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Spiritualità

Rivalutare la spiritualità non significa condannare moralisticamente il legittimo desiderio di benessere materiale, perché anche questo fa parte della natura umana. Significa promuovere la consapevolezza che il benessere materiale non è tutto e, se diventa tutto, si trasforma in malessere. Se si pensa di essere felici acquistando l’ultimo modello di un prodotto, la momentanea soddisfazione che se ne ricava viene sistematicamente frustrata dalla successiva immissione sul mercato di un modello più nuovo, come viene fatto usualmente per mantenere intatta la propensione al consumo […]

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Le Olimpiadi nelle Dolomiti? Devastante

Non mi stancherò di dire che in Alto Adige Südtirol i giganteschi alberghi ci porteranno sempre più in direzione di un turismo pornoalpino.

Le olimpiadi invernali nelle Dolomiti. Se ne sta parlando da qualche giorno. Pensate, sarebbe devastante. Già solo a pensarle si fa una gran sciocchezza e lo dico e lo scrivo. L’altro giorno, mentre si parlava dell’asset societario di una nuova società privata e pubblica, una persona vicina a me mi dice: “Se diventi presidente non potrai più dire che vuoi i passi dolomitici senza auto e altre cose radicali”. Gli ho risposto picche. Un arrampicatore sociale deve piacere, un uomo ingabbiato deve seguire gli umori delle persone, un politico che mira in alto deve dire cose che l’uomo della strada può accettare. È la chiave del successo di leghisti, estremisti, conformisti, arrivisti, opportunisti. Da un uomo –relativamente- libero non temo di dire la mia su questioni che mi riguardano da vicino. Continuerò a dire che i fuochi d’artificio in mezzo alle montagne sono una chiara espressione di ignoranza turistica, e che chi li propone non possiede le prerogative basilari per essere a capo di un’associazione turistica. Non cambierò idea sulla mia opinione rispetto al presidente degli albergatori che di un turismo sostenibile non ne vuole sapere. Continuerò a dire che il nostro ex monarca Durnwalder continua a sbagliare quando parla di un doppio passaporto, che in cambio di voti ha elargito prebende a destra a manca. Con cinque miliardi di budget annuale non era tanto difficile costruire case della cultura gigantesche, vere cattedrali del deserto. Certo, ha fatto cose discrete e anche buone, è stato bravo a farsi rispettare, su questo non c’è dubbio. Dubito invece che sia stato giusto che per anni abbia deciso, lui stesso, su contributi ad associazioni e comitati. A furia di versamenti e sgravi fiscali ha fatto diventare i contadini di pianura turbo-contadini esperti di culture intensive. Il risultato? Sempre maggior produzione e prezzi sempre più bassi. Da esperienza personale posso dire che non mi ha certo facilitato la vita quando ho smesso di chiedere soldi pubblici andando in pellegrinaggio da lui alle cinque del mattino.

Continuerò a dire che la maggioranza politica in questa provincia tende ad assorbire la minoranza ladina, e che la mancanza di una scuola paritetica estesa a livello regionale è un deficit culturale. Continuerò a dire che i cuochi sono troppo santificati rispetto ai camerieri, e che il lavoro in nero nel nostro settore deve finire. Non mi stancherò di dire che in Alto Adige Südtirol i giganteschi alberghi ci porteranno sempre più in direzione di un turismo pornoalpino.

Anche in futuro proverò ad avere idee mie, anche se di mio, veramente di mio c’è ben poco. Ascolto, assimilo, trascrivo le idee più interessanti, assorbo e, perché no, copio. E poi parlo. O scrivo. E la cosa interessante è che persone assai più blasonate di me ora prendono e ripetono ai giornali quello che io predico da anni, copiandolo da altri più lungimiranti di me. Mondo strano il nostro. Ora tutti parlano di prodotti regionali, di ore di lavoro giuste, dell’importanza di una giustizia sociale. Lo dicono politici, manager, cuochi famosi. Fino a pochi anni fa non era così: bene allora, le cose possono e devono prendere la strada giusta. Continuerò ad appoggiare i disagiati, a dire che è una vergogna che il nostro comune non accetti pochi migranti. Poi, magari, il direttore di questo giornale mi impedirà di scrivere perché sono diventato, agli occhi di molti, rancoroso e astioso. E allora davvero capirò che ha ragione, e che è meglio che vada a riposo. Anche se è il sonno della ragione a generare mostri, come quello delle olimpiadi invernali, altroché.

Michil Costa
dalla prima pagina dell’Alto Adige, 25/01/2018

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Fonte:MichilCosta

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Sostenibilità, equità, solidarietà. Tre pilastri per un manifesto politico

 

Nei miei scritti precedenti ho cercato di descrivere e di accennare i fondamentali di un progetto culturale e politico. Le tematiche sono tante e le sto approfondendo in un libro di prossima uscita.

Mi piace donarvi quello che secondo me possono essere tre valori che facciano da base ad un vero programma politico.

Tre valori che non trovano riscontro nei programmi di nessuno dei partiti esistenti, perché costituiscono i pilastri di un paradigma culturale diverso da quello vigente nelle società in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci: la sostenibilità ambientale, un’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, la solidarietà. Si tratta di tre valori che si sostengono reciprocamente e, anche se apparentemente possono sembrare dettati da un idealismo ingenuo, hanno una grande concretezza perché non sono definiti soltanto in termini etici, ma sono sostenuti da argomentazioni scientifiche. Se non si rispettano, non si viola una legge morale o una legge giuridica, che rispondono a criteri di valutazione soggettivi, variabili nello spazio e nel tempo, ma si generano reazioni di causa ed effetto che possono avere conseguenze molto negative sulla specie umana, fino a determinarne l’estinzione.

 

 

 

Sostenibilità.

 

La parola sostenibilità esprime un concetto molto preciso, anche se l’abuso che ne viene fatto, in buona e in cattiva fede, l’ha svuotata del suo significato, rendendola una sorta di giaculatoria necessaria e sufficiente per essere considerati politicamente corretti. Riferita all’insieme delle attività produttive umane, la sostenibilità indica che non consumano una quantità di risorse rinnovabili superiore a quelle che la biosfera è in grado di rigenerare annualmente, non emettono una quantità di scarti biodegradabili superiore a quelli che la biosfera è in grado di metabolizzare annualmente, non utilizzano sostanze di sintesi chimica non metabolizzabili dalla biosfera, non riducono la capacità della biosfera di rigenerare risorse rinnovabili e di metabolizzare scarti biodegradabili (come, per esempio, fanno la deforestazione, l’estensione delle superfici ricoperte da materiali inorganici, la concimazione chimica dei terreni agricoli). Riferita a una singola attività produttiva indica che non produce, né utilizza, sostanze di sintesi chimica non metabolizzabili dalla biosfera, non riduce la sua capacità di rigenerare annualmente risorse rinnovabili, non riduce la sua capacità di metabolizzare annualmente le emissioni di sostanze biodegradabili.

Se l’umanità consuma annualmente più risorse rinnovabili di quelle generate dalla fotosintesi clorofilliana, deve intaccare il patrimonio degli stock accumulati nel corso dei secoli e dei millenni, impoverendoli e riducendo progressivamente la loro capacità di rigenerarsi. Se le sue attività emettono più anidride carbonica di quella che viene assorbita dalla fotosintesi clorofilliana, le quantità eccedenti si accumulano in atmosfera accentuando l’effetto serra e aggravando la crisi climatica. Se producono quantità crescenti di rifiuti non biodegradabili, aumentano le porzioni della superficie terrestre dove la vita soffoca sotto i loro cumuli e l’aria e il ciclo dell’acqua vengono avvelenati dalle loro emissioni. Se consuma una quantità di pesci superiore alla loro capacità di riprodursi, avvia l’estinzione delle specie ittiche che consuma, mettendo in moto un processo che si estende progressivamente anche alle altre. Se si aggravano questi fenomeni e gli altri che hanno superato i limiti della sostenibilità ambientale, i loro effetti si rafforzano vicendevolmente, fino a raggiungere un livello in cui è impossibile arrestarli, e il cammino dell’umanità verso l’autoannientamento diventa inevitabile.

Se si oltrepassa la soglia della sostenibilità, ammesso che non sia già stata oltrepassata, le iniquità sociali aumentano, perché a pagarne le conseguenze – dalla riduzione della disponibilità di cibo e di energia alle alluvioni, dalla salinizzazione dei suoli agricoli alla mancanza di acqua potabile, dalle conseguenze devastanti degli eventi meteorologici estremi alla necessità di migrare  – saranno soprattutto i popoli più poveri e le classi sociali più povere dei popoli ricchi, come sta già accadendo. Non si può perseguire una maggiore equità sociale se non impegnandosi a perseguire la sostenibilità ambientale. E non si può perseguire la sostenibilità ambientale se non impegnandosi per estendere l’equità alle generazioni future e ai viventi non umani.

 

Equità nei confronti delle generazioni future.

 

Per circa mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, nei Paesi sviluppati le condizioni di vita dei figli sono costantemente migliorate rispetto a quelle dei padri. Questa tendenza si è invertita nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando le condizioni di vita dei figli hanno cominciato a essere peggiori di quelle dei padri. Negli ultimi venti anni il divario tra giovani e anziani è aumentato e attualmente le condizioni di vita dei nipoti sono peggiori di quelle dei nonni. Un recentissimo rapporto della Caritas italiana documenta che il reddito medio delle famiglie con capofamiglia di 18-34 anni è meno della metà di quello del 1995, mentre il reddito delle famiglie con capofamiglia di almeno di 65 anni è aumentato di circa il 60 per cento.[1]

Viene spontaneo domandarsi, ma nessuno lo fa, se il progressivo peggioramento delle prospettive di vita delle giovani generazioni non dipenda dal fatto che si sono trovate sulle spalle i debiti accesi dallo Stato e dalle amministrazioni locali negli anni sessanta e settanta, per pagare:

– le opere pubbliche con cui è stata sostenuta la crescita economica negli anni del boom;

– i costi del welfare state di cui hanno goduto i ventenni / trentenni sopravvissuti agli eccidi della guerra e i loro figli nati nei primi anni del dopoguerra: la generazione dei baby boomers.

Quanti dei servizi sociali che hanno garantito livelli crescenti di benessere materiale a partire dagli anni sessanta sono stati finanziati a debito e pagati dalle generazioni successive, che per di più se li sono visti ridurre per ridurre i loro deficit di gestione? Quante opere pubbliche clamorosamente inutili, rese desiderabili nell’immaginario collettivo dalla propaganda martellante dei mass media, sono state finanziate a debito perché accontentavano le esigenze di tutti i partiti politici e di tutte le classi sociali, offrendo agli imprenditori commesse e profitti che altrimenti non avrebbero avuto, e rispondendo al contempo all’esigenza dei sindacati di creare occupazione? Quanto hanno influito nell’incentivare le migrazioni di massa dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’edilizia e all’industria? Di quanto queste spese in deficit hanno fatto aumentare i consumi di risorse e di energia, di quanto ne hanno ridotto le disponibilità e aumentato i costi a carico delle generazioni future? Si pensi alla prima crisi energetica, scoppiata improvvisamente nel 1973, dopo un quarto di secolo di consumi crescenti e di sprechi di fonti fossili, incentivati dai prezzi irrisori. Di quanto le spese in deficit fatte nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale hanno fatto aumentare le emissioni metabolizzabili e le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera, lasciando in eredità a chi doveva ancora nascere varie forme d’inquinamento e un mondo meno ospitale? Si pensi all’Italsider di Taranto, alla diossina fuoriuscita dall’Icmesa a Seveso, alle aziende più inquinanti in assoluto su cui si è fondato lo sviluppo del mezzogiorno, alle piogge acide, al buco dell’ozono, all’effetto serra.

Quella delle opere pubbliche, spesso inutili, finanziate in deficit è una storia in più puntate, che si sono ripetute sempre uguali a se stesse, dalle Olimpiadi di Roma del 1960 alle opere realizzate a Torino per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia nel 1961 e lasciate in abbandono subito dopo, dagli stadi costruiti per i mondiali di calcio del 1990 (lo stadio Delle Alpi a Torino fu demolito dopo appena 18 anni), agli impianti per i mondiali di nuoto a Roma nel 1994 e nel 2009 (in parte non finiti), alle strutture realizzate per Olimpiadi invernali del 2006 a Torino, che hanno fatto salire il debito della città a una cifra pari al 228 per cento delle sue entrate annuali. Il solo pagamento degli interessi nel 2016 ha assorbito il 22 per cento del bilancio comunale. Per saldarlo il Comune dovrà pagare ogni anno 24 milioni di euro fino al 2040. Coloro che non avevano ancora 18 anni quando sono iniziate le opere, e quindi non hanno votato alle elezioni amministrative, i bambini nati successivamente e quelli che nasceranno entro il 2040, ammesso che la scadenza venga rispettata, ringraziano.

Queste oggettive iniquità nei confronti delle generazioni future, derivanti da scelte finalizzate ad accrescere il benessere materiale delle generazioni presenti, si sono verificate in tutti i Paesi sviluppati, facendo crescere la domanda di merci più di quanto non avrebbe potuto fare il reddito disponibile. Hanno comportato pertanto un incremento dei consumi di risorse e delle emissioni, fornendo un contributo decisivo all’insostenibilità che caratterizza i rapporti attuali tra le attività umane e la biosfera. Smettere di fare debiti per accrescere i consumi delle generazioni presenti è indispensabile non solo per estendere l’obbiettivo politico dell’equità alle generazioni future e ridurre la forma d’iniquità più odiosa, perché penalizza chi non può difendersi, ma anche per ricondurre il prelievo delle risorse e le emissioni entro i limiti della sostenibilità ambientale. Come si potrebbe però superare la chiusura egoistica nei propri interessi immediati, che caratterizza le società in cui il benessere è stato identificato col possesso di cose, se la solidarietà non tornasse a essere il fondamento dei legami sociali? Se questo obbiettivo politico non fosse sostenuto da una profonda motivazione etica? Se non si tornasse a provare per le più giovani delle generazioni viventi e per le generazioni future quel senso di protezione e di cura che la specie instilla negli individui per garantirsi la continuità nel tempo?

 

Equità nei confronti dei viventi non umani.

 

La causa principale dell’effetto serra sono gli allevamenti industriali, dove gli animali destinati all’alimentazione dei popoli ricchi vengono riprodotti meccanicamente, richiusi in spazi dove non possono nemmeno girarsi dal momento della nascita al momento in cui vengono uccisi, nutriti con pastoni che ne accelerano la crescita in tempi molto più brevi di quelli naturali. Per coltivare il foraggio, i cereali e la soia con cui vengono alimentati, si abbattono le foreste e si riduce la fotosintesi clorofilliana. Le fermentazioni enteriche dei ruminanti emettono metano, un gas 26 volte più opaco dell’anidride carbonica alla radiazione infrarossa, in quantità che contribuiscono a incrementare l’effetto serra più delle emissioni generate dalla combustione delle fonti fossili. Per ridurre questi fattori d’insostenibilità ambientale occorre ridurre l’iniquità con cui la specie umana tratta gli animali d’allevamento come se fossero machinae animatae, per riprendere la definizione di Cartesio. Ma come si può riuscire in questo intento, superando le resistenze di coloro che traggono profitto dagli allevamenti industriali, se non cresce il numero degli esseri umani che riducono il consumo di carne nella loro alimentazione, non solo per contribuire a ridurre il surriscaldamento globale, ma anche per alleviare la sofferenza di questi esseri viventi e senzienti?

