell’ultimo anno del Liceo di Mendrisio, dove, come in tutte le scuole superiori della Svizzera, già sono stati fatti scioperi per questo motivo, di Alessandro Piovano, secondo anno di giurisprudenza Torino, e di Nicolò Miotto, secondo anno di scienze diplomatiche all’Università di Trieste e autore di un interessante studio delle costituzioni di Bolivia ed Ecuador, dove i diritti della natura sono stai inseriti nei diritti costituzionali, hanno dimostrato una consapevolezza e un senso di responsabilità molto superiori a quelle dei politici. Se ci sarà una possibilità che l’umanità non venga risucchiata nel vortice di un processo che può decretarne la fine, si dovrà più alla forza di questo movimento che al nostro impegno di ambientalisti. È comunque nostro dovere, etico e politico, offrirgli il supporto della nostra esperienza, difendendo per quanto possiamo la sua autonomia da possibili strumentalizzazioni.

L’ultima sessione è stata dedicata al rafforzamento del nostro sito, costituendo una redazione in grado di far conoscere tempestivamente le nostre valutazioni sull’evoluzione della crisi ambientale e della crisi economica, le nostre proposte finalizzate a ridurle, le nostre critiche alle decisioni politiche che la sottovalutino o che, come purtroppo è accaduto e accadrà, contribuiscano ad aggravarla, le esperienze positive in corso che indicano delle vie alternative, mettendone in evidenza l’efficacia, la riproducibilità, la desiderabilità.

Al termine di una giornata molto intensa Nino Pascale ha riassunto gli impegni che sono stati presi per essere pronti a costituire entro i mesi di settembre o ottobre, il soggetto politico a cui tendiamo. Agli intervenuti è rimasta una mezz’ora di tempo per intrecciare relazioni finalizzate a rafforzare la conoscenza reciproca e a costituire i circoli territoriali e i gruppi di lavoro tematici. Tutti hanno condiviso la sensazione di incontro molto utile e di un passo in avanti nell’evoluzione del nostro progetto.

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FONDAMENTI DELLA POLITICA AMBIENTALE IN ECUADOR E BOLIVIA

di Nicolò Miotto*

L’America Latina rientra convenzionalmente nella famiglia giuridica dei sistemi di civil law. Tuttavia, già dagli anni ’80 si sono verificati mutamenti giuridici innovativi che hanno allontanato i paesi latino-americani dal sentire politico e giuridico occidentale. Ora al centro del dibattito nel continente europeo, la democrazia partecipativa è stata, ed è, uno dei caratteri giuridici originali del continente latino-americano. Si pensi in tal senso al bilancio partecipativo, sperimentato per la prima volta a Porto Alegre, in Brasile, nel 1989 e poi replicato persino in alcune città italiane. I caratteri giuridici peculiari dei paesi dell’America Latina hanno portato molti studiosi ad analizzare in modo più approfondito le vicende socio-giuridiche di questo continente. Il sociologo e politologo francese Yves Sintomer utilizzò l’espressione ‘Il ritorno delle caravelle’, aprendo un dibattito che deve ancora dare i suoi frutti: i paesi occidentali possono ispirarsi ai paesi dell’America Latina per reinventarsi?

In Ecuador e Bolivia si è diffuso un sentire filosofico e politico peculiare, distante da quello occidentale, che ha avuto un risvolto in termini giuridici. La cosmovisione dei popoli indigeni, che vivono in un rapporto simbiotico con la Natura, ha portato ad una vera e propria rivoluzione giuridica che va sotto il nome di buen vivir (Ecuador) o vivir bien (Bolivia).
Concetto che ha poca affinità con la nostra idea di ‘benessere’, il buen vivir trova spazio nella costituzione dell’Ecuador del 2008 ed in quella della Bolivia del 2009. Si concepisce lo sviluppo in termini olistici: non si considera solo la dimensione economica, ma anche quella sociale e culturale, prestando profonda attenzione alla tutela dell’ambiente. Gli studiosi ne parlano in termini di ‘narrazione contro-egemonica’, in quanto questo nuovo sentire giuridico nasce in contrasto alla globalizzazione, alle politiche estrattiviste, che in America Latina colpiscono particolarmente i popoli indigeni, ed al neoliberismo. Si punta al consolidamento di un modello di sviluppo alternativo a quello di matrice occidentale, focalizzandosi sull’ampliamento degli istituti democratici, sul concetto di solidarietà e sulla tutela dell’ambiente.

Il Capitolo II del Titolo II della Costituzione dell’Ecuador si intitola ’I diritti del buen vivir’: il diritto all’acqua, definita come ‘patrimonio nazionale strategico di uso pubblico’, è definito come fondamentale ed irrinunciabile; è riconosciuto il diritto del ‘pueblo’ a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato ed è ‘interesse pubblico’ il recupero degli spazi naturali degradati.
Il Capitolo, articoli 12-34, tratta anche tematiche quali la Cultura e la Scienza ed il Lavoro e la Sicurezza sociale. La compresenza di tematiche diverse, ma non slegate, fa risaltare l’approccio olistico del buen vivir, dove lo sviluppo non è tale se non prende in considerazione fattori economici, sociali, ambientali e culturali. In Bolivia il vivir bien è declinato propriamente in termini di principio orientativo delle politiche pubbliche: all’articolo 80 della Costituzione si sottolinea che l’educazione è orientata alla formazione individuale e collettiva, nonché alla conservazione e alla protezione dell’ambiente e della biodiversità.
La dimensione economica è affrontata in modo originale all’articolo 306: il modello economico è definito ‘plurale’, è costituito anche dall’economia del dono e dello scambio ed è orientato alla solidarietà, alla sostenibilità; l’interesse individuale è bilanciato dal ‘vivir bien colectivo’.

Altra tematica che trova spazio nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia è la Sovranità alimentare, intesa come il diritto della popolazione all’accesso ad un cibo sano e culturalmente adeguato. All’articolo 281 della Costituzione ecuadoriana è definita come ‘obiettivo strategico ed obbligo dello Stato’ per il raggiungimento dell’autosufficienza di cibi sani. All’articolo 282 è invece sancito il divieto di privatizzazione dell’acqua, nonché il divieto di latifondo. La Costituzione boliviana all’articolo 407 garantisce la Sovranità alimentare, dando la priorità alla produzione e consumo di prodotti locali culturalmente adeguati.