Anche se la consapevolezza dell’insostenibilità degli allevamenti lager sta crescendo, e sta crescendo l’impegno a livello sociale per ridurre le iniquità esercitate dalla specie umana nei confronti degli animali che vi sono rinchiusi, aumenta il numero delle specie animali allevate industrialmente, in modi che non stravolgono soltanto la loro vita, ma anche la vita di altre specie viventi, vegetali e animali, compresi gli esseri umani, a cui sono connesse negli ecosistemi in cui vivono. Particolarmente estesi e gravi sono i problemi ambientali causati dall’allevamento dei gamberetti in acquacoltura. Oltre a provocare pesanti forme d’inquinamento localizzato – accumuli di cibo non consumato in putrefazione, escrementi, batteri, ammoniaca, fosforo, antibiotici, disinfettanti, pesticidi, fertilizzanti – per ricavare i bacini d’allevamento vengono abbattute lungo le coste tropicali ampie zone di foreste di mangrovie, impoverendo la ricchissima biodiversità vegetale e animale che custodiscono, riducendo la fotosintesi clorofilliana, provocando l’erosione dei suoli costieri, distruggendo la barriera di protezione che esse costituiscono contro gli uragani, i maremoti e la penetrazione dell’acqua salata nelle falde idriche e nei terreni agricoli vicini alla costa. La desertificazione che ne consegue costringe i contadini a emigrare in massa verso l’interno. Anche in questo caso la scelta di escludere i gamberetti dalla propria dieta è il modo più efficace di contrastare non solo l’iniquità con cui viene costretta a vivere in maniera del tutto innaturale una specie vivente non umana, ma anche il contributo all’insostenibilità ambientale che ne deriva e il peggioramento delle condizioni di vita di uno degli strati sociali più poveri dell’umanità. È una scelta etica con una forte connotazione politica. Non è motivata soltanto da un senso di giustizia, ma anche dalla solidarietà, dal coinvolgimento empatico nei confronti di chi paga più duramente le conseguenze di una scelta produttiva che accresce l’insostenibilità ambientale, senza nemmeno offrire in cambio qualche vantaggio irrinunciabile.

 

Non si può mettere vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo fa scoppiare gli otri, il vino si spande, e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo va messo in otri nuovi (Luca 5,37-38).

 

I valori della sostenibilità ambientale, della solidarietà, dell’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, sono incompatibili con la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. La solidarietà favorisce gli scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità riducendo la necessità di acquistare sotto forma di merci tutto ciò che è necessario per vivere. L’equità nei confronti delle generazioni future non consente di ampliare con i debiti pubblici la domanda espressa fisiologicamente dal mercato. L’equità nei confronti dei viventi non umani riduce i profitti derivanti dal loro sfruttamento. La crescita della produzione di merci non può non arrivare, prima o poi, a superare i limiti della sostenibilità ambientale.

Nessuno dei partiti politici presenti nelle istituzioni democratiche dei Paesi sviluppati ha un programma incardinato su quei valori. Pertanto, chi è convinto della loro importanza decisiva per il futuro dell’umanità e si propone non solo di metterli a fondamento delle proprie scelte esistenziali, ma anche di dedurne proposte di legge finalizzate a bloccare i processi che incrementano l’insostenibilità ambientale e a sviluppare processi che la riducano, non può non pensare di costituire un soggetto politico che li ponga al centro del suo programma. Questa connotazione sarebbe sufficiente di per sé a marcare la sua totale diversità dai partiti esistenti, ma a definirne ancor più nettamente i contorni è il fatto che la sua attività non potrebbe esaurirsi all’interno delle istituzioni, perché un nuovo sistema di valori non si può formare per via legislativa o deliberativa. Le leggi e le delibere sono strumenti indispensabili per orientare la politica economica, ambientale e sociale, ma non possono cambiare l’immaginario collettivo. L’identificazione del benessere col tantovere, del concetto di nuovo col concetto di migliore, della modernità con la fase più avanzata raggiunta provvisoriamente dalla storia, della ricchezza col denaro, la valorizzazione della concorrenza contro la collaborazione, non sono diventati per legge i valori che nei Paesi sviluppati orientano le scelte esistenziali delle persone. Lo sono diventati in conseguenza dell’azione sistematica di persuasione di massa svolta da una serie di agenzie a cui è stato affidato questo compito: i mass media, la scuola, la chiesa, i sindacati, i partiti politici, la pubblicità, l’industria culturale.

Le attività di un soggetto politico che incardini il suo programma sui valori della sostenibilità, della solidarietà, dell’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, non possono che essere la proiezione a livello istituzionale di un patrimonio di idee maturate nel confronto tra una pluralità di associazioni collegate tra loro non da vincoli organizzativi, ma da una comune volontà di costruire un paradigma culturale incentrato su quei valori: associazioni di volontariato sociale, associazioni culturali, gruppi religiosi e di ricerca spirituale, imprenditori e professionisti che operano per reindirizzare le innovazioni tecnologiche dall’incremento della produttività all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni, agricoltori che hanno abbandonato l’agricoltura chimica e sono tornati all’agricoltura organica implementandola con le conoscenze scientifiche che i contadini tradizionali non avevano, gruppi d’acquisto solidale, associazioni di artigiani che recuperano gli aspetti più interessanti delle corporazioni medievali, come il rifiuto della concorrenza reciproca e la trasmissione generazionale delle conoscenze attraverso l’apprendistato, insegnanti che valorizzano nella loro attività didattica la manualità e la collaborazione al posto della competizione, operatori della sanità che spostano il baricentro della medicina dalla cura delle malattie alla prevenzione primaria. Eccetera.

Entrando nelle assemblee elettive, un soggetto politico ignaro del loro funzionamento ed estraneo alla logica del potere corre il rischio non solo di commettere errori, ma soprattutto di assumere, anche senza accorgersene, le connotazioni negative insite nella forma partito lucidamente descritte da Simone Weil nel 1943, in un saggio che sarebbe stato pubblicato solo nel 1957, a 14 anni dalla sua morte, intitolato: Manifesto per la soppressione dei partiti politici.[2]

 

Un partito politico – scrive la Weil –  […] è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte. Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. […] Un uomo che aderisce a un partito ha verosimilmente visto nell’azione e nella propaganda di quel partito cose che gli sono parse giuste e buone. Ma non ha mai studiato la posizione del partito relativamente a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando a far parte del partito, accetta posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito. Quando, poco a poco, conoscerà le posizioni che oggi ignora, le accetterà senza esaminarle.

 

Un iscritto a un partito, un candidato alle elezioni, un deputato non possono dire  pubblicamente:

 

«Ogniqualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia».

 

Se lo facesse,

 

i meno ostili direbbero: «Perché, allora, ha aderito a un partito?». […] Quell’uomo sarebbe escluso dal suo partito, o per lo meno ne perderebbe l’investitura, non sarebbe certamente eletto. […] Ogni partito è una piccola Chiesa profana armata della minaccia della scomunica.

 

Un’associazione che si presenta alle elezioni non è un partito perché dichiara di non esserlo, ma se si organizza in maniera diversa dai partiti e agisce in maniera diversa da come agiscono. È un’ovvietà, ma vale la pena ribadirla perché a volte capita che la pratica vada in senso contrario alla teoria. La consapevolezza del rischio di diventare un partito è la massima precauzione che si può prendere per evitare di diventarlo, ma non una garanzia che consenta di evitarlo. Il problema da valutare è se valga la pena correrlo. La decisione va presa tenendo in considerazione il fatto che l’insostenibilità ambientale ha raggiunto il livello oltre il quale si autoalimenta e diventa impossibile tornare indietro. Basti pensare che l’anidride carbonica permane per secoli nell’atmosfera e ancora più lungo negli oceani. Anche si smettesse completamente di utilizzare le fonti fossili  – cosa assolutamente impossibile perché oggi soddisfano l’86 per cento del fabbisogno energetico mondiale – ci vorrebbe più di un secolo per scendere sotto la soglia delle 400 parti per milione, raggiunta stabilmente nel 2016. L’ultima volta che la Terra ha conosciuto un livello simile di anidride carbonica è stato tra i 3 e i 5 milioni di anni fa: la temperatura allora era tra i 2 e i 3 °C superiore a quella odierna e i livelli del mare da 10 a 20 volte più alti di quelli attuali.[3] Si può perseguire con la massima efficacia la sostenibilità ambientale rinunciando alla possibilità di usare uno strumento potente come quello legislativo per indirizzare la politica economica e industriale verso la decarbonizzazione? Per difendere i diritti delle generazioni future e degli animali negli allevamenti industriali?

Non bisogna inoltre dimenticare che in Italia, analogamente a quanto succede in tutti i Paesi sviluppati, la percentuale di votanti alle elezioni è scesa al di sotto del 50 per cento. La maggioranza degli aventi diritto al voto non si riconosce in nessun partito. Per i partiti esistenti non è un problema. L’importante per loro è conquistare il consenso della maggior parte dei votanti, perché è quello che consente di vincere le elezioni e governare. Chi non vota non influisce nella distribuzione dei seggi. Nelle loro valutazioni dei risultati elettorali i partiti fanno riferimento solo alle percentuali dei voti ricevuti sui voti espressi, non sulla totalità degli elettori. Per fare un esempio, il 40 per cento dei voti espressi sembra un successo da sbandierare ripetutamente, ma se si rapporta a una percentuale di votanti del 60 per cento, rappresenta in realtà il 24 per cento del corpo elettorale. Non tutti, però, sottovalutano il significato politico dell’astensionismo. Alcuni non pensano che possa essere considerato un dato politicamente ininfluente, ma ritengono che almeno in parte esprima una sfiducia crescente nei confronti di tutti i partiti e del loro modo di fare politica, per cui si propongono di costituire un nuovo partito alternativo a quelli esistenti, nella convinzione che ciò sia sufficiente a trasformare almeno una percentuale delle astensioni in voti a loro favore.

A fronte dell’arroganza di chi ignora il messaggio politico inviato dai non votanti perché non influiscono nella distribuzione dei seggi, l’attenzione rivolta a quel messaggio, per quanto espresso in forma negativa, è un segno di sensibilità democratica che merita apprezzamento. Tuttavia la convinzione che il problema si possa risolvere costituendo un nuovo partito contiene due errori di valutazione. Il primo consiste nel non tener conto che l’astensionismo molto probabilmente travalica la sfiducia nei partiti esistenti ed è rivolto alla forma partito proprio per i motivi indicati da Simone Weil. Lo prova il fatto che mentre il numero degli iscritti ai partiti si è drasticamente ridotto e nelle sezioni che sono rimaste aperte non si svolge più quel confronto sistematico tra eletti ed elettori che ne caratterizzava la vita, le persone che desiderano dare un contributo al bene comune hanno indirizzato il loro impegno nelle associazioni del volontariato.

Il secondo errore consiste nel credere che la crescita dell’astensionismo sia causata sostanzialmente dalla riduzione delle differenze tra la destra e la sinistra: i due poli della contrapposizione che  ha caratterizzato le dinamiche politiche nell’ottocento e nel novecento. Secondo questa chiave di lettura, la reazione di una parte dell’elettorato sarebbe stata: se tutti i partiti fanno proposte più o meno analoghe per risolvere i problemi sociali, economici e ambientali, senza peraltro risolverli perché in realtà pensano solo a mantenere i loro privilegi e i privilegi dei loro clientes, a che serve votare? Dal momento che la riduzione delle differenze tra la destra e la sinistra non è stata la conseguenza di un reciproco avvicinamento delle due parti, ma di un progressivo spostamento della sinistra verso destra, una parte significativa di coloro che non vanno a votare è costituita da ex elettori di sinistra delusi. Per recuperare quel voto gli esponenti della sinistra rimasta a sinistra si sono proposti di ricostituire un partito che ponga al centro del suo programma la tutela della democrazia, dei diritti dei lavoratori, del welfare state, della gestione pubblica dei servizi sociali, dei beni comuni.

I sostenitori di questa proposta non tengono conto del fatto che, in questa fase storica, l’impegno per una più equa redistribuzione tra le classi sociali del reddito generato dal lavoro non può essere disgiunto dall’impegno per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, per cui non può essere riproposto come è stato fatto dalla sinistra nei decenni passati. E l’impegno per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale non può essere considerato un obbiettivo settoriale di un programma politico, alla stregua della politica scolastica, della politica per la casa o della politica per la salute, ma è la cornice in cui collocare tutti gli obbiettivi settoriali, il fine ultimo a cui tutti devono essere indirizzati, perché nessuno di essi ha un senso se oltre a ridurre un’iniquità non contribuisce a evitare l’autoannientamento della specie umana.

Un soggetto politico che incardina il suo programma sulla sostenibilità, la solidarietà e l’equità estesa alla generazioni future e ai viventi non umani non si preoccupa d’intercettare i voti di coloro che attualmente si astengono o annullano la scheda, perché, non proponendosi di essere un partito, non pone a fondamento della sua attività la crescita dei suoi consensi elettorali. Il suo obbiettivo politico è favorire la traduzione delle astensioni consapevoli in impegno nei movimenti di resistenza ai progetti ecologicamente devastanti e nelle associazioni culturali, professionali e ambientaliste dove matura la consapevolezza dei rischi che l’umanità sta correndo e si formulano proposte per allontanarli. Saranno queste aggregazioni sociali, impegnate, ciascuna a suo modo, a perseguire l’obbiettivo della sostenibilità ambientale che le accomuna, a proporsi di raccogliere il voto di chi non si riconosce in nessuno dei partiti esistenti, per dare più forza al proprio impegno nella società con l’accesso al potere legislativo.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]             Cfr. Futuro anteriore, Rapporto Caritas 2017 su povertà giovanili ed esclusione sociale in Italia.

[2]               Titolo originale: Note sur la supression générale des parties politiques, Éditions Gallimard, Paris 1957; I edizione italiana: Alberto Castelvecchi Editore, Roma 2008.

[3]               Cfr. il rapporto presentato a Ginevra il 30 ottobre 2017 dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo).

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Amazzonia: Indiani implorano aiuto dopo il massacro

Gli Indiani brasiliani hanno fatto appello al mondo per impedire ulteriori assassinii dopo la denuncia di un massacro di alcuni membri di una tribù incontattata, e hanno accusato i tagli finanziari del governo che hanno lasciato i loro territori senza protezione.

Paulo Marubo, un leader indigeno del Brasile occidentale, ha dichiarato: “È probabile che vi saranno altri attacchi e assassinii. I tagli ai finanziamenti del FUNAI stanno danneggiando le vite dei popoli indigeni, specialmente delle tribù incontattate, che sono le più vulnerabili.” (Il FUNAI è l’agenzia per gli affari indigeni in Brasile).