L’Assemblea costituente dell’Ecuador, appoggiandosi alla consulenza della CELDF, organizzazione statunitense che fornisce pareri a Stati ed enti locali in materia ambientale, ha introdotto nella Costituzione i Diritti della Natura. All’articolo 72 è sancito il diritto al ripristino, ovvero al reintegro dei sistemi di vita contaminati dall’azione umana; il diritto è indipendente dall’obbligo di indennizzare le persone che hanno subito il danno. In modo diverso in Bolivia, dove i diritti della natura non godono di un relativo capitolo costituzionale come in Ecuador, nel 2010 venne varata la Legge 71, al cui articolo 7 è sancito il diritto al ripristino. In entrambi gli Stati sia il singolo sia la collettività politica e sociale hanno il dovere di proteggere e garantire i Diritti della Natura.

La Natura è considerata come una fondazione che possiede un patrimonio, fatto di elementi animati ed inanimati: gli interessi della Natura sono rappresentati da persone fisiche e persone giuridiche; anche in altri Stati dell’America Latina vi è la figura del ‘Defensor del Pueblo’, che sollecita le autorità pubbliche e sta in giudizio per assicurare la tutela della Natura.

Per ripristinare i sistemi ambientali sono previsti dei fondi economici appositi. Uno dei primi casi di vittoria in sede civile da parte della Natura fu il caso del fiume Vilcabamba in Ecuador nel 2011.

E l’Occidente? Sarebbe un errore di analisi ritenere che la realtà europea sia socialmente, giuridicamente e politicamente assimilabile a quella di Ecuador e Bolivia, la cui peculiarità principale è la presenza di popolazioni indigene ed il loro retaggio culturale. Tuttavia, al fine di dare nuovo impulso alle politiche sull’ambiente può risultare utile guardare a Stati come Ecuador e Bolivia, ma non solo, poiché in termini giuridici simili si sono espressi anche India, Nepal ed Egitto.

L’ecologia potrebbe essere anche un tema attorno al quale implementare il dialogo inter-religioso, poiché nel Cattolicesimo, nell’Islam e nell’Ebraismo, nonché nel Buddismo, si rintraccia effettivamente una profonda attenzione per la Natura. A livello internazionale nel 2009 venne istituito dall’Assemblea Generale dell’Onu il forum ‘Harmony With Nature’: studiosi, pensatori ed altri esponenti delle società degli Stati stanno elaborando un nuovo paradigma culturale, sociale ed economico, che tenga conto dell’equilibrio delle tre E; Ecologia, Equità, Economia.

Per coinvolgere maggiormente la popolazione nelle questioni riguardanti l’ambiente, sarebbe importante rimarcare i contenuti della Convenzione di Århus del 1998 che sancisce il diritto alla trasparenza e alla partecipazione in materia ai processi decisionali di governo locale, nazionale e transfrontaliero concernenti l’ambiente.

 

(*) Nicolò Miotto: studente del secondo anno della facoltà di Scienze diplomatiche dell’Università di Trieste, con sede a Gorizia

 

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Gentilezza Rispetto Cura

Un società che finalizza l’economia alla crescita della produzione di merci incentiva l’avidità e la competizione tra gli individui, perché il desiderio di avere sempre di più e più degli altri è una molla formidabile per indurre le persone a dedicare tutte le loro energie al lavoro per guadagnare più soldi possibile e accrescere il più possibile la propria capacità di spesa.

Nei luoghi di lavoro l’ambito della competizione è la carriera, dove inevitabilmente l’affermazione personale si realizza con la sconfitta degli altri e il cinismo è un ingrediente indispensabile che viene considerato un valore nei test di selezione dei quadri dirigenti. In alcune università degli Stati Uniti l’esigenza di selezionare i migliori ricercatori per mantenere al massimo livello gli standard dei diplomati post-laurea – e continuare a ricevere i contributi più alti dalle aziende private – induce a utilizzare, tra i criteri di ammissione ai livelli superiori, la verifica che i concorrenti, per prevalere sugli altri non si facciano scrupoli a stroncare le possibilità di carriera degli amici con cui hanno condiviso anni di studio e ricerca.

La conseguenza di questi modelli di comportamento sul lavoro è la diffusione di una modalità di rapporti con gli altri basata sulla prevaricazione e la cancellazione dall’immaginario collettivo della possibilità stessa di instaurare rapporti di collaborazione. Parallelamente l’esigenza di tenere alta la domanda richiede la rottura dei rapporti sociali fondati sulla solidarietà e la condivisione, perché le persone e le famiglie isolate devono acquistare tutto ciò che serve alla vita, per cui fanno crescere la domanda di merci più di quelle inserite all’interno di reti di solidarietà, che possono contare su forme di aiuto reciproco e di scambi non mediati dal denaro, ma sul dono reciproco del tempo.

I rapporti di scambio mediati dal denaro hanno progressivamente sostituito i rapporti d’amicizia disinteressati e costituiscono, soprattutto nelle grandi città, la maggior parte delle relazioni interpersonali. Se le relazioni ritenute significative sono quelle basate sulla compravendita, nei confronti di coloro da cui non si compra, o a cui non si vende nulla, non si prova alcun interesse. Al di fuori dei rapporti commerciali dilaga l’indifferenza. La maggior parte delle famiglie che vivono nei condomini non si conoscono tra loro. Di tanto in tanto succede che, se una persona che abita da sola in un appartamento muore, i vicini non se ne accorgano per mesi.

La valorizzazione dei rapporti conflittuali e la disincentivazione dei rapporti di mutua collaborazione non avrebbero avuto lo stesso potere di persuasione se il possesso di merci e il potere d’acquisto non fossero stati considerati il segno della realizzazione umana, da ostentare con l’intento più o meno consapevole di suscitare l’invidia di chi ne ha di meno. Questa ostentazione induce coloro che ne hanno di meno e condividono lo stesso sistema di valori, a considerarsi inferiori e a covare sentimenti di aggressività nei confronti di chi ne ha di più. Un’aggressività per lo più impotente nei confronti di chi la causa, che spesso trova uno sfogo inconsapevole contro nemici immaginati o avvelenando con accuse e risentimenti i rapporti più intimi.