Marubo è il leader della Univaja, un’organizzazione indigena che difende i diritti delle tribù della Frontiera Incontattata, l’area con la più alta concentrazione di tribù incontattate al mondo.

Paulo Marubo, leader di un’organizzazione indigena della Valle del Javarí nella Frontiera Incottattata.

Paulo Marubo, leader di un’organizzazione indigena della Valle del Javarí nella Frontiera Incottattata.

© Amazonas Atual

La COIAB, l’organizzazione che rappresenta gli Indiani di tutta l’Amazzonia brasiliana, ha denunciato i massicci tagli al budget del FUNAI che hanno lasciato molti territori indigeni indifesi.

“Condanniamo con forza gli attacchi brutali e violenti contro questi Indiani incontattati. Questo massacro dimostra esattamente quanto i diritti dei popoli indigeni in questo paese siano arretrati [negli ultimi anni].

I tagli e lo smantellamento del FUNAI sono stati implementati per promuovere gli interessi di potenti politici che vogliono continuare a saccheggiare le nostre risorse, e aprire i nostri territori allo sfruttamento minerario.”

I primi rapporti ufficiosi emersi dall’Amazzonia la scorsa settimana riferiscono che fino a 10 indigeni incontattatisono stati assassinati dai cercatori d’oro e i loro corpi sono stati mutilati e poi gettati nel fiume.

I minatori si sarebbero vantati in un bar nella città vicina delle atrocità commesse, le cui vittime comprendevano donne e bambini. Il pubblico ministero locale ha aperto un’indagine.

Questi Indiani Sapanawa hanno intrapreso il primo contatto nel 2014. Gli indigeni hanno raccontato che la loro comunità era stata attaccata ed erano state uccise così tante persone da non riuscire a seppellirle tutte.

Questi Indiani Sapanawa hanno intrapreso il primo contatto nel 2014. Gli indigeni hanno raccontato che la loro comunità era stata attaccata ed erano state uccise così tante persone da non riuscire a seppellirle tutte.

© FUNAI/Survival

Il massacro sarebbe solo l’ultimo di una lunga serie di precedenti assassinii di indiani isolati in Amazzonia, tra cui il tristemente noto massacro di Haximu avvenuto nel 1993, quando 16 Yanomami furono uccisi da un gruppo di cercatori d’oro.

Più recentemente, è emerso dalla Frontiera Incontattata un gruppo di Indiani Sapanawa riferendo che le loro case erano state attaccate e bruciate da esterni che avevano ucciso così tanti membri della comunità da non riuscire a seppellire tutti i loro corpi.

Tutti i popoli incontattati rischiano la catastrofe se le loro terre non saranno protette. Survival International conduce una campagna per rendere le loro terre sicure e dare loro la possibilità di determinare autonomamente il proprio futuro.

“La decisione del governo brasiliano di tagliare i fondi alle squadre che proteggono i territori degli Indiani incontattati non è stata un errore innocente” ha commentato Stephen Corry, Direttore generale di Survival International. “È stato fatto per soddisfare i potenti interessi di chi vuole aprire i territori indigeni allo sfruttamento minerario, al taglio del legno e agli allevamenti. Queste sono le persone con cui gli indigeni si devono confrontare, e le morti delle tribù incontattate non li scoraggeranno. Solo una mobilitazione mondiale potrebbe equilibrare il confronto a favore degli indigeni e impedire ulteriori simili atrocità. Noi conosciamo l’efficacia della pressione pubblica – molte delle campagne di Survival hanno avuto successo nonostante avversità di questo tipo.”

Fonte: Survival.it

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In 10 anni quadruplicata popolazione a rischio fame, servono 23 mld di aiuti

Il punto con il lead analyst dell’agenzia Onu per le crisi alimentari

Quasi un miliardo di persone non alimentate in modo adeguato, 108 milioni in grave insicurezza alimentare, con malnutrizioni severe soprattutto nei bambini, 20-25 milioni a rischio carestia e 2-300mila persone in una situazione dichiarata di carestia, una condizione in cui già si contano numerose vittime, dove occorre agire per salvare vite umane. Luca Russo, lead analyst della Fao per le crisi alimentari, fa il punto con l’Adnkronos sul fenomeno a livello globale.

L’intervento umanitario in tutte queste situazioni è fondamentale. “Siamo passati da 5-6 miliardi di aiuti necessari, al 2006, a quest’anno in cui parliamo di 23 miliardi a livello globale anche perché la popolazione colpita si è quadruplicata rispetto al 2006 a causa dei tantissimi conflitti e dei cambiamenti climatici. Le risorse disponibili però di fatto coprono solo una parte dei fabbisogni, finanziati mediamente per il 30-40%”, spiega.

“Le persone in una situazione di grave insicurezza alimentare, che quindi hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere, sono 108 milioni nelle statistiche 2016. L’anno precedente erano 80 milioni, nel 2016 abbiamo avuto dunque una forte degradazione della situazione dovuta essenzialmente a due fenomeni: uno, il più importante, i molti conflitti che ci sono al mondo e, l’altro, il fenomeno El Nino con episodi di siccità importante in alcune regioni”, continua Russo.

“Per il 2017 ci sono una serie di Paesi che seguiamo con più attenzione – dice – Sud Sudan, Yemen, nordest Nigeria e Somalia che l’anno scorso sono stati dichiarati dal segretario dell’Onu a rischio carestia. La buona notizia è che, tranne a inizio anno quando in Sud Sudan è stata annunciata una carestia, gli aiuti umanitari importanti fatti arrivare in questi Paesi hanno limitato la portata negativa di queste crisi, quindi in nessuno di questi quattro Paesi oggi, poi vedremo i dati nelle prossime settimane o mesi, possiamo dire che c’è una situazione di carestia”.

I numeri nel loro complesso, però, restano sostanzialmente gli stessi. “Ci sono altri Paesi in cui si sta manifestando una crisi severa, come il Congo, mentre soprattutto nella parte meridionale dell’Africa i numeri sono migliori. Poi avremo il totale a fine anno”, avverte Russo.

Ma come sono distribuiti questi numeri? Dei 108 milioni di persone a rischio ben 32 milioni si trovano in Sud Sudan, Yemen, nordest Nigeria e Somalia. “Ma non bisogna dimenticare i Paesi più piccoli – avverte – come la Repubblica Centroafricana e il Congo dove ci sono fenomeni non ugualmente importanti sui numeri ma altrettanto severi. Infatti questo è uno degli grandi rischi: c’è una grandissima attenzione a queste quattro grandi crisi e altre dimenticate“.

“Quando noi come agenzia dichiariamo una famine (carestia) vuole dire che si sono verificati una serie di eventi: almeno il 30% dei bambini severamente malnutriti; la mortalità giornaliera doppia rispetto alla media normale; il 20% della popolazione che soffre di grossi problemi di accesso agli alimenti. Il punto è che nel momento in cui noi dichiariamo che c’è carestia in un Paese dichiariamo che ci sono stati molti, molti morti. Quindi sarebbe importante intervenire prima che agenzie o governi siano costretti a dichiarare una famine”, rimarca il lead analyst per le crisi alimentari Fao.

“Insomma – ribadisce – quando si dichiara una carestia vuol dire che siamo già in ritardo rispetto alle risposte, bisognerebbe intervenire nelle fasi precedenti quando si dice ‘attenzione c’è una crisi’, La dichiarazione di carestia è una dichiarazione di fallimento: la gente già è vittima della fame“.

Quali le cause? Conflitti, cambiamenti climatici con situazioni di siccità ricorrenti, la fragilità stessa di alcuni Stati, situazioni di sottosviluppo. “Se non c’è pace è molto difficile risolvere i problemi di sicurezza alimentare – osserva – bisogna lavorare su una stabilizzazione di questi Paesi. Poi, noi, come Fao, sosteniamo che l’agricoltura in questi contesti rimane il settore portante: investire nel settore agricolo è di fondamentale importanza, evita quei fenomeni di abbandono del proprio Paese perché non ci sono mezzi per la produzione di cibo. Nel momento in cui ci si muove è molto difficile tornare indietro”.

“Al momento, ci sono nel mondo oltre 60 milioni di persone che hanno dovuto lasciare il loro luogo di residenza, sfollati nel loro Paese o all’estero come rifugiati, una cifra seconda solo a quanto accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale”, conclude Russo.

Fonte: Adnkronos.com

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Migrazioni: l’insopportabile ipocrisia dell’accoglienza

La situazione attuale

Le migrazioni costituiscono, insieme all’effetto serra e alla crisi economica iniziata nel 2007, i problemi più gravi di questo periodo della storia umana. Nei Paesi di partenza sono causate da sconvolgimenti profondi della struttura produttiva, dei rapporti sociali e delle condizioni ambientali che impediscono alle popolazioni di continuare a ricavare il necessario da vivere nei luoghi in cui vivono, come hanno fatto per millenni i loro antenati. Nei Paesi d’arrivo generano tre tipi di reazioni: una di rifiuto, che si concretizza nel sostegno ai partiti xenofobi; una di accoglienza interessata per i contributi che i migranti possono dare alla crescita economica e alla ricchezza monetaria dei nativi; una di accoglienza disinteressata e generosa, basata sulla solidarietà nei confronti delle persone più provate dalla vita e sulla pulsione a una maggiore giustizia sociale. I partiti xenofobi enfatizzano i problemi creati dall’arrivo di un numero sempre maggiore di migranti senza risorse professionali ed economiche, mettendo in evidenza l’insicurezza e il degrado che inevitabilmente si genera nei luoghi in cui in qualche modo si accampano e si arrangiano per sopravvivere. I sostenitori dell’accoglienza interessata li minimizzano, insistendo sui vantaggi economici che deriverebbero dalla loro regolarizzazione: crescita del prodotto interno lordo, aumento del gettito fiscale, pagamento delle pensioni. I sostenitori dell’accoglienza disinteressata fanno leva sui sentimenti di fraternità che, persistono nell’animo umano nonostante i decenni di consumismo, materialismo ed egoismo che hanno caratterizzato le società industriali. E dedicano le loro energie, la loro intelligenza, la loro creatività a cercare soluzioni per aiutare i migranti con cui entrano in contatto a trovare un alloggio e un lavoro dignitosi. Nascosti nei coni d’ombra tra queste dinamiche, agiscono due categorie di approfittatori: quelli che speculano sulla disperazione dei più deboli, sfruttando la loro forza lavoro in maniere ignobili, fino a farli morire; e quelli che, agendo nei meandri nascosti della politica, riescono a impadronirsi dei fondi stanziati per le strutture d’accoglienza, lasciando solo le briciole ai disperati cui erano destinati.[1]

L’aspetto di queste dinamiche su cui si dovrebbe maggiormente puntare l’attenzione e passa invece pressoché inosservato, è il fatto che tutti gli attori in campo si limitano a prendere in considerazione, ciascuno dal proprio punto di vista, le conseguenze dei flussi migratori nei Paesi d’arrivo, ma nessuno si domanda per quale motivo negli ultimi trent’anni le migrazioni abbiano coinvolto numeri sempre maggiori di persone in tutto il mondo. Una domanda che in relazione ai viaggi dall’Africa e dal Medio-oriente verso l’Europa è resa ancora più drammatica dal fatto che sono gestiti da bande di trafficanti di esseri umani, sono contrassegnati da violenze, spesso finiscono con naufragi nel canale di Sicilia e, anche se si concludono in qualche porto italiano, non c’è nessuna certezza che chi arriva possa iniziare una nuova vita più soddisfacente di quella che ha lasciato. C’è chi con una superficialità pari alla supponenza ha scritto: «Una è la visione del futuro, che è bene avere ma non puoi inventare. L’altra è lo spostamento dei popoli, che è come la terra che gira o l’eclissi di luna. Non riconoscere eventi immensi mentre stanno accadendo è una penosa cecità selettiva». (Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2017, p. 10). Si può modificare la rotazione terrestre? Si possono modificare le eclissi della luna? Si possono eliminare le cause che inducono masse crescenti di disperati a sottoporsi a viaggi infernali pur di lasciare i luoghi in cui i loro antenati hanno ricavato da vivere per millenni? Si può mettere fine a una sofferenza che i loro antenati non hanno dovuto patire? Non c’è davvero nessuna causa dipendente da scelte umane che possa essere rimossa?

 

Le migrazioni sono un fenomeno intrinseco al modo di produzione industriale

 

     Nel modo di produzione pre-industriale – ancora vigente in alcuni Paesi del mondo che, per questa ragione, vengono definiti sottosviluppati – l’economia è finalizzata a produrre beni con un valore d’uso. L’attività principale è l’agricoltura per autoconsumo. Gli scambi mercantili si limitano alle eccedenze della produzione agricola rispetto al fabbisogno delle famiglie contadine e agli oggetti prodotti dagli artigiani per rispondere alla domanda di clienti che li ordinano. Il denaro è il mezzo attraverso cui avvengono gli scambi tra i produttori e gli acquirenti dei beni. Nel modo di produzione industriale l’introduzione di macchine azionate da motori che trasformano l’energia termica in energia meccanica accresce la produzione e ne muta la finalità. I prodotti industriali non sono fatti su richiesta di chi ne ha bisogno, ma per essere venduti e ricavare dalla loro vendita più denaro di quanto ne è stato investito per produrli. Non vengono prodotti per il loro valore d’uso, ma per il loro valore di scambio. Pertanto, più se ne producono, più se ne possono vendere e più alti possono essere i profitti di chi li produce. Il denaro si trasforma da mezzo di scambio a fine delle attività produttive.

Per accrescere la produzione industriale non basta introdurre macchine sempre più efficienti nei cicli produttivi. Deve anche aumentare il numero delle persone che lavorano in fabbrica e il numero delle persone con un reddito monetario che consenta di acquistare i prodotti industriali. Chi lavora in fabbrica non ha la possibilità di autoprodurre i beni di cui ha bisogno per vivere, ma può comprarli sotto forma di merci col salario che riceve in cambio del lavoro che svolge. I due serbatoi da cui possono essere attinti i lavoratori di cui le fabbriche hanno bisogno per accrescere la produzione industriale sono i contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza e gli artigiani. Ma bisogna convincerli, o costringerli, ad accettare questo cambiamento. All’inizio della rivoluzione industriale, in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, furono emanate una serie di leggi che imponevano la recinzione delle terre agricole per favorirne l’accorpamento e consentire l’introduzione di tecniche agrarie che aumentavano la produttività, con l’obbiettivo di trasformare l’agricoltura da attività prevalentemente per autoconsumo in attività finalizzata alla vendita dei prodotti agricoli. Gli accorpamenti dei terreni furono effettuati in modo da favorire i grandi proprietari terrieri e danneggiarono i contadini, a cui furono assegnati gli appezzamenti meno fertili. Furono inoltre privatizzate le terre comuni, impedendo ai contadini di continuare a esercitare il diritto, che avevano da secoli, di portarvi al pascolo gli animali, di cacciare la selvaggina, di raccogliere la legna da ardere, le erbe e i frutti selvatici. Gli effetti combinati di queste due misure resero impossibile sopravvivere con l’agricoltura di sussistenza e i contadini furono costretti a emigrare nelle aree industriali, dove non avevano altra scelta che lavorare come operai. Del resto, se non l’avessero fatta spontaneamente, un’apposita legislazione puniva l’accattonaggio con la condanna alla reclusione da scontare lavorando in apposite fabbriche-prigioni. Contestualmente, lo sviluppo dell’industria tessile metteva fuori mercato le stoffe tessute in casa con telai a mano da artigiani, che reagirono distruggendo i telai meccanici azionati dalle macchine a vapore, ma la loro rivolta, passata alla storia col nome di luddismo, fu sconfitta militarmente dalle truppe governative inviate in soccorso degli industriali. Da allora i sistemi coercitivi utilizzati per costringere i contadini e gli artigiani a trasferirsi dalla produzione di valori d’uso alla produzione di valori di scambio, dalle campagne alle città, sono stati integrati instillando nell’immaginario collettivo l’idea che questo passaggio costituisse un progresso indispensabile per accrescere il benessere e migliorare le condizioni di vita.

Questo processo è avvenuto, seppure in tempi sfalsati, in tutti i Paesi in cui nel corso dell’Ottocento si è sviluppata l’industrializzazione. A parte gli Stati Uniti, dove i flussi migratori di cui il Paese aveva bisogno per sostenere il suo sviluppo industriale furono alimentati, sin dall’inizio, da masse di disperati privi di tutto provenienti da molti Paesi europei, nei Paesi europei, in una prima fase durata grosso modo fino alla prima metà del Novecento, le migrazioni dalle campagne alle città non hanno generalmente superato gli ambiti regionali e hanno assunto dimensioni nazionali solo nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, che sono stati caratterizzati da una crescita economica senza precedenti. Quella crescita non sarebbe stata possibile se i flussi migratori non avessero fatto aumentare il numero degli occupati nel settore industriale, e se l’aumento dell’occupazione non avesse fatto aumentare il numero dei percettori di reddito in grado di acquistare i prodotti industriali immessi sul mercato. In Italia le migrazioni assunsero in quegli anni le connotazioni di un esodo dal sud al nord, alimentato non solo dai braccianti e dai lavoratori agricoli giornalieri che vedevano nella possibilità di lavorare in fabbrica e di avere un reddito monetario alla fine di ogni mese il superamento della povertà e della precarietà in cui vivevano, ma anche dall’attrazione esercitata dalla vita nelle città, di cui i mezzi di comunicazione di massa presentavano solo gli aspetti positivi, la vivacità culturale, l’abbondanza dell’offerta di merci, le opportunità di lavoro e di guadagno, mentre della vita in campagna enfatizzavano soltanto gli aspetti negativi, la fatica, la monotonia, l’arretratezza. I flussi migratori all’interno di ogni Paese europeo vennero integrati da flussi migratori dai Paesi in cui l’industrializzazione era iniziata più tardi e aveva avuto uno sviluppo più lento, verso i Paesi in cui era iniziata prima e si era sviluppata più rapidamente. Per esempio, dall’Italia alla Germania, al Belgio e alla Francia.

       

Le migrazioni attuali sono una conseguenza della globalizzazione

 

     Dopo l’abbattimento del muro di Berlino (ottobre 1989) e il crollo dell’Unione Sovietica, la variante liberista del modo di produzione industriale non ha più avuto ostacoli che le impedissero di espandersi in tutto il mondo. Del resto le economie dei Paesi capitalisti non avrebbero potuto continuare a crescere se non fosse cresciuta la produzione industriale e la domanda di prodotti industriali in Paesi come la Cina e l’India, dove vivono 3 miliardi di persone, il 40 per cento della popolazione mondiale. Ma la domanda di merci può crescere solo se cresce il numero delle persone provviste di reddito, cioè se cresce il numero degli occupati che ricevono un salario in cambio del loro lavoro, il numero degli imprenditori e il numero delle persone che lavorano nei servizi necessari al funzionamento di una società complessa. In quei Paesi, in cui aveva ancora un peso rilevante l’agricoltura di sussistenza, il trasferimento di decine di milioni di lavoratori dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria e ai servizi, dall’agricoltura per autoconsumo alla produzione agricola per il mercato è stato attuato con deportazioni di massa. Altre deportazioni di decine di milioni di contadini sono avvenute in seguito agli allagamenti dei terreni e dei villaggi agricoli, provocati dalla costruzione di dighe gigantesche per soddisfare il crescente fabbisogno di energia elettrica richiesto dalla crescita della produzione industriale, dall’urbanizzazione e dall’innalzamento dei livelli di vita. In pochissimi anni sono state costruite città di decine di milioni di abitanti.[2]

Nei Paesi africani non è stato lo sviluppo industriale a costringere i contadini a lasciare le campagne da cui ricavavano il necessario per vivere, ma sono state le guerre tra le etnie e gli Stati fomentate dai Paesi occidentali, e quelle combattute direttamente da loro per tenere sotto controllo i territori in cui insistono le miniere e i giacimenti di fonti fossili necessari a sostenere la loro crescita economica. Sono state la riduzione della fertilità dei suoli e la perdita dell’autosufficienza alimentare causate dagli aiuti allo sviluppo, cioè alla mercificazione dell’agricoltura, che li hanno indotti ad abbandonare la biodiversità e l’agricoltura di sussistenza per dedicarsi alla monocoltura di prodotti esotici richiesti dal mercato mondiale. Sono stati gli acquisti di enormi estensioni di terreni agricoli non accatastati effettuati da cinesi e coreani per un tozzo di pane con la complicità di governanti corrotti. Non essendosi sviluppate in questi Paesi attività industriali in cui trasferirsi, l’unica prospettiva per le popolazioni costrette a lasciare le loro terre è trovare qualche forma di lavoro nei Paesi europei.

 

Liberi di dover partire

 

     Naturalmente nessuno è obbligato a emigrare. E chiunque ha diritto di andar via dai luoghi in cui non vuole più a vivere, o perché sono devastati da una guerra, o perché non riesce più a ricavarne il necessario per rispondere ai bisogni vitali della propria famiglia, o perché pensa di poter vivere meglio in un altro luogo del mondo. Chi sceglie di emigrare lo fa liberamente, anche se tutta la storia delle migrazioni è contrassegnata dalla sofferenza. La sofferenza di dover lasciare i luoghi in cui si è nati e i propri affetti familiari, la sofferenza di dover accettare lavori faticosi, pericolosi e poco pagati nei luoghi in cui si trasferisce, la sofferenza di vivere in abitazioni malsane in quartieri ghetto, la sofferenza per l’ostilità delle popolazioni tra cui s’inserisce. Una descrizione molto vivida delle condizioni di vita degli operai nel 1936 in Inghilterra è stata fatta da George Orwell nei resoconti di viaggio in un distretto minerario del Nord, raccolti nel libro La strada di Wigan Pier. In relazione alla storia dell’emigrazione italiana all’estero basta ricordare il linciaggio di 17 italiani ad opera di contadini e vagabondi francesi che lavoravano con loro nelle saline di Aigues Mortes il 16 e 17 agosto 1893. O i 136 minatori intrappolati da un’esplosione nella miniera belga di Marcinelle l’8 agosto 1956. Se avessero potuto ricavare il necessario per vivere dove erano nati, sarebbero andati a lavorare nelle saline francesi o nelle miniere del Belgio? Libers… de scigní lâ (Liberi… di dover partire), ha intitolato una sua raccolta di poesie in friulano, Leonardo Zanier, un sindacalista poeta che ha dedicato la vita a tutelare i diritti dei lavoratori italiani emigrati in Svizzera. Possibile che i sostenitori dell’accoglienza per ragioni umanitarie e di giustizia sociale sappiano solo dire che emigrare è un diritto che va tutelato e agevolato, ma non riescano nemmeno a immaginare che se degli esseri umani sono costretti a fare una scelta che nasce dal bisogno di fuggire da una sofferenza e nella maggior parte dei casi conduce ad altra sofferenza, l’umanità, il diritto, la condivisione impongono che ci si domandi quali siano le cause della sofferenza che li costringe a emigrare e della sofferenza che incontreranno nei luoghi d’arrivo? Che ci si impegni a renderne consapevole l’opinione pubblica e a cercar di capire come possano essere rimosse? Se ci si limita ad agevolare l’accoglienza dei migranti si rafforzano le cause che li inducono a emigrare. E, poiché le migrazioni sono causate da sofferenza e comportano sofferenza, si contribuisce ad accrescerla, oltre a fare inconsapevolmente il gioco dei sepolcri imbiancati dell’accoglienza interessata.

 

L’accoglienza dei sepolcri imbiancati (piccolo florilegio)

 

Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione, alla scienza, Dichiarazione all’emittente francese Europe 1, 11 maggio 2015:

Bisogna avere più migranti in Europa. L’immigrazione è essenziale alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte.

 

Caritas e Migrantes, XXIV Rapporto Immigrazione, Migranti attori di sviluppo, Expo di Milano, 4 giugno 2015:

I migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 per cento del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942 (ndr: cosa si può volere di più?, per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno, fino a quando ce n’è bisogno).

 

Maurizio Ricci, Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l’Europa, la Repubblica on line, 8 settembre 2015:

Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060.

(ndr: «rifugiati», cioè profughi di guerra, non semplici migranti economici, ammesso che la distinzione abbia un senso).

 

Secondo un rapporto del Credit Suisse, reso pubblico il 23 settembre 2015, le spese per i migranti sono destinate a ripagarsi sotto forma di benefici alla crescita e quindi di aumenti delle entrate fiscali. La gestione dei migranti non è un costo ma un buon investimento. Entro il 2020 l’Europa avrà bisogno di 42 milioni di occupati in più per sostenere il suo sistema di welfare. La proiezione al 2060 è di 250 milioni. Le alternative, secondo lo studio della banca svizzera, sono pura questione di logica: o aumenta il tasso di natalità o arrivano più immigrati o si riducono le prestazioni.

(ndr: non hanno visto i 3 milioni di disoccupati in Italia, dove la disoccupazione giovanile oscilla da anni intorno al 40 per cento)

 

Tito Boeri, presidente dell’Inps, intervistato da Francesco Manacorda, Repubblica delle Idee, Bologna, Centro San Domenico, 15 giugno 2017:

Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero, un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d’origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto.

(ndr: oltre ad arricchirci legalmente, si fanno pure fregare…)

 

Ancora Tito Boeri, nella Relazione Annuale dell’INPS, presentata il 4 luglio 2017 a Montecitorio ha scritto:

Chiudere loro le porte ci costerebbe la perdita secca di 38 miliardi per i prossimi 22 anni, una manovra aggiuntiva annuale. […] Chiudendo le frontiere agli immigrati rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale. I lavoratori che arrivano in Italia sono sempre più giovani, la quota degli under 25 è passata dal 27,5 per cento del 1996 al 35 per cento del 2015, e pertanto si tratta di 150.000 contribuenti in più l’anno, che bilanciano in parte il calo delle nascite. […] sino ad ora gli immigrati ci hanno regalato circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni.

(ndr: «ci hanno regalato circa 1 punto di pil»: nonostante la loro povertà, sono proprio generosi)

 

Fondo Monetario Internazionale, L’impatto della migrazione sui livelli di reddito delle economie avanzate, 5 luglio 2017:

Nelle economie avanzate a un aumento di lavoratori immigrati dell’1 per cento corrisponde una crescita del Prodotto interno lordo di 2 punti, nel lungo periodo.

(ndr: di quanto fa diminuire la ricchezza nei Paesi di provenienza?)

 

Sempre Tito Boeri, 20 luglio 2017, audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti:

Gli immigrati regolari versano ogni anno 8 miliardi in contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps.

 

Evitare di essere utilizzati come inconsapevoli cavalli di Troia

 

I sepolcri imbiancati sanno perfettamente che nei Paesi sviluppati la produzione e la vendita di merci non possono continuare a crescere se non aumenta la percentuale della popolazione mondiale che abbandona l’economia di sussistenza e s’inserisce nell’economia di mercato. Sostengono quindi a ragion veduta che bisogna accogliere i migranti perché ne abbiamo bisogno: per continuare a far crescere il nostro prodotto interno lordo, per mantenere i nostri stili di vita, per pagare le nostre pensioni, per svolgere i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per dare assistenza ai nostri vecchi. Sono invece disinteressate e dettate dalla solidarietà le motivazioni con cui la Chiesa cattolica nonostante gli scivoloni della Caritas, alcune associazioni non governative e i movimenti politici della sinistra non geneticamente modificata operano per favorire l’ingresso e l’accoglienza dei migranti dal Medio-oriente, dall’Africa e dai Paesi dell’Europa dell’est. Per costoro i richiedenti asilo e i migranti economici sono esseri umani che non hanno avuto la nostra fortuna di nascere dalla parte giusta del mondo, costretti a intraprendere drammatici viaggi della speranza alla ricerca di una vita migliore, accettando di subire violenze d’ogni tipo da trafficanti di esseri umani senza scrupoli e di rischiare la vita per raggiungere la terra promessa dei nostri Paesi, dove i livelli di benessere sono più alti di quelli dei loro Paesi d’origine.

     Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere etico da compiere tempestivamente senza se e senza ma, capire le cause che la provocano è un dovere intellettuale a cui consegue l’impegno politico di provare a rimuoverle. Sicuramente una parte dei migranti che tentano disperatamente di trasferirsi dall’Africa e dal Medio-Oriente nei Paesi dell’Europa occidentale sono attirati dall’abbondanza dei beni materiali. Chi li produce utilizza spregiudicatamente internet e le televisioni satellitari per suscitare in loro il desiderio di averli, sapendo di incidere soprattutto tra i giovani, che sono la fascia d’età più interessante dal punto di vista lavorativo.[3] Tuttavia la maggioranza è costretta a emigrare perché i Paesi industrializzati, per sostenere i loro interessi hanno reso impossibile ai popoli che li abitano di continuare ad abitarli e a trarne il necessario per vivere. La distinzione tra migranti economici e rifugiati politici, che molti ripetono come un’ovvietà, è concettualmente pretestuosa. Che differenza c’è tra chi è costretto ad abbandonare la propria terra perché sconvolta da guerre istigate, o combattute direttamente dai Paesi sviluppati per tenere sotto controllo i giacimenti di una risorsa necessaria alla loro crescita economica, chi è costretto ad abbandonarla perché la sua fertilità è stata impoverita dall’agricoltura chimica finanziata dagli aiuti allo sviluppo per potenziare l’offerta sul mercato mondiale di un prodotto agricolo di cui c’era temporaneamente una domanda inevasa, e chi è costretto ad abbandonarla perché vi è stato insediato un campo petrolifero, o una discarica di rifiuti inquinanti, o perché se ne sono impadroniti i cinesi? Nessuno di loro può continuare a vivere sulla terra in cui è nato e in cui sono nati i suoi avi.