La somma di questi fattori conferisce ai rapporti sociali vigenti nelle società industriali le connotazioni di una conflittualità diffusa e di una tensione latente, che si manifestano in forme sistematiche di prevaricazione dei più forti sui più deboli, in bullismo nelle scuole, in atti di vandalismo, in scoppi improvvisi di violenza incontrollata per futili motivi, negli scontri paramilitari tra opposte tifoserie calcistiche. Queste punte di aggressività emergono da un contesto di fondo d’intolleranza nei confronti delle minoranze e di chi la pensa diversamente, in modalità di discussione in cui nessuno ascolta ciò che dicono gli altri e cerca soltanto di imporre le proprie idee o la propria versione dei fatti. Questi modelli di comportamento sono diventati la regola nelle dinamiche interne ai partiti politici e nei rapporti tra i partiti politici. Vengono riproposti dai mass media che, con poche eccezioni, si sono trasformati da cani di guardia del potere in amplificatori di partiti e di gruppi economico-finanziari collegati da rapporti d’interesse con i partiti. L’effetto diseducativo che ne deriva è devastante.

Un progetto politico che si proponga di riportare il fine delle attività produttive dalla crescita della produzione di merci al miglioramento del benessere non soltanto delle generazioni umane viventi, ma anche delle generazioni future e dei viventi non umani, non può non proporsi di contrastare questi modelli di comportamento, restituendo valore alla collaborazione, alla solidarietà, al rispetto, all’ascolto e al tono di voce moderato, alla gentilezza, al superamento dell’indifferenza, all’attenzione nei confronti degli altri, al prendersi cura soprattutto dei più deboli, all’I care sostenuto da don Milani in contrapposizione al me ne frego di chi agisce con l’abito mentale dell’indifferenza e della prevaricazione.

Anche se la storia e l’esperienza della vita dimostrano una sistematica prevalenza della prevaricazione e dell’individualismo nei rapporti umani, gli studi paleontologici, gli studi antropologici e la pratica clinica propendono a ritenere che la tendenza innata nell’animo umano sia la pulsione alla collaborazione e alla solidarietà, perché sono più funzionali alla sopravvivenza della specie. L’individualismo e la sopraffazione, nonostante la valorizzazione che hanno ricevuto, non le hanno sradicate.
Il loro ritorno come valore nell’immaginario collettivo e nei modelli di comportamento può dimostrare che un altro modo di relazionarsi con gli altri, rispettoso, collaborativo, disinteressato e gentile, fa bene a chi lo pratica perché sottrae allo stress insito in una vita orientata dalla dismisura, toglie comburente all’aggressività e alla competizione sull’avere, attenua il clima di tensione in cui il modo di produzione industriale ha immerso gli esseri umani.

Un cambiamento comportamentale di questo genere è un tassello fondamentale di un progetto politico che non si limiti a proporsi di gestire in maniera più giusta, più ecologica e meno violenta un sistema economico e produttivo che nel suo modo di funzionare non può non generare iniquità, danni ambientali e violenza, ma si proponga d’iniziare un percorso finalizzato a cambiarlo.
Ad aprire una fase storica più evoluta di quella avviata due secoli e mezzo or sono dalla rivoluzione industriale, che si sta chiudendo nel peggiore dei modi possibili.

Un soggetto politico che si ponga questo obbiettivo apparentemente irraggiungibile, ma inevitabile, non può non applicare i valori della gentilezza, del rispetto e della cura nelle relazioni umane, a partire dalle sue dinamiche interne, e farne uno dei propri elementi costitutivi fondamentali.

 

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PENSIONI: DALLA RENDITA DIFFERITA AL SISTEMA DI SOSTEGNO ALLA TERZA ETA’

Pubblichiamo una riflessione sul tema del sistema pensionistico inviataci da Maurizio Franca, uno dei sottoscrittori dell’appello.

Il principio di ogni sistema pensionistico attuale è quello di accantonare parte del proprio reddito da lavoro per poter avere un sostegno nell’ultima parte della vita in cui siamo fuori dal sistema produttivo.

Salvo casi di evasione fiscale, il sistema pensionistico fino ad oggi è finalizzato a garantire condizioni economiche simili a quelle che abbiamo avuto durante la nostra attività lavorativa: chi ha avuto un significativo reddito nel lavoro potrà continuare a vivere in modo sereno, mentre chi ha dovuto cavarsela con lavori saltuari e/o poco pagati, continuerà a vivere in modo precario.
Ma il futuro appare ancora più complesso perché sembra ampliarsi la platea delle persone che arriveranno all’età pensionabile con un accantonamento esiguo.
Il problema infatti che si pone sempre di più è quello della precarietà del lavoro che non sembra in grado, per una parte consistente dei futuri pensionati, di creare quella rendita adeguata a offrire risorse economiche sufficienti a garantire una prosecuzione dignitosa della propria esistenza.
Non potendo disporre di risorse significative per poter affrontare l’emergenza che si creerà, occorre pianificare una rivoluzione del sistema pensionistico da realizzare progressivamente nei prossimi 20/30 anni finalizzata ad effettuare una progressiva traslazione dal concetto di pensione come rendita differita a pensione come sostegno alla dignità delle persone nella cosiddetta “terza età”.

Parliamo di rivoluzione e di uno sviluppo decennale del processo di cambiamento perché dobbiamo essere in grado di modificare tutto l’assetto legislativo che oggi impedisce di effettuare interventi immediati se questi vanno a toccare i cosiddetti “diritti acquisiti”, salvo che si tratti di interventi emergenziali, coerenti e limitati nel tempo.
Dovremo quindi pensare ad un periodo piuttosto lungo che preveda una progressiva mutazione della finalità dei contributi pensionistici versati che li trasformi in accantonamenti collettivi necessari a creare risorse per sostenere la comunità nel suo insieme, offrendo così a tutti la possibilità di avere risorse economiche per vivere serenamente la parte restante della propria esistenza.
Non parleremo quindi più di pensioni, ma di un sostegno di dignità che decresce fino ad azzerarsi in presenza di rendite da capitale oltre un certo importo (es. 15.000 annui netti), tenendo presente che già oggi per una parte delle pensioni si parla di pensioni “minime” o di “reversibilità” che non scaturiscono direttamente dai contributi versati da quel contribuente.
Le somme disponibili che eccedono questa prima distribuzione andranno ad aumentare il sostegno in proporzione alla contribuzione che ogni persona avrà dato durante la sua vita lavorativa continuando a creare meccanismo di riduzione in presenza di rendite aggiuntive fino al possibile azzeramento e prevedendo comunque un importo massimo netto mensile (es. € 2.000). Cioè l’idea è di mantenere una certa differenziazione in considerazione dei contributi versati, ma ponendo un limite massimo e prendendo in considerazione anche eventuali altri redditi che vanno a ridurre il sostegno “pubblico”.

Per la definizione del sostegno minimo, di quello massimo e delle riduzioni in presenza di altri redditi sarà auspicabile definire delle attività di adeguamento nel tempo in considerazioni delle proiezioni future sviluppate in base all’andamento dell’economia e delle aspettative di vita al fine di garantire la sostenibilità del sistema nel tempo.
Teniamo presente che persone che hanno goduto di redditi elevati che in base al sistema attuale avrebbero “diritto” ad un sostegno più elevato potranno contare comunque su capitali finanziari capaci di arrotondare la propria capacità di spesa.

Se parliamo di numeri prendendo come riferimento i dati sulle pensioni del 2015 che vedono un esborso di circa 280 mld., tenendo presente la consistente ricchezza privata detenuta dalle famiglie si può ipotizzare una ridistribuzione delle risorse verso il basso che permetta ai circa 8 mil. di pensionati che si trovano nella prima fascia (max € 501,89 al mese) di arrivare a € 700/800 euro. Calcoli più precisi si potranno fare avendo a disposizione i dati sulle ricchezze finanziarie e patrimoniali.
La rivoluzione ipotizzata deve necessariamente rappresentare un tassello di una rivoluzione sistemica che rimette al centro l’interesse per il sostegno dell’intera comunità in termini di dignità, solidarietà, sussidiarietà in cui altri importanti temi da trattare con lo stesso approccio devono essere il sistema fiscale, il mercato del lavoro, la sobrietà retributiva, servizi essenziali pubblici e la compatibilità ambientale del nostro sviluppo.

Maurizio Franca

 

Photo by Matthew Bennett on Unsplash

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Un soggetto politico diverso dai partiti

circolo

Nel 1940 Simone Weil scrisse un breve saggio intitolato Manifesto per la soppressione dei partiti politici, che sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1950, a sette anni dalla sua morte. Commentandolo, qualche mese dopo la pubblicazione, André Breton ne riassumeva così uno dei concetti chiave: «… più la disciplina è forte all’interno di un partito, più le idee che lo guidano tendono a stereotiparsi, a sclerotizzarsi». E aggiungeva: «Queste venti pagine, in ogni punto ammirevoli per intelligenza e nobiltà, costituiscono una requisitoria senza possibile appello contro il crimine di abdicazione dello spirito (rinuncia alle sue prerogative più inalienabili) che provoca il modo di funzionamento dei partiti. Vi si fa giustizia, una volta per tutte, di una delle peggiori aberrazioni di questa temperie, ossia che, per la grande maggioranza, “il movente del pensiero non è più il desiderio incondizionato, indefinito, della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito”1»2.

Un raggruppamento politico che non voglia essere un partito, non può limitarsi a dichiarare di non esserlo. Deve in primo luogo darsi un’organizzazione che, a differenza da quella dei partiti, disincentivi «il desiderio di conformità a un insegnamento prestabilito» e favorisca «il desiderio incondizionato, indefinito, della verità». Nessuna misura organizzativa può evitare che si manifestino atteggiamenti conformistici nelle dinamiche interne di un raggruppamento politico, in alcuni militanti per una forma d’insicurezza che induce ad aggregarsi alle proposte condivise dalla maggioranza, in altri per una propensione all’opportunismo che induce a sostenere le proposte formulate da chi ha più potere e prestigio con l’obbiettivo di ricavarne più potere e prestigio.

Tuttavia queste tendenze si possono contrastare efficacemente se un raggruppamento politico che non vuole essere un partito non si propone di definire un insegnamento prestabilito, cioè una linea politica che deve essere sostenuta pubblicamente da tutti i suoi iscritti, non solo dalla maggioranza che al termine di una discussione democratica l’abbia condivisa, ma anche dalla minoranza che non l’abbia condivisa. Invece i partiti, definendo una linea politica vincolante per tutti, impongono a chi non la condivide, o di essere fedele al partito, a scapito della sincerità con se stesso, o di essere fedele alla propria ricerca di verità a scapito della sua emarginazione, o espulsione, dal partito. Le recenti vicende di un movimento che rifiuta di definirsi partito ed è governato da un gruppo ristrettissimo di persone che espellono chi non è allineato e coperto, dimostrano emblematicamente che le tesi sostenute nel piccolo saggio di Simone Weil non sono datate storicamente, ma hanno una valenza universale.

«Immaginiamo – scrive Simone Weil – il membro di un partito […] che prenda in pubblico il seguente impegno: “Ogniqualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, m’impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia”. Questo linguaggio sarebbe accolto in modo negativo. I suoi, e anche molti altri, lo accuserebbero di tradimento. I meno ostili direbbero: “Perché allora hai aderito a un partito?”, ammettendo così ingenuamente che entrando in un partito si rinuncia a cercare unicamente il bene pubblico e la giustizia. Quell’uomo sarebbe escluso dal suo partito».3Non per nulla, nell’articolo 67 della Costituzione italiana è scritto: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».

La visibilità mediatica che hanno i partiti esercita in questo modo un’influenza nefasta sul sistema dei valori e sui modelli di comportamento generalizzati. Induce a pensare che l’autonomia di pensiero penalizza e il conformismo avvantaggia. Nulla sclerotizza di più le idee. Un raggruppamento politico che nei suoi rapporti interni contrasti la tendenza all’accettazione passiva di insegnamenti prestabiliti e susciti il desiderio incondizionato, indefinito, della verità, valorizza la creatività culturale e può svolgere un determinante ruolo educativo di massa. Può diventare la scintilla che libera energie sociali represse e innesca un processo culturale molto più vasto di quello che realizza al suo interno.

Un partito con una linea politica vincolante per tutti i suoi militanti non può non avere una struttura organizzativa gerarchica in cui le articolazioni periferiche – circoli, sezioni, federazioni locali – sono subordinate agli organismi dirigenti centrali. La concentrazione del potere decisionale nel vertice viene accentuata se non ci sono strutture democratiche intermedie dove si rafforzi l’identità collettiva mediante discussioni e confronti, ma le relazioni si possono svolgere esclusivamente tra il vertice e i singoli mediante strumenti informatici. Un raggruppamento politico che si rifiuti di elaborare una linea politica vincolante per tutti i suoi iscritti non può avere una struttura organizzativa gerarchica, un organismo dirigente e, meno che mai, un capo. La sua forma giuridica non può che essere quella di una federazione di gruppi locali, collegati orizzontalmente tra loro, coordinati a livello nazionale da gruppi di lavoro tematici e da un comitato di portavoce con funzioni organizzative e di rappresentanza unitaria.