Chi ritiene che le società industriali costituiscano il livello più alto raggiunto dalla storia perché hanno consentito ai loro abitanti di avere un’abbondanza di beni materiali mai conosciuta in passato, di sconfiggere la fame, di curare malattie prima incurabili e di allungare la durata della vita, è convinto che i migranti dall’Africa e dal Medio-oriente non possano non desiderare di venire a viverci, «per donare a se stessi e ai propri cari un futuro migliore», come ha sostenuto mellifluamente Silvio Berlusconi parlando in un rete televisiva tunisina quando era presidente del Consiglio. E se è sensibile alle motivazioni umanitarie e ritiene che l’equità sia un valore, non può non essere disponibile ad aiutarli affinché possano condividere il nostro stile di vita. Non coglie la venatura di razzismo che offusca questa idea di accoglienza. Non pensa che sia il nostro stile di vita consumistico a impedire che i migranti possano continuare a vivere sulle terre dei loro padri, perché li priva del necessario per alimentare il nostro superfluo. Crede che l’unica alternativa ai limiti del loro modo di vivere sia il nostro modo di vivere, che è meno compatibile del loro con la biosfera. Non immagina che ce ne possa essere un altro diverso dal nostro e dal loro, da inventare e costruire insieme, perché il nostro non ha futuro e il loro è contrassegnato da privazioni. Non pensa che nel loro stile di vita possano esserci vantaggi che il nostro stile di vita ci ha tolto (la spiritualità, la solidarietà, la collaborazione) e che si possano superare i loro limiti (conoscenza scientifica molto scarsa, problemi igienici e sanitari, carenza di beni materiali) senza necessariamente assumere i nostri. Insomma, solo chi ha un modo di pensare molto schematico e forti limiti mentali può pensare che l’unica alternativa possibile ai problemi della loro società sia la nostra, e che l’unica alternativa possibile ai difetti della nostra sia tornare indietro, alla nostra società contadina dell’anteguerra, che era simile alla loro. Non immagina nemmeno che si possa andare avanti, ciascuno per la sua strada, in una direzione diversa. Per esempio, verso società in cui la tecnologia sia finalizzata a ridurre l’impronta ecologica e non ad aumentare la produttività; in cui il benessere non si confonda col tantoavere, ma s’identifichi con la possibilità di garantire a tutti di far fruttare i propri talenti. Se non si pongono queste domande, i sostenitori limpidi dell’accoglienza rischiano di diventare i cavalli di Troia dei sepolcri imbiancati, che si fanno paladini dell’accoglienza per trasferire al servizio delle società opulente coloro ai quali le società opulente hanno già tolto il necessario per vivere a casa loro.

Se, in conseguenza dell’inserimento di un numero sempre maggiore di migranti nel sistema economico e produttivo dei Paesi sviluppati, il nostro prodotto interno lordo tornerà a crescere più intensamente, come documentano gli studi dei sepolcri imbiancati, cresceranno i nostri bisogni di materie prime e di energia. Aumenterà pertanto la nostra necessità di tenere sotto controllo politico e militare le zone del mondo in cui si trovano. Aumenteranno i consumi di fonti fossili, le emissioni di anidride carbonica e l’effetto serra. Aumenterà la quantità di rifiuti che produciamo e la nostra esigenza di trovare qualche posto nel mondo in cui scaricarli. Si aggraveranno tutti i fattori della crisi ambientale. Diminuiranno le risorse disponibili per i popoli impoveriti dall’avidità dei popoli che hanno più del necessario e aumenterà la loro propensione a emigrare. Secondo uno studio redatto da 13 agenzie federali statunitensi che si occupano di cambiamento climatico per il National Climate Assessment (la valutazione sul clima richiesta dal Congresso ogni 4 anni), pubblicato l’8 agosto 2017, i cambiamenti climatici faranno sentire i loro effetti soprattutto nei Paesi di provenienza dei migranti e accentueranno i loro flussi. L’innalzamento del livello degli oceani conseguente allo scioglimento dei ghiacci polari provocato dall’effetto serra sommergerà il Bangladesh, costringendo i suoi 165 milioni di abitanti a emigrare in cerca di altri posti in cui vivere. E non saranno i soli a doversene andare dalla loro terra.

L’accoglienza generosa e disinteressata è indispensabile per alleviare le sofferenze causate dalle migrazioni, ma se non si inserisce in un progetto di rimozione delle cause che le generano, può contribuire a rafforzarle. La scelta fondamentale per ridurre le sofferenze delle migrazioni non è fluidificarne i flussi senza impegnarsi a limitarne le cause – come fanno, per ragioni diverse, la pseudosinistra dei sepolcri imbiancati, la sinistra non modificata geneticamente, i movimenti d’ispirazione religiosa – ma proporsi di ridurli – non bloccandoli militarmente, come propongono le destre xenofobe e sovraniste – ma riducendo le cause che li provocano. Ovvero riducendo le iniquità tra i popoli.

 

Per ridurre le sofferenze delle migrazioni occorre perseguire una maggiore equità tra i popoli.

 

     C’è chi crede che una maggiore equità tra i popoli si possa realizzare diminuendo i consumi dei Paesi sviluppati per consentire di far crescere i consumi dei Paesi sottosviluppati. Se così fosse, il consumo globale di risorse da parte dell’umanità non diminuirebbe. Poiché ha già superato i limiti della compatibilità ambientale, l’umanità continuerebbe ad andare verso il collasso, ma in maniera più equa. Non è una prospettiva consolante, soprattutto per le ultime e per le prossime generazioni. E poi, come si fa a pensare che possano accettare una riduzione dei consumi le popolazioni di Paesi in cui l’economia continua ad essere finalizzata alla crescita; la ricchezza e la povertà sono misurate col potere d’acquisto; i processi formativi sono improntati sull’identificazione della realizzazione umana col lavoro che si svolge, il reddito che se ne ricava, la quantità e il valore monetario delle merci che consente di comprare? Non si può perseguire una maggiore equità tra i popoli estendendo ai Paesi sottosviluppati il modello economico dei Paesi sviluppati, nemmeno se ci si propone di ridurre i consumi di risorse dei Paesi sviluppati per consentire ai Paesi sottosviluppati di averne a disposizione di più. Una maggiore equità tra i popoli si può ottenere soltanto se si abbandona la convinzione che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci.

Creando un notevole sconcerto tra i paladini del pensiero unico, nell’Enciclica Laudato si’, papa Francesco ha scritto: «… è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». (193) Evidentemente le parti del mondo in cui «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita» sono i Paesi sviluppati, che però non sono molto propensi ad accettarla, perché la concepiscono istintivamente come una diminuzione dei consumi di beni materiali – che pure, nonostante l’opinione comune, sarebbe necessaria per migliorare il benessere. In realtà risultati molto più significativi si possono ottenere focalizzando l’impegno sulla riduzione dei consumi di risorse, che si può ottenere sviluppando innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si utilizzano e riducendo gli sprechi. Nel solo settore energetico, un grande slancio progettuale e innovativo, paragonabile a quello che ha avviato la rivoluzione industriale, può ridurre di almeno i due terzi i consumi di energia alla fonte a parità di servizi finali. In questo modo non solo può aumentare la quantità di risorse disponibili per i popoli che ne hanno meno di quanto è necessario per soddisfare i bisogni fondamentali degli esseri umani, ma si può offrire ad essi la possibilità di «crescere in modo sano», perché le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre i consumi di risorse dei Paesi sviluppati più dei loro consumi finali, consentono anche di aumentare i consumi finali dei Paesi sottosviluppati più dei consumi di risorse necessari a sostenerli. In ogni caso, il risultato dei due processi deve comportare una riduzione complessiva dei consumi di risorse della terra, delle emissioni metabolizzabili e delle emissioni non metabolizzabili dalla biosfera, ma ciò può avvenire solo se l’immaginario collettivo dei Paesi sviluppati saprà liberarsi dal grande inganno dell’identificazione del benessere col consumismo e del valore dell’innovazione in quanto tale. Solo se si crede che il senso della vita s’identifichi col possesso di cose e che il nuovo sia sempre migliore del vecchio, ogni volta che viene immesso un prodotto nuovo sul mercato si può sentire il bisogno di comprarlo. Ma la soddisfazione che se ne ricava viene continuamente frustrata dall’immissione sul mercato di prodotti più nuovi che fanno diventare vecchi i prodotti nuovi appena comprati. La propensione al consumo rimane intatta proprio in conseguenza della frustrazione a cui è inevitabilmente soggetta. Solo persone incapaci di dare un senso alla propria vita come successione di scoperte, conoscenze, incantamenti, possono rimanere vittime di questo inganno. Ma è questo inganno a consentire che si possa continuare a produrre sempre di più, a consumare quantità sempre maggiori di risorse, a immettere quantità sempre maggiori di sostanze di scarto in qualche matrice della biosfera.

Il cambiamento dei fini della tecnologia, dall’incremento della produttività alla riduzione dell’impatto ambientale, insieme a un cambiamento dei valori e dei modelli di comportamento che rivaluti l’importanza della dimensione spirituale e smonti l’identificazione del concetto di nuovo col concetto di migliore, sono l’unico modo per riuscire a coniugare la compatibilità ambientale con l’equità. Un’equità non limitata alle generazioni viventi della specie umana, ma estesa alle generazioni future, né limitata alla specie umana, ma estesa a tutte le specie viventi, perché solo questa equità estesa può consentire di raggiungere la compatibilità ambientale e solo la compatibilità ambientale può consentire di realizzare questo tipo di equità, l’unica in grado di garantire una maggiore equità tra i popoli. Qualsiasi persona che conosca la storia umana, le sofferenze e le violenze di cui è intessuta, non può non pensare che questa sia un’utopia irrealizzabile, ma non ci sono alternative se si vuole evitare che i flussi migratori aumentino e continuino a causare sofferenze tra i più poveri della terra, ad arricchire i mercanti di esseri umani e coloro che, approfittando della loro debolezza, li riducono in stato di schiavitù sul lavoro, a creare nei Paesi d’arrivo tensioni sociali che accrescono il consenso politico ai partiti xenofobi. E se si vuole fermare il tragitto verso l’autodistruzione della specie umana, che procede di pari passo, tragedia dopo tragedia, coi tragitti dei migranti dall’Africa e dal Medio Oriente verso i Paesi dell’Europa occidentale.

In relazione a un contesto diverso Ivan Illich ha scritto parole che si possono applicare anche a questo: «Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi lo si troverà ben presto di un realismo estremo».[4]

 

 

 

[1]             Secondo il report Modern Slavery Index 2017, a cura del centro studi britannico Verisk Maplecroft, in conseguenza dell’elevato numero di sbarchi di migranti sulle coste italiane nel 2016, è aumentato il numero delle persone vulnerabili, che hanno alimentato il lavoro nero e lo sfruttamento. Attualmente in Italia sarebbero 100 mila le persone in condizione di schiavitù e para schiavitù in agricoltura. L’80 per cento sono stranieri, il restante 20 per cento italiani. Le violazioni delle leggi contro lo sfruttamento di esseri umani mostrano un aumento in 20 Paesi membri dell’Unione Europea su 28. In Italia il problema dello sfruttamento e riduzione in schiavitù non si limita solo al settore agricolo, ma si manifesta anche nelle costruzioni e nei servizi. E poi c’è lo sfruttamento della prostituzione, dove a dominare il mercato sono le mafie dell’est e quelle nigeriane. Un mercato che, secondo l’Istat, vale 90 milioni di euro al mese, 1,1 miliardi all’anno, alimentato da circa 9 milioni di clienti che hanno a disposizione tra le 75 mila e le 120 mila ragazze sparse per il Paese. (Gianni Rosini, il Fatto Quotidiano on line, 14 agosto 2017)

[2]             In Cina la costruzione della Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro, terminata nel 2009, a pieno regime allagherà una estensione territoriale in cui vivono 5 milioni di persone. In India dal 1980 è in corso di realizzazione un progetto che prevede la costruzione di 3165 dighe sul fiume Narmada. Migliaia di ettari di terreno fertile sono già stati allagati e altre migliaia lo saranno, sconvolgendo completamente la valle del Gujarat, dove vivono 25 milioni di contadini.

[3]             Il 23 agosto 2009 Berlusconi si è recato in Tunisia negli studi di Nessma TV, un canale commerciale diffuso nei Paesi del Maghreb mediterraneo, di cui Mediaset ha il 25 per cento, per partecipare alla trasmissione Ness Nessma. Ecco la trascrizione di una parte dell’intervista, di cui si può vedere il filmato originale in sul sito dell’emittente www.nessma.tv Conduttore: «Dall’attrattiva che esercita l’Italia sui maghrebini, si può passare all’immigrazione, soprattutto a quella clandestina che purtroppo fa migliaia di morti».
Berlusconi: «La cosa più terribile sono le organizzazioni criminali, che sono moltissime. Ben Ali oggi mi ha detto di 300 organizzazioni scoperte dalla polizia del vostro Paese. Sono persone che approfittano della speranza degli altri, delle persone che sono nella miseria e che vogliono donare a se stessi e ai propri cari un futuro migliore. E allora si affidano a persone che con imbarcazioni non sicure si mettono in mare e questo porta a tragedie ad ogni istante. Occorre combattere tutto ciò. È necessario incrementare le possibilità per la gente che vuole tentare nuove opportunità di vita e di lavoro, occorre aumentare le possibilità di entrare legalmente in Italia e negli altri Paesi europei. Questo è ciò che voglio sia fatto, non solo in Italia, ma in tutta Europa. E poi bisogna dire che gli italiani sono stati un popolo che ha lasciato l’Italia e che è emigrato in altri Paesi, soprattutto in quelli americani. E allora questo ci impone il dovere di guardare a quanti vogliono venire in Italia con una apertura totale di cuore. E di donare a coloro che vengono in Italia la possibilità di un lavoro, di una casa, di una scuola per i figli, e la possibilità di un benessere che significa anche la salute e l’apertura di tutti i nostri ospedali alle loro necessità e questa è la politica del mio governo».
Conduttrice: «Siete incredibile presidente, non posso trattenermi dall’applaudire».

[4]               Ivan Illich, La convivialità, Boroli, Milano 2005, pag. 130, ed. orig. 1973

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Liberare l’economia dall’abbraccio mortale con lo sviluppo

    Il concetto di sviluppo indica la liberazione da uno sviluppo che impedisce l’esplicazione di una potenzialità. In biologia descrive la successione delle fasi in cui ogni essere vivente, a partire dal concepimento, matura progressivamente nel periodo della crescita le capacità insite nel patrimonio genetico della propria specie d’appartenenza.

Nella fotografia analogica descrive il procedimento che rende visibile un’immagine latente in un supporto fotosensibile. In geometria la distensione su una superficie piana di una figura geometrica solida. Tutti i processi di sviluppo sono caratterizzati dall’uniformità. Se non si completano rigorosamente tutte le loro fasi nelle successioni e nei tempi previsti, lo sviluppo non arriva a buon fine: gli esseri viventi subiscono delle limitazioni, la fotografia non rispecchia la realtà che il fotografo si proponeva di rappresentare, il disegno non riporta fedelmente le misure e le proporzioni del solido geometrico a cui si riferisce.