Come è possibile armonizzare la valorizzazione dell’autonomia dei singoli e dei gruppi locali federati con la necessità di elaborare una linea politica che consenta agli elettori di capire quali siano i valori che li accomunano, quali siano i problemi che ritengano prioritari, in che modo intendano affrontarli, quale sia il progetto di futuro a cui tendono? La coesione di un raggruppamento politico che non abbia una struttura organizzativa rigida, né una linea politica vincolante, può fondarsi soltanto sulla condivisione di alcuni principi che nel loro insieme definiscono la sua missione, il suo orizzonte culturale e il suo sistema di valori. L’elaborazione e la definizione di questi principi sono pertanto fondamentali. La loro condivisione è discriminante per farne parte. Meno rigida è la disciplina al suo interno, tanto più rigorosamente deve essere definito il quadro dei suoi riferimenti culturali. La valorizzazione delle differenze e la conoscenza reciproca delle iniziative realizzate nei territori dai gruppi locali federati sono indispensabili per arricchire le idee condivise, ma solo se tutti le percepiscono come tasselli che contribuiscono a realizzare un progetto comune. Un progetto che si definisce in maniera sempre più dettagliata strada facendo, a partire dalle indicazioni della direzione da seguire fornite dai principi fondanti condivisi.

Tuttavia, anche la condivisione più convinta dei fondamentali non implica che tutti i militanti di un raggruppamento politico differente dai partiti possano avere la stessa opinione su tutte le decisioni contingenti da prendere. Né che le posizioni espresse dalla maggioranza in relazione a una scelta contingente siano le più coerenti con i principi condivisi, o le più efficaci per raggiungere i fini specifici che si vogliono perseguire. L’esperienza insegna che a volte può accadere il contrario. Nei casi in cui si manifestino posizioni diverse su problemi contingenti, occorre integrare il principio democratico della prevalenza della maggioranza col metodo del consenso, ovvero con una forma di confronto in cui tutti siano disponibili a rimettere in discussione le proprie convinzioni e a considerare che possano essere giuste, del tutto o in parte, quelle differenti. Questo atteggiamento predispone ad ascoltare le opinioni diverse col massimo rispetto e a prendere in considerazione la possibilità di mutare la propria. Il metodo del consenso allunga i tempi delle decisioni, ma consente di prenderle con maggiore discernimento e consolida i legami culturali tra le persone coinvolte. Questo modo di confrontarsi, completamente controcorrente rispetto alla concezione della democrazia come dialettica finalizzata a conquistare il maggior numero di consensi e a sconfiggere gli avversari, non dovrebbe essere difficile tra persone che hanno scelto di far parte di un raggruppamento politico in cui non viene incentivato il conformismo e viene valorizzata l’autonomia di pensiero.

Se dalla discussione emergerà una posizione unitaria, sarà una sintesi più articolata e matura tra le posizioni della maggioranza e i contributi delle minoranze, in cui l’apporto di ogni componente sarà valorizzato maggiormente di quanto non fosse nella sua formulazione iniziale. Di conseguenza, anche coloro che abbiano inizialmente sostenuto una posizione minoritaria, invece di sentirsi esclusi, saranno motivati a sostenere la posizione comune emersa dal confronto. Se invece non si arriverà a trovare una posizione comune, la decisione della maggioranza sarà comunque più motivata e consapevole anche grazie al contributo delle minoranze, non fosse altro perché il confronto avrà consentito di argomentarla in maniera più approfondita. Chi al termine della discussione continuerà a ritenere giuste le sue posizioni di minoranza iniziali, sarà incoraggiato a mantenerle dalla stessa maggioranza, perché dove prevale «il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito» le idee tendono a stereotiparsi e sclerotizzarsi, mentre la ricchezza e la vivacità dell’elaborazione politica si sviluppano «dove il movente del pensiero è il desiderio incondizionato, indefinito, della verità».

 

1Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi, Roma 2012, pag. 41.

2André Breton, Mettere al bando i partiti politici, in op. cit., pagg. 16-17.

3Ibidem., pag. 33.

 

 

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Migrazioni

migrazioni

Le migrazioni che hanno contrassegnato la storia del modo di produzione industriale sin dai suoi primordi, nella seconda metà del settecento in Inghilterra, non sono state e non sono soltanto trasferimenti da un luogo all’altro della terra, ma passaggi da un’economia di sussistenza a un’economia mercificata – per utilizzare una categoria marxiana: da un’economia finalizzata alla produzione di valori d’uso a un’economia finalizzata alla produzione di valori di scambio – e da una società agricola e artigianale a una società urbana e industriale. Sono state e sono attraversamenti da un’epoca storica a un’altra.

Senza le migrazioni il modo di produzione industriale non avrebbe potuto svilupparsi perché gli sarebbero mancate sia la manodopera necessaria ad accrescere la produzione di merci, sia un numero sempre crescente di consumatori che non potessero fare a meno di comprare sotto forma di merci tutti i beni necessari alla vita perché non avevano la possibilità di autoprodurli nemmeno in parte, come accade nelle economie di sussistenza, né di scambiarli sotto forma di dono reciproco del tempo, come accade nei rapporti comunitari.
Per accrescere il numero dei proletari costretti a lavorare nelle fabbriche in cambio di un salario che li mettesse in condizione di comprare il necessario per sopravvivere, sono stati utilizzati diversi metodi basati sulla violenza e sulla sopraffazione: sono state promulgate leggi che rendevano impossibile continuare a vivere di agricoltura di sussistenza – la recinzione delle terre comuni -; sono stati sottomessi popoli col colonialismo; sono state imposte tasse che costringevano ad avere un reddito monetario per pagarle; sono state ostacolate le forme di solidarietà comunitaria; sono stati sterminati i ribelli; sono stati privatizzati territori enormi cacciandone con la forza le popolazioni che li abitavano, o acquistandoli con la complicità di governi corrotti per un tozzo di pane in mancanza di catasti che certificassero i diritti di proprietà; sono state costruite dighe che hanno trasformato in laghi milioni di ettari di terreni agricoli; sono state effettuate deportazioni di massa; sono state suscitate guerre fratricide.

Accanto a queste forme di sopraffazione e di violenza legalizzate, che hanno creato e stanno creando sofferenze enormi, sono state utilizzate forme di condizionamento di massa sempre più potenti tecnologicamente e raffinate psicologicamente per convincere strati sempre più ampi della popolazione mondiale ad abbandonare volontariamente l’economia di sussistenza, i loro Paesi e la loro cultura, per trasferirsi nel sistema economico industriale.