In economia il concetto di sviluppo è stato utilizzato per la prima volta dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 1949. In quel discorso lo sviluppo economico veniva presentato come un processo di liberazione delle potenzialità della tecnologia dal viluppo delle limitazioni che le pone la finalizzazione dell’economia alla sussistenza. Nei Paesi in cui questo processo era avvenuto, i progressi della tecnologia avevano consentito di accrescere il potere degli esseri umani sulla natura, la produzione di merci e il benessere delle popolazioni. Per questo motivo il neo-Presidente degli Stati Uniti li definiva sviluppati, mentre definiva sottosviluppati i Paesi ancora prevalentemente caratterizzati da un’economia di sussistenza e da un modesto sviluppo tecnologico. La differenza dei livelli di benessere tra gli uni e gli altri era oggettivamente misurabile in termini di divario del reddito pro-capite (il valore monetario del prodotto interno lordo diviso per il numero degli abitanti). In realtà il reddito fornisce la misura del potere d’acquisto, cioè della possibilità di comprare sotto forma di merci la maggior parte dei beni di cui si ha bisogno o si desiderano. Non può prendere in considerazione i beni che si autoproducono, o vengono scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari, perché non si ottengono comprandoli e, quindi, non hanno un prezzo. Nelle società in cui il saper fare è un elemento significativo del patrimonio culturale condiviso, le persone sono in grado di autoprodurre una parte dei beni di cui hanno bisogno, gli orti familiari sono diffusi e i rapporti di solidarietà non sono stati totalmente sostituiti da rapporti commerciali, il reddito pro-capite è inferiore a quello delle società in cui le persone non sanno fare nulla e devono comprare tutto, la maggior parte della popolazione vive in aree urbane e non può coltivare nulla, i rapporti di solidarietà sono stati sostituiti da rapporti commerciali e dalla competizione, o dall’indifferenza nei confronti degli altri, il lavoro è stato appiattito sull’occupazione, cioè sullo svolgimento di attività che non hanno alcuna attinenza con la soddisfazione dei bisogni esistenziali di chi le compie, ma offrono in cambio un reddito monetario con cui si può comprare tutto ciò che serve per vivere. Utilizzando il criterio di valutazione introdotto dal neo-presidente americano Truman e ormai generalizzato, le società del primo tipo sono sottosviluppate, ma non per questo se ne può dedurre che il loro livello di benessere sia inferiore a quello del secondo tipo di società che, invece, sono sviluppate. Nonostante costituisca da allora un caposaldo dell’immaginario collettivo, sia dei sostenitori del pensiero dominante, sia dei suoi avversari, non è detto che il benessere sia direttamente proporzionale all’entità del reddito pro-capite e cresca in proporzione con la sua crescita. Ciò non vuol dire che non ci sia nessuna attinenza tra il benessere e il reddito, né che il benessere diminuisca, o quanto meno non cresca, col crescere del reddito. Il contrario di una proposizione non vera non è necessariamente vero.

La produzione di merci è indispensabile per migliorare il benessere, perché nessun individuo e nessuna comunità in cui il legame sociale sia costituito dalla solidarietà, o dall’economia del dono, come è stata definita da Marcel Mauss, sono in grado di produrre autonomamente e di scambiare senza l’intermediazione del denaro tutto ciò che è necessario per vivere, o rende piacevole la vita. Le economie di sussistenza non hanno mai fatto a meno della produzione di merci e del mercato. Il benessere sociale cresce al crescere della quantità e della varietà delle merci che si possono acquistare, a integrazione dei beni che si autoproducono o si scambiano sotto forma di dono reciproco del tempo. La compravendita delle eccedenze della produzione agricola per autoconsumo, dei beni prodotti dagli artigiani e dei servizi forniti da personale specializzato (dai medici ai professionisti, agli insegnanti) danno un contributo insostituibile al miglioramento della qualità della vita. La produzione di merci e il mercato sono elementi costitutivi delle attività economiche, tanto quanto l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Se però lo sviluppo, cioè l’aumento del reddito monetario pro-capite, diventa il criterio di valutazione  del benessere di una società, tutte le attività produttive vengono progressivamente indirizzate alla crescita della produzione di merci. L’economia diventa economia di mercato non quando ci sia un mercato in cui si scambiano merci con denaro, ma quando si produce tutto per il mercato. Di conseguenza tutte le forme di autoproduzione e di scambi non mercantili basati sulla solidarietà diventano freni allo sviluppo della mercificazione, per cui vengono ostacolati e repressi in vari modi: con apposite misure legislative, con la loro svalutazione nel sistema dei valori condivisi, con la cancellazione delle conoscenze necessarie al saper fare dall’ambito della cultura, con l’esaltazione della concorrenza come fattore di progresso, con l’identificazione del benessere col tantoavere. Le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate all’aumento della produttività e i danni ambientali che spesso vengono causati per accrescerla, non vengono nemmeno presi in considerazione. Le risorse ambientali vengono considerate infinite o infinitamente riproducibili. I beni comuni vengono privatizzati. L’unica forma di lavoro socialmente riconosciuta è l’occupazione. Chi lavora per produrre beni per autoconsumo e non per produrre merci in cambio di un reddito che consenta di comprarle, viene inserito nella categoria delle non forze di lavoro. La povertà e la ricchezza vengono misurate con il livello del reddito monetario.

L’introduzione del concetto di sviluppo in economia è avvenuta nella fase storica in cui gli Stati Uniti avevano completato la trasformazione della loro economia in economia di mercato, riducendo al minimo l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Affinché la loro economia e il loro reddito pro-capite potessero continuare a crescere, avevano bisogno di estendere la possibilità di vendere le loro merci al di fuori dei loro confini e di acquisire al di fuori dei loro confini le materie prime necessarie a sostenere la loro crescita economica. Dovevano fare in modo che i Paesi sottosviluppati si inserissero nel circuito economico e produttivo dei Paesi sviluppati. Pertanto, era necessario che, nei Paesi in cui gran parte delle attività produttive erano ancora finalizzate alla sussistenza, aumentasse il numero dei consumatori di merci e di conseguenza il numero dei produttori di merci, perché soltanto chi lavora in cambio di un reddito monetario, e non per produrre ciò che gli serve per vivere, è in grado di, e non può far altro che, acquistare sotto forma di merci tutto ciò di cui ha bisogno. Per questo motivo il neo-presidente Truman proponeva agli Stati Uniti di fornire ai popoli che definiva sottosviluppati, perché non erano stati capaci di sviluppare le potenzialità che nella sua visione del mondo caratterizzano il patrimonio genetico di tutte le società, l’assistenza tecnologica necessaria a diventare Paesi in via di sviluppo. In questo modo, non solo estendeva l’egemonia culturale del modello americano sui popoli del terzo mondo, presentandosi come il ricco filantropo che aiuta il povero a superare le sue difficoltà, ma si accattivava il consenso delle grandi compagnie industriali americane, aprendo ad esse grandi spazi di mercato in cui vendere le loro tecnologie, o in cui utilizzarle per estrarre le materie prime, in particolare le energie fossili, di cui i Paesi industrializzati avevano bisogno per continuare a crescere. Inoltre contava di contrastare efficacemente la politica internazionale dell’Unione Sovietica, che si proponeva di guidare verso la costituzione di Stati socialisti le lotte di liberazione di quei popoli dal colonialismo.

Bastarono venti anni per rendersi conto che la finalizzazione dell’economia allo sviluppo stava creando problemi sempre più gravi a livello ambientale, sia perché i consumi delle risorse non rinnovabili, in particolare delle fonti fossili, ne rendevano sempre più costoso tecnicamente e più problematico politicamente l’approvvigionamento, sia perché la finalizzazione delle innovazioni tecnologiche all’aumento della produttività causava forme di inquinamento sempre più gravi. Inoltre, gli aiuti allo sviluppo dei popoli sottosviluppati anziché accrescere il loro benessere, accrescevano la ricchezza degli strati sociali più ricchi e la povertà degli strati sociali più poveri. Nei Paesi in via di sviluppo lo spostamento dall’economia di sussistenza all’economia di mercato fu attuato a partire dall’agricoltura, con la cosiddetta rivoluzione verde (così chiamata anche in contrapposizione con la rivoluzione rossa a cui l’Unione Sovietica tentava di indirizzare i movimenti di liberazione di quei popoli). Per accrescere i rendimenti agricoli furono selezionate geneticamente varietà vegetali più produttive, che però richiedevano maggiori quantità d’acqua, l’uso di fertilizzanti chimici, fitofarmaci, macchinari agricoli e carburante. I loro semi erano sterili e dovevano essere acquistati ogni anno dai produttori. L’adozione di queste innovazioni richiedeva investimenti che non potevano essere effettuati dai contadini poveri. Inoltre, i fertilizzanti di sintesi e la monocoltura delle essenze più produttive impoverivano progressivamente il contenuto humico dei suoli e accrescevano la dipendenza dell’agricoltura dalle industrie chimiche dei Paesi nord-occidentali. La rivoluzione verde accentuò la dipendenza dei Paesi sottosviluppati dai Paesi sviluppati, gli aiuti allo sviluppo accrebbero i loro debiti, i contadini poveri persero la possibilità di soddisfare le loro esigenze vitali con l’agricoltura di sussistenza e furono costretti a emigrare nelle baraccopoli che si espandevano ai margini delle città.

Nei primi anni settanta del secolo scorso i problemi ambientali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo non potevano più essere ignorati. Nel 1970 il Club di Roma, un’associazione internazionale promossa da dirigenti industriali, imprenditori e docenti universitari, commissionò a un gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology uno studio previsionale sul futuro dell’umanità se cinque fattori critici avessero continuato a crescere con gli stessi incrementi che avevano avuto dalla fine della seconda guerra mondiale: l’aumento della popolazione, la produzione di alimenti, la produzione industriale, l’esaurimento delle risorse non rinnovabili e l’inquinamento. Dallo studio, pubblicato nel 1972 in italiano col titolo I limiti dello sviluppo (in inglese era Limits to growth) risultò che entro il XXI secolo sarebbero stati superati i limiti della compatibilità ambientale e si sarebbe arrivati al collasso. Nello stesso anno fu convocata a Stoccolma la prima conferenza mondiale sull’Ambiente umano, in cui si cominciò a prendere in considerazione il fatto che la tutela ambientale non era meno importante dello sviluppo economico per la qualità della vita. Nell’autunno del 1973 scoppiò la prima crisi petrolifera e tutti i Paesi sviluppati furono costretti a varare drastiche misure di riduzione dei consumi energetici. Sempre in quegli anni cominciarono a manifestarsi tre forme d’inquinamento globali: le piogge acide, il buco nell’ozono e l’effetto serra, da cui si evinceva che l’apparato tecno-industriale aveva raggiunto una potenza tale da modificare gli equilibri della biosfera in un senso sfavorevole per l’umanità. L’idea che lo sviluppo fosse la realizzazione delle potenzialità insite nel patrimonio genetico delle società umane cominciò a vacillare e nelle conferenze mondiali, convocate per cercare di attenuare i problemi che creava, si cominciò a sostenere che occorreva definirne meglio le connotazioni, perché non ogni tipo di sviluppo può essere considerato positivo. Si cominciò a dire che occorreva un nuovo modello di sviluppo, senza peraltro andare molto oltre la definizione; che lo sviluppo per essere buono doveva essere sostenibile e/o durevole e via aggettivando; che non bisognava confondere lo sviluppo, che ha una valenza qualitativa, con la crescita economica, che ha una connotazione esclusivamente quantitativa. Da questa distinzione sarebbe stato logico far derivare un disaccoppiamento tra i due concetti e, quindi, la possibilità di perseguire uno sviluppo senza crescita, o anche associato a una decrescita. Cosa impossibile da concepire in un sistema economico che continuava e continua a identificare la quantità con la qualità, come è stato ribadito anche da papa Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate (2009), dove, al punto 14, si legge che è «un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere di più». Non è necessario essere teologi per sapere che nella concezione cristiana l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere meglio e basta l’esperienza quotidiana della vita per verificare che non sempre il più coincide col meglio, mentre spesso capita d’imbattersi in situazioni in cui è il meno a costituire un miglioramento. La stessa identificazione tra quantità e qualità è stata implicitamente sostenuta da chi ha affermato che il fine delle attività produttive sia perseguire una crescita qualitativa, senza specificare le ragioni per cui escludeva che anche la decrescita potesse avere connotazioni di qualità. Da questi tentativi di assegnare a un concetto connotazioni incompatibili con il suo significato, la logica è uscita malconcia, ma, quel che è peggio, i problemi causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo sostenibile o alla crescita qualitativa, che dir si voglia, sono rimasti irrisolti e si sono aggravati.

Il tentativo più efficace di ridare al concetto di sviluppo la credibilità che aveva perso quando si cominciò a capire che era la causa determinante della crisi ecologica, fu effettuato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo istituita dall’Onu e presieduta dall’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, che lo sganciò, ma solo concettualmente, dal suo legame simbiotico con la crescita della produzione di merci per agganciarlo alla sostenibilità. Nel rapporto finale della commissione, intitolato Our Common Future, veniva formulato per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, che veniva così definito: «uno sviluppo che soddisfi i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». In questa definizione la sostenibilità non è l’obbiettivo da raggiungere per ridurre l’impatto dello sviluppo sull’ecosistema terrestre, ma una connotazione che le generazioni attuali devono conferire allo sviluppo per consentire che le generazioni future possano continuare a fare altrettanto. Più che di sviluppo sostenibile si sarebbe dovuto parlare di sviluppo durevole, come alcuni hanno fatto. Lo sviluppo non veniva ridefinito in funzione della sua sostenibilità, ma la sostenibilità veniva valorizzata come connotazione indispensabile per dare continuità allo sviluppo. Le applicazioni pratiche di questa impostazione furono i progressi delle tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse non rinnovabili, in modo di consumarne di meno per ogni unità di prodotto, e delle tecnologie meno impattanti sugli ambienti, soprattutto per ridurre l’incidenza dei disastri ambientali che avevano cominciato a instillare nell’opinione pubblica forti dubbi sulla bontà dello sviluppo. Del resto, per quale motivo si sente la necessità di parlare di sviluppo sostenibile se non per prendere le distanze da uno sviluppo che non lo è? Se non per ridare credibilità a un’idea che l’ha persa? L’impegno maggiore venne riservato allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e, in subordine, dell’efficienza energetica. Con una resipiscenza tardiva, dopo aver interrato o bruciato dagli anni cinquanta del secolo scorso quantità crescenti di rifiuti, l’attenzione è stata recentemente rivolta al recupero dei materiali che contengono, facendo diventare di gran moda lo slogan dell’economia circolare e inducendo gli spiriti semplici a credere che si possa attivare una sorta di moto produttivo perpetuo a ridotto impatto ambientale utilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per produrre nuovi oggetti. Le tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse e riducono l’inquinamento dei processi produttivi sono una cosa buona, ma i vantaggi che offrono vengono annullati, come in una gigantesca fatica di Sisifo, se contestualmente continua ad aumentare la quantità della produzione. Se il fine dell’economia resta lo sviluppo, la sostenibilità del sistema economico e produttivo non aumenta anche se aumenta la sostenibilità di alcuni processi produttivi. L’economia finalizzata allo sviluppo non può essere sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro.