Con la globalizzazione, ovvero con l’estensione del modo di produzione industriale a tutto il mondo, questo processo ha raggiunto il suo culmine e si sta svolgendo in due modi. Da una parte le società multinazionali dei Paesi industrializzati trasferiscono i loro impianti – soprattutto i più nocivi – nei Paesi in via d’industrializzazione dove il costo del lavoro è più basso, innescando con la complicità dei governi i flussi migratori interni necessari a fornire alle loro aziende la manodopera di cui hanno bisogno. Dall’altra i governi dei Paesi industrializzati destabilizzano politicamente, economicamente e culturalmente i Paesi non industrializzati per consentire alle loro aziende nazionali d’impadronirsi delle risorse insistenti in quei territori. Fomentano guerre civili e interetniche per indebolirli.

Non si fanno scrupolo d’intervenire militarmente in prima persona per abbattere governi autonomi e sostituirli con governi corrotti proni ai loro interessi. Non potendo più vivere nei luoghi in cui sono nati e non avendo nemmeno la possibilità di trovare nei loro Paesi un’occupazione in cambio di un salario, l’unica alternativa che resta a quei popoli è l’emigrazione verso i Paesi industrializzati. Questa opportunità viene inevitabilmente utilizzata soprattutto dai giovani, per cui, oltre a essere costellata da sofferenze atroci che sempre più spesso si concludono con la morte anziché con l’arrivo nella terra agognata, comporta l’abbandono dei vecchi nella fase della vita in cui avrebbero più bisogno del sostegno dei figli.

Se si ritiene che la crescita della produzione di merci sia un bene, non si possono non ritenere un bene le migrazioni. Senza migrazioni non ci sarebbe crescita. Se si ritiene che le migrazioni siano un diritto da tutelare, si tutela, consapevolmente o meno, la finalizzazione dell’economia alla crescita. Tuttavia, questa corrispondenza è percepita solo dalla borghesia progressista sostenuta dalla destra moderata che pretende di egemonizzare politicamente e di rappresentare la sinistra, a esclusione delle frange estreme. I suoi esponenti non mancano di ricordare a ogni piè sospinto che i Paesi ricchi hanno bisogno dei migranti provenienti dai Paesi poveri, perché fanno lavori che i lavoratori di Paesi ricchi non vogliono più fare, contribuiscono a pagare i redditi dei loro pensionati, assistono i loro vecchi, vengono pagati meno degli autoctoni e inoltre, con le retribuzioni che ricevono, per misere che siano, forniscono un sostegno alla domanda di alcune merci. Se non ci fossero i migranti, sostengono i loro maîtres à penser, l’economia dei Paesi industrializzati crollerebbe. Ne consegue che i sostenitori dell’accoglienza interessata minimizzano i problemi che le migrazioni creano nei Paesi d’arrivo e si sforzano di dimostrare che sono inferiori ai vantaggi che apportano.

Su posizioni opposte si colloca una fascia di popolazione maggioritaria nei Paesi industrializzati, composta da due categorie:

1. gli strati sociali intermedi, che in conseguenza della globalizzazione hanno perso le precedenti sicurezze sulla stabilità del posto di lavoro e hanno subito riduzioni del loro benessere materiale;

2. gli operai meno qualificati, i disoccupati, i lavoratori precari che subiscono la concorrenza della forza lavoro sottopagata nei Paesi in via di industrializzazione.

Queste categorie sociali sono contrarie all’accoglienza dei migranti, perché quelli in regola assorbono quote crescenti delle risorse destinate all’assistenza sociale, quelli non in regola senza un lavoro aumentano l’insicurezza sociale e il degrado dei quartieri popolari in cui si sistemano precariamente.

I partiti che li rappresentano enfatizzano i problemi creati dalle migrazioni e fanno leva sulla paura che suscitano per rafforzare il loro consenso sociale e politico. Poiché il rifiuto dell’accoglienza, oltre a manifestare un’insensibilità moralmente inaccettabile nei confronti delle sofferenze di altri esseri umani, non riesce ad arrestare i flussi migratori, che tendono anzi ad aumentare, per ridurne le cause è stata proposta la formula «Aiutiamoli a casa loro». Una formula razzista, dettata dalla presunzione della superiorità degli europei sugli africani e sui popoli del medio-oriente, che in realtà non hanno bisogno di essere aiutati dagli europei, ma di essere lasciati in pace dopo secoli di violenze e sopraffazioni esercitate nei loro confronti: dalla riduzione in schiavitù, agli orrori del colonialismo e del neo-colonialismo, all’ipocrisia degli aiuti allo sviluppo, che non avevano l’obbiettivo di aiutarli a rendersi autonomi, ma d’indebitarli e privarli della sovranità alimentare garantita dall’agricoltura di sussistenza, per inserirli nel mercato mondiale che li avrebbe sopraffatti.

Oltre ai sostenitori dell’accoglienza interessata, ci sono i sostenitori di un’accoglienza disinteressata, basata su valori umanitari. Sono i volontari delle associazioni che aiutano i migranti a raggiungere i Paesi dove sperano di trovare condizioni di vita migliori, s’impegnano a salvarli quando gli scafisti li abbandonano in mare aperto su imbarcazioni precarie, li aiutano a trovare un’abitazione e un lavoro nei Paesi d’arrivo. Tuttavia, nella loro generosità non prendono in considerazione il fatto che per ridurre le sofferenze generate dalle migrazioni occorre ridurre le cause che costringono percentuali crescenti della popolazione mondiale a emigrare, mentre invece i flussi migratori le rafforzano e aggravano le sofferenze che ne derivano.

Contribuendo col loro lavoro a far crescere la produzione di merci nei Paesi ricchi, i migranti li aiutano a diventare più ricchi e fanno diventare più poveri i Paesi poveri da cui provengono. Le migrazioni rafforzano le cause che le fanno crescere. Inoltre, se col lavoro dei migranti cresce la produzione di merci nei Paesi ricchi, crescono i consumi di materie prime e le emissioni di sostanze di scarto che hanno già superato i limiti della sostenibilità ambientale. Pertanto si aggrava la crisi climatica, che sta già rendendo inabitabili superfici territoriali sempre più vaste dei Paesi più poveri, impedendo a percentuali sempre maggiori di persone di continuare a viverci.

Se non viene inserita in un forte impegno politico finalizzato a ridurre i flussi migratori riducendone le cause, l’accoglienza disinteressata e solidale può diventare il cavallo di Troia dell’accoglienza interessata e rafforzare il consenso politico degli avversari dell’accoglienza.

Le sofferenze dei migranti e i problemi causati dalle migrazioni sia nei Paesi poveri di partenza, sia nei Paesi ricchi d’arrivo, si possono attenuare soltanto se si supera la logica emergenziale che accomuna e contrappone chi si limita a considerare i flussi migratori come un fenomeno inevitabile e incontrollabile, di cui non si possono rimuovere le cause ma solo modificare parzialmente le conseguenze: o sfruttando le opportunità che offre alla crescita economica dei Paesi d’arrivo – l’accoglienza interessata – o contrastandolo per paura che intacchi il benessere materiale degli autoctoni – il rifiuto dell’accoglienza – o agevolandolo per ragioni umanitarie – l’accoglienza disinteressata.

In realtà, come tutti i fenomeni sociali le migrazioni sono causate da scelte umane modificabili. Difficilmente modificabili in questo caso, perché richiedono il cambiamento della finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Cioè l’abbandono di uno dei capisaldi su cui si fondano le società industriali. Un soggetto politico che si proponga come orizzonte culturale la sostenibilità, l’equità e la solidarietà, non può non essere solidale con chi è costretto a emigrare e, quindi, non impegnarsi a favorirne l’inserimento lavorativo e sociale nei Paesi d’arrivo. Ma non può nemmeno pensare che la solidarietà possa limitarsi a favorire l’accoglienza senza proporsi di ridurre le iniquità che costringono i popoli poveri a emigrare. Né che le iniquità si possano ridurre inserendo un numero sempre maggiore di migranti nell’economia della crescita, perché ciò accrescerebbe i consumi delle risorse e le emissioni, aggravando i cambiamenti climatici e peggiorando ulteriormente le condizioni di vita nei Paesi poveri.

La solidarietà nei confronti dei migranti richiede che la loro accoglienza nei Paesi d’arrivo sia inserita all’interno di progetti finalizzati a ridurre le cause che li costringono a emigrare e a favorire, dovunque sia possibile, un loro reinserimento nei Paesi di partenza. I Paesi ricchi possono sostenere questo processo con una serie di scelte da cui trarrebbero benefici essi stessi.

Spostando la finalità delle innovazioni tecnologiche dalla crescita della produttività all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse in beni, i Paesi industrializzati possono ridurre i consumi di materie prime, le emissioni e le quantità di rifiuti per unità di prodotto senza deprimere il loro benessere. Questa scelta consentirebbe di ridurre le cause dei cambiamenti climatici e di aumentare le risorse disponibili per i Paesi poveri, riducendo drasticamente le due cause principali delle migrazioni.

Fornendo ai Paesi di partenza delle migrazioni i capitali e l’assistenza tecnica necessari a ripristinare condizioni ambientali e sociali che consentano di viverci dignitosamente, i Paesi industrializzati possono favorire il rientro dei migranti sulle loro terre. Questa scelta dovrebbe essere fatta innanzitutto con la motivazione etica di un risarcimento per le sofferenze che hanno causato a quei popoli col colonialismo e il neo-colonialismo, anche se, in realtà, costituirebbe solo una parziale restituzione delle risorse di cui li hanno deprivati con la forza e con inique forme di scambio. Tornando a lavorare nei loro Paesi d’origine, i migranti contribuirebbero ad accrescerne il benessere e non il benessere dei Paesi d’arrivo. Nei Paesi d’arrivo delle migrazioni i costi di queste restituzioni sarebbero almeno in parte compensati dalla riduzione delle spese necessarie a sostenere la gestione legale dei flussi migratori, i costi delle illegalità che si sono sviluppate nelle sue zone d’ombra, dei problemi sociali che ne derivano, dei maggiori controlli del territorio necessari a garantire la sicurezza sociale.

La solidarietà e l’equità impongono anche di estendere lo status di profughi, riconosciuto ai civili che fuggono dai Paesi devastati dalle guerre, anche ai migranti costretti ad abbandonare luoghi resi inabitabili dai mutamenti climatici in corso, o terreni agricoli sottratti alla loro disponibilità dal land grabbing di Paesi stranieri. Per le stesse ragioni etiche il diritto di accoglienza dei rifugiati dovrebbe essere sostenuto dall’organizzazione dei loro trasferimenti con mezzi rispettosi della dignità umana verso destinazioni in cui possano realizzare concretamente un nuovo progetto di vita.

Queste proposte possono essere considerate utopiche, ma non sono state formulate ignorando le difficoltà che si frappongono alla loro realizzazione. I problemi posti dalle migrazioni possono essere affrontati soltanto a livello internazionale, sulla base di progetti complessivi basati su studi finalizzati a prevederne gli sviluppi in conseguenza dei cambiamenti climatici in corso, dell’incremento dei consumi e delle emissioni di sostanze di scarto non metabolizzabili dai cicli biochimici causato dalla crescita economica prevista a livello mondiale, della globalizzazione, delle tensioni che saranno generate dalla riduzione della disponibilità di risorse. Se non si farà questa scelta ai limiti dell’impossibile e i Paesi ricchi rimarranno chiusi nella difesa dei propri interessi nazionali, i problemi posti dalle migrazioni li travolgeranno.

L’alternativa a scelte politiche guidate dai valori della sostenibilità, dell’equità e della solidarietà sarà l’affermazione dei partiti sovranisti che si propongono velleitariamente di bloccare i flussi migratori chiudendo le frontiere nazionali, e un’accentuazione delle tensioni internazionali di cui è facilmente prevedibile l’esito.


Photo by Johannes Plenio on Unsplash

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Appello

Appello sostenibilita equita solidarieta

L’appello che rendiamo pubblico è stato discusso e condiviso dalle persone che lo sottoscrivono dopo una serie d’incontri iniziata alla fine di febbraio, a cui si sono aggiunti e si stanno mano a mano aggiungendo coloro che ne approvano il contenuto. 
Chiunque lo sottoscriverà sarà invitato a condividere un percorso di approfondimento per verificare la possibilità di costituire un soggetto politico, a partire da un incontro nazionale che presumibilmente si terrà a Roma verso la metà di febbraio. I temi indicati dall’appello saranno sviluppati in una serie di brevi documenti, che abbiamo già iniziato a pubblicare su questo sito…

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Per una conversione economica dell’ecologia

Conversione Economica dell'Ecologia

Una misura indispensabile per ridurre in maniera significativa la crisi ambientale è lo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate a ridurre gli sprechi e aumentare l’efficienza nei processi di trasformazione delle risorse in beni, perché la riduzione degli sprechi e delle inefficienze non riduce soltanto il consumo di risorse e le emissioni per unità di prodotto, ma anche i costi di produzione. Pertanto le spese d’investimento necessarie a installarle si possono ammortizzare con i risparmi sui costi di gestione che consentono di ottenere.