Ma cos’è la sostenibilità? Per definire con precisione il concetto di sostenibilità, uscendo dalla genericità con cui viene usato, occorre metterlo in relazione con la fotosintesi clorofilliana, l’unico processo biochimico che produce l’energia di cui hanno bisogno tutte le specie viventi. Ogni giorno il sole invia sulla terra una quantità di energia luminosa, che viene utilizzata dalla vegetazione per sintetizzare molecole di anidride carbonica con molecole d’acqua e ricavarne molecole di uno zucchero semplice, il glucosio, che successivamente concorrono a formare le molecole complesse che costituiscono la struttura dei vegetali (cellulosa e lignina), e quelle che li nutrono e nutrono attraverso le catene alimentari tutte le specie viventi (lipidi, proteine, vitamine, carboidrati). La fotosintesi clorofilliana assorbe l’anidride carbonica emessa dall’espirazione di tutti i viventi, compresi i vegetali, e genera l’ossigeno necessario alla loro respirazione. Per 8.000 secoli questo scambio è rimasto in equilibrio: tanta anidride carbonica emessa dall’espirazione dei viventi veniva metabolizzata dalla vegetazione quanto ossigeno veniva emesso dalle piante e inspirato da tutti i viventi. Dalla seconda metà del XIX secolo e, con intensità crescente nel XX, questo equilibrio si è rotto perché gli esseri umani da una parte hanno accresciuto le emissioni di anidride carbonica bruciando quantità crescenti di fonti fossili per ricavare l’energia necessaria allo svolgimento dei processi produttivi e al sistema dei trasporti, d’altra hanno ridotto la fotosintesi clorofilliana disboscando per fare posto all’agricoltura e alle aree urbane. L’anidride carbonica eccedente le capacità di sintesi della vegetazione si è progressivamente accumulata nell’atmosfera, aumentando la sua concentrazione nel miscuglio di gas che compongono l’aria, dalle 270 parti per milione in cui si era stabilizzata da 8.000 secoli a 380 nel secolo scorso e a 410 nei primi 15 anni di questo secolo. Poiché l’anidride carbonica trattiene all’interno dell’atmosfera una parte della radiazione infrarossa che il sole invia sulla terra e la terra rimbalza verso lo spazio, nel XX secolo la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,8 °C e si è innescato un cambiamento climatico di cui l’umanità ha appena iniziato a subire le conseguenze. In questo contesto la finalizzazione delle attività economiche e produttive alla sostenibilità richiede l’adozione di tecnologie, di misure di politica economica e di stili di vita che consentano di ricondurre le emissioni di anidride carbonica a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana. Questo obbiettivo può essere perseguito agendo in due direzioni: diminuendo i consumi di fonti fossili e aumentando la superficie terrestre ricoperta da boschi e foreste. Entrambe in una prima fase richiedono investimenti che comportano un aumento della produzione e del consumo di merci, ma in prospettiva ne determinano una diminuzione stabile. La scelta più efficace per ridurre i consumi di fonti fossili non è, come si è voluto far credere nell’ottica dello sviluppo sostenibile, lo sviluppo delle fonti rinnovabili, ma una strategia incentrata in primo luogo sulla riduzione di sprechi e inefficienze (circa il 70 per cento dei consumi energetici in Italia), in modo da ridurre al minimo il fabbisogno da soddisfare con le fonti rinnovabili. Poiché il patrimonio edilizio assorbe circa la metà dei consumi energetici totali, occorre limitare drasticamente la costruzione di nuovi edifici e indirizzare l’edilizia alla ristrutturazione energetica di quelli esistenti. Per aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste occorre ripiantumare quelle disboscate per ricavarne terreni agricoli non dedicati all’alimentazione umana, ma all’alimentazione degli animali d’allevamento e alla produzione di biocarburanti. Invece di prendere in considerazione una strategia di questo genere, finalizzata a ridurre le emissioni di anidride carbonica, i governanti di tutto il mondo, nel corso della Cop 21 che si è svolta a Parigi nel dicembre 2015, si sono accordati di contenere l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo tra 1,5 e 2 °C, ovvero da un valore minimo che è il doppio rispetto all’incremento del secolo scorso, a un valore massimo superiore di 2,5 volte. Di sviluppo sostenibile si muore. Più lentamente che di sviluppo, ma si muore.

Nel 2017, secondo il Footprint Institute, il giorno in cui l’umanità è arrivata a consumare tutte le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso di un anno, è stato il 2 agosto. L’anno precedente era stato il 14 agosto. Dieci anni prima intorno alla metà di settembre. Venti anni prima intorno alla metà di ottobre. Quale nuovo modello di sviluppo consente d’invertire questa tendenza? Come si potrebbe riportare gradualmente quel giorno verso il 31 dicembre se non diminuendo il consumo di risorse rinnovabili, che si può raggiungere riducendo innanzitutto gli allevamenti di animali e l’alimentazione carnea? Una diminuzione dei consumi si può definire sviluppo sostenibile? In tutti gli oceani galleggiano ammassi di poltiglie di plastica grandi come continenti e il numero dei pesci è stato dimezzato dalla pesca d’altura. Come si può fare in modo che che i rifiuti non biodegradabili ammassati in mare e sulla superficie terrestre diminuiscano se non se ne riduce drasticamente la produzione? Come si può fare in modo che il numero dei pesci torni ad aumentare se non limitando la pesca? Come si possono ridurre le più gravi forme d’inquinamento se non abolendo la produzione dei veleni di sintesi chimica usati in agricoltura per accrescere i rendimenti e in alcuni cicli industriali che hanno devastato i territori in cui sono stati insediati? Come si può arrestare la perdita della biodiversità, come si può ricostituire la fertilità dei suoli, se non riducendo lo sfruttamento dei terreni agricoli? Come si può garantire la disponibilità di acqua necessaria a tutti gli esseri umani e a tutte le forme di vita, se non riducendo gli sprechi?

Per consentire all’umanità di avere un futuro, la sostenibilità deve sostituire lo sviluppo come riferimento di tutte le scelte produttive. La sostenibilità non può essere considerata un’opzione al servizio dello sviluppo, allo scopo di attenuare le conseguenze negative che genera. Né si può ridurre il suo significato a una generica attenzione nei confronti dei problemi ambientali. La sostenibilità esprime un concetto tanto preciso quanto ignorato: la necessità di evitare che la produzione e il consumo di merci oltrepassino i limiti della compatibilità ambientale. Poiché questi limiti sono già stati ampiamente superati, la sua declinazione attuale impone che le attività economiche e produttive siano indirizzate a:

– diminuire le emissioni di sostanze di scarto biodegradabili (anidride carbonica) alle quantità che possono essere metabolizzate dalla biosfera;

– diminuire i consumi di risorse rinnovabili alle quantità che possono essere rigenerate annualmente dalla fotosintesi clorofilliana;

– ridurre i consumi delle risorse non rinnovabili, utilizzandole con la massima efficienza, riutilizzando quelle che è possibile riciclare, producendo beni durevoli riparabili e aumentando la loro durata di vita;

– abolire la produzione delle sostanze di sintesi che non possono essere metabolizzate dai cicli biochimici.

Per continuare a utilizzare in economia la parola sviluppo come sinonimo di miglioramento, o se ne capovolge il significato che si è consolidato dal 1949 a oggi, svincolandolo dal legame simbiotico con la crescita e apparentandolo alle parole diminuzione, riduzione, decrescita, o si elimina dall’economia. La prima ipotesi presuppone una deroga alla logica, o quanto meno al senso comune. La seconda è più drastica, ma meno ambigua. In fin dei conti si usa soltanto da 70 anni. Comunque, per superare la crisi economica e invertire la tendenza al peggioramento della crisi ecologica non serve un nuovo modello di sviluppo, ma un nuovo modello di economia senza sviluppo.

Maurizio Pallante

 

 

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Lo stato dell’ambiente in Italia

E’ passata quasi sotto silenzio ma il 6 luglio scorso, al parlamento itaiano è stato presentato l’ultimo rapporto ISPRA sulla situazione ambientale del nostro Paese.

Ovviamente i dati sono riferiti allo scorso anno, 2016.

Il quadro che ne esce non è certamente tra i più incoraggianti. Abbiamo la conferma dell’aumento delle temperature e anche non di poco, sull’intero anno.

“Temperature medie annuali sempre sopra la media, particolarmente alte nel mese di
dicembre 2016, scarse precipitazioni, eventi estremi a novembre in Liguria e Piemonte con
piogge record pari a 583 mm in un solo giorno e 100 mm in un’ora. ”

Sono quindi confermati gli aumenti di temperature e gli aumenti dei periodi di siccità; cosa che pare confermata anche da questi primi 8 mesi dell’anno in corso; ma attendiamo i dati ufficiali del 2017.

“Dopo il record di temperature toccato nel 2015, il 2016 è stato un anno meno bollente, ma
comunque risulta il sesto più caldo per l’Italia almeno dal 1961. La temperatura media annuale
rimane più alta di +1.35°C rispetto al trentennio di riferimento 1961-1990. L’aumento registrato in
Italia è di poco superiore ai valori climatici globali del pianeta. La media annuale mondiale si
attesta sui +1.31 °C, segnando un nuovo record nel 2016 per il terzo anno consecutivo.
In Italia la stagione invernale 2016 è stata quella con anomalia termica più marcata, con un
valore annuo medio di +2.15°C. Tutti i mesi del 2016 sono stati più caldi della norma: in
particolare dicembre al Nord (+2.76°C), febbraio al Centro (+3.02°C) e aprile al Sud e sulle
Isole (+2.99°C). Come per gli anni precedenti, anche per il 2016 l’anomalia della temperatura
media annuale è dovuta leggermente di più alle temperature massime che alle temperature minime.
Per quanto riguarda i mesi invernali le temperature sono state piuttosto miti e sia all’inizio che alla
fine dell’anno, come negli anni precedenti, la quota neve è stata generalmente più alta rispetto alla
media di lungo periodo. ”

Al termine di questo articolo vi lascio i link dove potete accedere al rapporto e alla sintesi del rapporto, per farvi un’idea di dove stiamo andando.

Riflessioni sui cambiamenti climatici devono essere all’ordine del giorno di ogni governo e di ogni amministrazione. E’ ovvio che problemi di così vasta portata non possono essere risolti da un singolo Stato; tuttavia ogni singola persona è chiamata a fare il proprio dovere, ogni giorno.

Abbiamo le ricette per poter gestire questo cambiamento epocale. Quello che ci manca è la volontà politica e personale nel metterli in pratica. Conoscere la reale situazione è un buona base di partenza. Diffondere tali notizie ci può rendere più consapevoli e quindi pronti all’azione.

Ma non ci stancheremo mai di battere su questo punto.

Relazione sullo stato dell’ambiente in Italia

Sintesi relazione sullo stato dell’ambiente in Italia

 

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MANIFESTO PER UN PROGETTO POLITICO-CULTURALE FINALIZZATO A CONIUGARE LA COMPATIBILITÀ AMBIENTALE CON UN’EQUITÀ ESTESA ALLE GENERAZIONI FUTURE E A TUTTE LE SPECIE VIVENTI

Molti indizi sempre più preoccupanti inducono a ritenere che si stia avviando drammaticamente alla fine l’epoca storica iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale.

La crisi economica perdura ormai da quasi un decennio senza che si intraveda una via d’uscita. Nei Paesi industrializzati i livelli della disoccupazione continuano ad essere molto alti, soprattutto tra i giovani. La corruzione politica invade tutti i gangli del potere in forme sempre più spregiudicate e sempre più spesso impunite. Tutti i fattori della crisi ambientale continuano ad aggravarsi. In particolare l’aumento della temperatura media della terra, innescato dagli incrementi delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, ha già raggiunto 1,2 °C, avvicinandosi al valore di 1,5 °C, indicato dall’accordo internazionale raggiunto a Parigi nel dicembre 2015 al termine della Cop 21, come limite massimo da non superare entro la fine del secolo. Le tensioni internazionali hanno provocato uno stato di guerra permanente in varie regioni del mondo e hanno avvicinato pericolosamente la possibilità di un conflitto nucleare. Gli attentati terroristici si moltiplicano e sfuggono a ogni possibilità di prevenzione. Le migrazioni dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi stanno assumendo le dimensioni di un esodo biblico e sono costantemente contrassegnate da violenze e tragedie.

 

Tutti questi problemi sono causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, sono aggravati dalla sua estensione ad aree sempre più vaste del pianeta attraverso la globalizzazione, non possono essere risolti se non abbandonando la finalità della crescita assegnata all’economia nel modo di produzione industriale.

Il sistema politico non è in grado di affrontarli, perché dovrebbe rimettere in discussione i suoi stessi fondamenti. Può solo acuirli. Non per questo è disposto a cedere il suo potere. Il suo istinto di sopravvivenza lo porta a chiudersi a riccio per evitare di essere rovesciato. Tutti i suoi sforzi sono finalizzati a mantenere le dinamiche politiche all’interno delle due varianti della destra e della sinistra, con cui può essere gestito ed è stato gestito storicamente.

A tal fine tenta, non sempre con successo, di ridurre gli spazi della democrazia, si adopera per generare confusione introducendo elementi politici tradizionalmente di destra nei programmi della sinistra e tradizionalmente di sinistra nei programmi della destra, favorisce la formazione di alleanze tra i due schieramenti tradizionalmente opposti per sbarrare il passo a ipotesi alternative.

 

L’obiettivo strategico da perseguire in questa fase storica non può essere una gestione più equa socialmente – come si propone la componente della sinistra rimasta a sinistra -, meno devastante ecologicamente – come si propongono i movimenti ambientalisti -, non violenta – come si propongono i movimenti pacifisti -, più democratica – come si propongono i difensori delle costituzioni fondate sul reciproco controllo dei poteri, di un sistema economico e politico che, finalizzando l’economia alla crescita della produzione di merci, non può non generare iniquità crescenti, danni ambientali sempre più devastanti, forme di violenza sempre più diffuse, limitazioni alla democrazia.

L’obiettivo da perseguire non può essere la riforma di un sistema irriformabile, ma una profonda rivoluzione culturale e l’apertura di una nuova fase storica, così come è stato preconizzato da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’.

 

La mancanza di un soggetto politico con questa visione, impone di giocare simultaneamente una doppia partita. Da una parte occorre contrastare i tentativi con cui il sistema di potere cerca

  • di mettere fuori gioco le opposizioni riducendo la democrazia;
  • di superare la crisi riavviando la crescita con opere sempre più devastanti ambientalmente e sostanzialmente inefficaci rispetto agli stessi obbiettivi che si propone.