Se l’adozione delle tecnologie che riducono l’impatto ambientale fosse motivata esclusivamente da ragioni etiche e non anche dalla loro convenienza economica, dipenderebbe dai sussidi di denaro pubblico. Di conseguenza i profitti dei produttori e degli installatori sarebbero garantiti anche se gli utili non coprissero i costi d’investimento e verrebbero a mancare le motivazioni che inducono ad accrescere la loro efficienza per renderle autosufficienti e sempre più redditizie. Gli sviluppi tecnologici di questo settore anziché essere favoriti sarebbero rallentati, la diffusione di queste tecnologie non sarebbe trascinata dal fatto di diventare sempre più appetibili economicamente per i potenziali acquirenti, le loro vendite si interromperebbero nei periodi in cui i bilanci degli enti pubblici non consentissero di sovvenzionarle.

La conversione ecologica dell’economia dipende dalla conversione economica dell’ecologia.
Per avviare la conversione economica dell’ecologia occorre superare la falsa convinzione che le scelte con una valenza ecologica siano più costose delle scelte fondate soltanto sulla ricerca del massimo profitto indipendentemente dalle conseguenze ambientali che generano.

La conversione economica dell’ecologia farebbe perdere di significato alla contrapposizione tra le ragioni del lavoro e le ragioni dell’ambiente, su cui imprenditori senza scrupoli, con l’appoggio di politici altrettanto senza scrupoli e di sindacalisti poco informati, fondano il ricatto della chiusura delle aziende e dei licenziamenti per non effettuare gli investimenti necessari a ridurre l’inquinamento generato dai loro processi produttivi. Al contrario, l’adozione delle tecnologie che riducono le inefficienze, gli sprechi e le emissioni inquinanti sarebbe sostenuta anche perché consente di accrescere gli utili e l’occupazione.

Naturalmente, mettendo in luce le conseguenze negative dei contributi di denaro pubblico erogati con il proposito di favorire lo sviluppo delle tecnologie ecologiche, non si vuol sostenere che lo Stato debba disinteressarsi del problema e affidarne la soluzione esclusivamente al mercato. Il suo compito è quello di utilizzare un intelligente sistema di incentivi e disincentivi fiscali finalizzati a raggiungere gli obbiettivi di riduzione dei consumi e delle emissioni che hanno superato i limiti della sostenibilità ambientale: le emissioni di anidride carbonica, di metano, di sostanze non metabolizzabili dai cicli biochimici, di sostanze inquinanti; i consumi di risorse rinnovabili e non rinnovabili. Stabiliti questi obbiettivi, spetta alle aziende la scelta delle tecnologie e dei loro mix per raggiungerli situazione per situazione. La concorrenza selezionerà le scelte più vantaggiose economicamente, che sono anche le più efficienti ecologicamente.

Una strategia di questo genere consente di impostare tutta la politica economica e industriale in funzione della riduzione della crisi ecologica ed è l’unico modo per consentire ai Paesi industriali avanzati di superare la stagnazione in cui le loro economie sono impantanate dalla crisi del 2008.

L’impegno principale deve essere rivolto alla diminuzione degli sprechi e all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione energetica, che in questi Paesi può dimezzare i consumi di energia alla fonte senza ridurre i servizi finali. Ne deriverebbero: una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e dell’effetto serra, delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili, delle spese energetiche dei consumatori finali – famiglie, aziende, pubbliche amministrazioni.

In Italia per riscaldare gli edifici nei mesi invernali si consumano mediamente 200 kilowattora al metro quadrato all’anno (circa 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano). In Germania non è consentito superare un consumo di 70 chilowattora al metro quadrato all’anno, un terzo della media italiana, ma gli edifici più efficienti, quelli che rientrano nello standard delle «case passive», non devono superare i 15 chilowattora al metro quadrato all’anno e devono essere coibentati in modo così efficiente da non avere bisogno di un impianto di riscaldamento. Se al centro della politica economica e industriale del nostro Paese si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze al livello dei peggiori edifici tedeschi, i consumi per il riscaldamento si ridurrebbero dei due terzi. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.

Un incentivo all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza contributi di denaro pubblico, può essere costituito dall’uso delle forme contrattuali che dovrebbero caratterizzare le energy service companies – esco -: società energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici e degli impianti ristrutturati si impegnano a pagare per i loro consumi energetici la stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione, per un numero di anni fissato al momento del contratto. Per la durata del contratto le esco incassano i risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici che riescono a ottenere. Al termine, il risparmio economico va a beneficio del cliente. A parità d’investimento, il numero degli anni necessari a recuperare il denaro investito nelle ristrutturazioni energetiche è inversamente proporzionale all’efficienza ottenuta.

La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché, essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici inferiore a quella che ha calcolato, incassa meno denaro di quello che ha previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.

Un altro settore strategico dove l’ammortamento degli investimenti necessari a ridurre gli sprechi si può pagare con i risparmi economici che ne conseguono, senza contributi di denaro pubblico, è la gestione dell’acqua potabile.

In Italia le reti idriche perdono mediamente il 65 per cento dell’acqua pompata dal sottosuolo e depurata. Nei periodi estivi di siccità le perdite degli acquedotti stanno creando problemi alla fornitura di acqua nelle aree urbane. La sostituzione delle tubazioni delle reti idriche costituisce pertanto una misura indispensabile non solo per ridurre gli sprechi di energia e denaro, ma anche per continuare a fornire un servizio indispensabile per il benessere e l’igiene di decine di milioni di persone.

Le stesse dinamiche si verificano nella gestione degli oggetti dismessi. Il recupero e la riutilizzazione dei materiali che contengono è certamente meno dannosa e più conveniente economicamente delle metodologie con cui si rendono definitivamente inutilizzabili: l’interramento e l’incenerimento. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso degli oggetti conferiti alle discariche o agli inceneritori, meno se ne portano e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi occorre venderle. Più se ne vendono e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri occorre effettuarne una raccolta differenziata molto accurata che ne consenta il riciclaggio e il riutilizzo. Il recupero e la vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi consentono pertanto di creare un’occupazione utile; di pagarne i costi con i risparmi conseguiti nello smaltimento e con i guadagni ottenuti dalla vendita, senza contributi di denaro pubblico.

 

 

 

 

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