 

Occorre pertanto sostenere le iniziative della società civile in difesa della democrazia, le iniziative delle comunità locali che contrastano le imposizioni di grandi opere con un forte impatto ambientale nei territori in cui vivono, le iniziative delle formazioni politiche che a livello nazionale si oppongono agli indirizzi di politica economica su cui si fondano queste scelte.

Ma le attività di contenimento tendono a diventare pervasive e ad assorbire grandi quantità di energie psico-fisiche, sottraendole all’impegno necessario per definire le caratteristiche di un sistema economico e sociale alternativo, fondato sui due pilastri su cui si può costruire un futuro migliore per l’umanità: la compatibilità ambientale e un’equità estesa alle generazioni future e a tutte le specie viventi. Due pilastri che si sostengono reciprocamente e sono incompatibili con la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci.

Un soggetto politico che si proponga un obbiettivo di questo genere attualmente non esiste, non è prevedibile che si possa costituire in tempi brevi, non avrebbe spazio all’interno delle attuali dinamiche politiche, dove finirebbe per confondersi in mezzo a una pletora già troppo affollata di contendenti sempre meno credibili, ha bisogno di tempo per la costituzione di una rete di gruppi territoriali di riferimento diffusi sul territorio nazionale. La sua formazione richiede la definizione di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, che può scaturire solo da un confronto tra i movimenti e le associazioni in cui le persone che non si riconoscono nel sistema dei partiti fanno politica nel senso più nobile del termine, impegnandosi in attività finalizzate alla tutela dei beni comuni, degli ecosistemi, delle classi sociali e dei popoli più colpiti dalla crisi ecologica e dalla crisi economica, delle culture tradizionali, della biodiversità, dei diritti degli animali. Questo è il secondo compito su cui occorre impegnarsi.

 

In Italia il ruolo di principale antagonista al sistema di potere che governa l’economia e la politica è stato assunto dal Movimento 5 Stelle, che ha raggiunto un consenso elettorale pari a quello degli attuali schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, non solo per l’attivismo generoso di molti militanti, ma anche per la sempre maggiore indignazione suscitata nell’opinione pubblica dall’operato dei partiti che si sono alternati al governo negli ultimi decenni. Per demeriti altrui oltre che per meriti propri.

Una percentuale importante di questo consenso proviene da una parte degli elettori rimasti fedeli agli ideali di uguaglianza, democrazia e tutela ambientale tradizionalmente sostenuti dalla sinistra, che ha visto nella totale alterità del Movimento 5 Stelle rispetto alle dinamiche politiche del passato una maggiore determinazione nella lotta al sistema di potere che gestisce l’economia e la finanza a livello mondiale.

Non si possono tuttavia ignorare i suoi limiti culturali e progettuali, le sue carenze di analisi, i suoi errori a volte clamorosi, le perplessità che suscitano la sua struttura organizzativa e le sue procedure decisionali. Queste connotazioni impongono di mantenere un’autonomia culturale e politica nei suoi confronti, senza per questo considerarlo un avversario, perché in questa fase le sue attività di contrasto all’attuale gestione del potere costituiscono un argine fondamentale ai processi degenerativi in corso.

 

Il cambiamento di cui c’è bisogno non si può realizzare soltanto a livello politico e istituzionale. Deve fondarsi su una profonda rivoluzione culturale, che determini un mutamento del sistema dei valori e dei modelli di comportamento. Occorre superare l’antropocentrismo, la riduzione degli esseri umani alla dimensione economica, il loro appiattimento sul consumismo, l’identificazione del concetto di nuovo col concetto di migliore. Occorre ridurre la mercificazione e recuperare la solidarietà, rivalutare la manualità, il lavoro artigianale, la produzione di valori d’uso, ripristinare la prevalenza del bello sull’utile. «Non c’è progresso – ha scritto Pier Paolo Pasolini – senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni di vita anteriori dove comunque si era realizzato l’uomo…».

Occorre pertanto rivalutare il concetto di comunità e ripensare e ridefinire il fine e le modalità con cui le persone si relazionano le une con le altre, con l’ambiente che le circonda ed ultimo, ma non meno importante, con se stesse.

Solo un cambiamento di questo genere del paradigma culturale può consentire di avviare una grande stagione di innovazioni tecnologiche, non più finalizzate ad accrescere la produttività, ma l’efficienza nei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni. L’obbiettivo da perseguire è ridurre il consumo di risorse per unità di prodotto e l’impatto ambientale dei processi produttivi e dei prodotti.

Non c’è prospettiva di futuro per l’umanità se i suoi consumi di risorse rinnovabili continuano a eccedere la quantità di energia generata dalla fotosintesi clorofilliana utilizzando l’energia luminosa inviata quotidianamente dal sole sulla terra, se non si riducono le emissioni di anidride carbonica alle quantità metabolizzabili dai cicli biochimici della biosfera, se non si elimina la produzione di sostanze di sintesi non biodegradabili. Una prospettiva di futuro per l’umanità può essere riaperta soltanto se le attività economiche e produttive vengono ricondotte nell’ambito della bioeconomia teorizzata da Nicolas Georgescu Roegen.

 

L’elaborazione di questo paradigma culturale non potrà essere un’operazione puramente teorica, ma dovrà svilupparsi di pari passo con la realizzazione di esperienze concrete, di cui dovrà valutare non solo la validità in termini di riduzione dell’impronta ecologica e di definizione dei rapporti umani basati sull’equità e la solidarietà, ma anche la possibilità di essere riproposte, con i necessari adattamenti, in contesti ambientali e sociali differenti, la capacità di rispondere a bisogni diffusi, il rapporto tra costi e benefici – non solo economici, ma anche ambientali e sociali -, la sostenibilità economica e commerciale, le possibilità occupazionali che offrono.

 

L’obiettivo è dimostrare che l’affermazione «un altro mondo è possibile» non è uno slogan, ma una prospettiva che si può cominciare a costruire già oggi, realizzandone anticipazioni ripetibili, vantaggiose e desiderabili. A tal fine si dovranno concentrare le migliori energie intellettuali e creative nella realizzazione di progetti complessivi con un valore paradigmatico, in cui le abitazioni con lo standard di case passive, le energie rinnovabili, le relazioni umane fondate sulla solidarietà, il recupero della manualità, l’autosufficienza alimentare, l’agricoltura biologica, la riduzione del tempo di lavoro e la valorizzazione della creatività, consentano di raggiungere l’impronta ecologica 1 con un’alta qualità della vita.

 

C’è nei Paesi di più antica industrializzazione una componente sociale significativa interessata a un soggetto politico che non consideri il livello istituzionale come l’ambito principale della sua attività, ma uno dei campi d’applicazione di un impegno prioritariamente di carattere culturale?

Secondo un sondaggio effettuato nel mese di aprile del 2017, in Italia solo il 4 per cento della popolazione ha fiducia nei partiti esistenti, cioè nei soggetti politici che gestiscono a livello istituzionale questo modello economico e produttivo. La sfiducia nei loro confronti induce il 50 per cento degli elettori ad astenersi dal voto. Nelle elezioni amministrative che si sono svolte a maggio del 2016 questa è stata la percentuale di coloro che non sono andati a votare. Ma quattro mesi dopo, a dicembre, la percentuale dei votanti al referendum istituzionale che ha respinto le modifiche finalizzate a ridurre gli spazi di democrazia, è stata del 70 per cento. Se ne può dedurre che il 20 per cento degli elettori italiani si astiene dal voto perché non intende dare il proprio consenso a nessuna delle forze politiche esistenti – nemmeno al Movimento 5 Stelle, sebbene le scelte di questa formazione politica siano totalmente alternative a quelle dei partiti tradizionali che hanno governato il Paese e le amministrazioni locali dal secondo dopoguerra – ma non rinuncia a votare se l’espressione della sua volontà scavalca la mediazione dei partiti e incide direttamente sulla decisione da prendere.

In un’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana nell’ottobre del 2016, il sondaggista Nando Pagnoncelli ha affermato che il 34 per cento dei cattolici praticanti, cioè dei fedeli che vanno a messa almeno una volta a settimana, si astiene dal voto perché non si sentono rappresentati da nessuna delle forze politiche esistenti. In Italia i cattolici praticanti sono la componente più numerosa di un insieme di confessioni religiose (valdesi, evangelici, buddisti, islamici ecc.), di associazioni che praticano l’ascesi e la meditazione (yoga, antroposofia) o varie forme di religiosità (almeno una parte della galassia che può essere classificata con la definizione generica di new age), di associazioni che svolgono attività di volontariato. Ciò che accomuna tutte le persone che fanno parte di queste realtà sociali è il fatto di aver mantenuto viva la dimensione spirituale.

Non è probabilmente indebito dedurre che sia questa connotazione culturale alternativa al sistema dei valori dominante, condivisa da tutte le componenti al di là delle differenze con cui si manifesta in ognuna di esse, a indurle a non riconoscersi in un sistema politico deprivato delle connotazioni ideali che dovrebbero essergli intrinseche, ridotto a competizione per la distribuzione del denaro pubblico, anche in forme non sempre lecite, tra gruppi d’interesse contrapposti. E che non si tratti d’indifferenza per i problemi sociali è chiaramente dimostrato dal fatto che gli appartenenti a queste confessioni religiose, a questi orientamenti filosofici e a queste associazioni, si dedicano ad attività di carattere solidale nei confronti dei più deboli, alla tutela ambientale, alla difesa della biodiversità e delle tradizioni culturali. Probabilmente queste forme di impegno, che sono politiche nel senso più nobile della parola, manifestano l’esigenza, non ancora del tutto consapevole, di un mutamento di paradigma culturale in cui siano riconosciute come un modo di ridare dignità anche alla politica a livello istituzionale.

 

Un soggetto politico che si proponga prioritariamente il compito di costruire un paradigma culturale alternativo a quello su cui si fondano le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci si rivolge soprattutto all’area dei non votanti consapevoli e di coloro che annullano la scheda elettorale, ma, non proponendosi obbiettivi elettorali immediati, non è oggettivamente in competizione con le forze politiche che agiscono a livello istituzionale.

Sostiene, mantenendo la sua autonomia, le iniziative delle forze politiche presenti nelle istituzioni elettive che contrastano il pensiero unico dominante, gli effetti devastanti della globalizzazione, i tentativi di scaricare i costi delle misure di politica economica finalizzate alla ripresa della crescita sulle classi sociali più deboli, sulle generazioni future e sugli ambienti.

Collabora e, se possibile, costruisce percorsi comuni con i soggetti politici che agiscono a livello istituzionale locale, perché la loro scelta testimonia un’alterità rispetto al sistema dei partiti e una volontà di realizzare nuove forme di rappresentanza politica. Si impegna a favorire non solo la conversione ecologica dell’economia, ma anche la conversione economica dell’ecologia, mediante lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che consentono di attenuare la crisi ambientale riducendo gli sprechi e l’inquinamento, perché in questo modo si ottengono dei risparmi sui costi di gestione che consentono di pagare i costi d’investimento senza ricorrere a sussidi di denaro pubblico.

Solo con una strategia di questo tipo è possibile ridurre significativamente sia l’impatto ambientale, sia il potere dei partiti politici di condizionare le attività economiche, che costituisce il principale brodo di coltura della corruzione.

Nelle società industriali avanzate solo queste tecnologie hanno ampi spazi di mercato, possono far crescere significativamente l’occupazione in attività utili, non fanno aumentare i debiti pubblici, consentono di attenuare contestualmente la crisi ecologica e la crisi economica. Sono un tassello fondamentale del nuovo paradigma culturale che occorre elaborare.

 

 

Maurizio Pallante

Marco Dalla Gassa

30 aprile 2017

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Il centrosinistra ha perso? Con i danni che ha fatto, fatemi dire chissenefrega

La destra come l’araba fenice: sta rinascendo dalle proprie ceneri. Nella mia Liguria, tradizionalmente rossa, ora va di moda il nero che meglio sarebbe definire “grigio”. E sono in molti a stracciarsi le vesti per il crollo della sinistra. Vorrei però sommessamente dire la mia su questa sinistra.

Ma non tanto sulla sinistra odierna, che non si definisce neanche più tale. Quanto piuttosto sulla sinistra che ho conosciuto io, che negli anni sessanta-settanta dello scorso secolo spadroneggiava in Liguria. A Savona, se non avevi la tessera del Psi o del Pci non lavoravi. I sindacati privilegiavano già allora il lavoro su salute e ambiente. Nell’interno, all’Azienda coloranti nazionali e affini (Acna) di Cengio, gli operai morivano come mosche, la Bormida era forse il fiume più inquinato d’Italia e nessuno muoveva un dito.

Sulla costa le amministrazioni varavano piani regolatori che prevedevano condomini al posto degli “sciti”, gli orti, e speculazioni per ricchi al posto del bosco come a Torre del Mare. Oppure inquinanti poli industriali come nella valle di Vado Ligure.

Chi oggi piange perché Genova non è più governata dalla sinistra, dovrebbe ricordare il massacro urbanistico perpetrato dalle amministrazioni di sinistra: la dispersione urbana, i torrenti intubati, le ricorrenti alluvioni, i morti: “E il tumulto del cielo ha sbagliato momento. Acqua che non si aspetta altro che benedetta. Acqua che porta male sale dalle scale sale senza sale sale. Acqua che spacca il monte che affonda terra e ponte”, come cantava De Andrè in Dolcenera.

Oggi molti dicono che Renzi non è di sinistra, che la sinistra è altro. Ma di cosa stiamo parlando? Di un partito capace di realizzare una sorta di Utopia alla Tommaso Moro in cui tutto funziona alla perfezione, in cui c’è la solidarietà fra gli esseri umani e fra esseri umani e natura? La sinistra non è mai stata questo, come giustamente ricorda Maurizio Pallante, né mai lo sarà semplicemente perché non è nel suo Dna esserlo.

Certo, nella sinistra hanno militato anche uomini di specchiata virtù: Stefano Rodotà era uno di questi, uno che si batteva per i beni comuni. E infatti, quando si è trattato di votare per la Presidenza della Repubblica, la sinistra gli ha preferito il grigio Napolitano. Oppure quell’Antonio Cederna che nel suo fondamentale, lucido e profetico La distruzione della natura in Italia (Einaudi ed. 1975) così si esprimeva: “L’Italia contadina divenuta malamente urbana è soggetta a deprimenti distorsioni psicologiche: scambia spesso per progresso l’inumana malformazione delle città, per civiltà il biossido di carbonio, per benessere il fumo delle ciminiere, per affermazione di libertà l’eliminazione di ogni parvenza di natura”.

Rodotà, Cederna, ma ricordiamo anche Pasolini, Calvino, eccezioni che confermano la regola aurea di una sinistra che rincorrendo lo sviluppo ed il lavoro purchessia, di salute, ambiente e territorio se ne è sempre strabattuta. La sinistra perde? Permettetemi di dire “e chissenefrega!”

Fabio Balocco

Fonte: ilfattoquotidiano.it