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Radio Radicale: una mia intervista con Alessandro Pertosa

Propongo a tutti questa breve intervista di Radio Radicale fatta al Salone Internazionale del libro di Torino.

 

Per vedere e ascoltare l’intervista clicca QUI

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1 maggio: di quale lavoro utile abbiamo bisogno

Non manca il lavoro, manca l’occupazione utile che potrebbe creare una vera ripresa economica per il nostro Paese e farci uscire dall’attuale situazione. Eppure di esempi reali ne abbiamo anche qui in Italia.

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Sanità USA: a Philadelphia l’Aria Health Hospital risparmia 9.000 dollari grazie all’impianto di Cogenerazione “Made in Italy”

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Disinvestimento dalle fonti fossili e mondo cattolico: l’opinione di Bill McKibben in vista della più grande conferenza dedicata al tema

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Felici e contanti o contenti?

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Oltre la destra e la sinistra. Firenze, Teatro Verdi, 2 ottobre 2016

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, nel corso della Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate.

 

Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. […] Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».

 

Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che Marx, in un famoso passo del Capitale, definisce come il passaggio da un modo di produzione che può essere descritto con la formula M-D-M a un modo di produzione che può essere descritto dalla formula D-M-D1, dove la lettera M indica le merci e la lettera D indica il denaro. Nel modo di produzione pre-industriale, M-D-M, le attività produttive vengono svolte da artigiani che producono merci per clienti che le richiedono perché ne hanno bisogno, e ricevono in cambio del denaro che utilizzano per produrre altre merci richieste da altri clienti che ne hanno bisogno. Il fine del lavoro è la produzione di merci che hanno un valore d’uso e il denaro è il mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale,  D-M-D1, i capitalisti investono del denaro, accumulato originariamente con varie forme di sopraffazione – colonialismo, schiavismo, privatizzazione delle terre comuni ed espulsione dei contadini dalle campagne per costringerli a diventare operai – per produrre con l’uso di macchine sempre più efficienti azionate da motori, quantità crescenti di merci che non sono state richieste da nessuno, allo scopo di venderle per ricavare più denaro di quello che hanno investito per produrle. Il valore di D1 deve pertanto essere superiore al valore di D, altrimenti il processo non avrebbe senso, e la differenza tra i due valori costituisce il profitto. Nel modo di produzione industriale si producono valori di scambio e il denaro diventa il fine della produzione.

 

La destra e la sinistra hanno valutato che il modo di produzione industriale costituisse un progresso rispetto al modo di produzione pre-industriale perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca di abbondanza senza precedenti. A partire da questa comune valutazione culturale, lo scontro tra i due schieramenti è stato politico e si è articolato su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso «la mano invisibile del mercato», come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra? La storia ha dimostrato che dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto sia cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa con la vittoria definitiva della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dai flussi interminabili di Trabant che portavano i tedeschi dell’est ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi stracarichi di merci tecnologicamente avanzate nella Germania dell’ovest.

 

Il mercato fa crescere la produzione di merci più della programmazione e dei piani quinquennali. L’economia che distribuisce in maniera più iniqua il profitto (la differenza tra D1 e D) riduce la quota destinata ai consumi e accresce la quota destinabile agli investimenti, per cui fa crescere la produzione di merci più di un’economia che, distribuendo in modi più equi il profitto, fa crescere di più la quota destinata ai consumi e riduce la quota destinabile agli investimenti. Se la sinistra condivide con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è strategicamente perdente. E ha perso. Ma la sua sconfitta non è la sconfitta della pulsione all’eguaglianza, che la sinistra ha incarnato per appena due secoli e mezzo. È la sconfitta dell’interpretazione storica che ne ha dato. Pertanto i sostenitori dell’eguaglianza non possono non domandarsi come il loro ideale possa trovare una nuova concretizzazione storica, liberandosi dai limiti, dagli errori e dai vincoli di quella interpretazione.

 

L’errore di fondo della sinistra è stato di credere che si potesse realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani distribuendo in maniera più equa il profitto generato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ovvero governando in maniera diversa dalla destra un sistema economico e produttivo che, come la destra, considerava un progresso perché attraverso i progressi della scienza e della tecnologia accresceva sempre di più il potere della specie umana sulla natura, consentendole di ricavare quantità sempre maggiori di risorse e di produrre quantità sempre maggiori di beni. Questa concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio, è stata teorizzata dal filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà seicento. Pochi anni dopo il filosofo francese René Descartes avrebbe sostenuto che gli esseri umani sono ontologicamente diversi da tutti gli altri esseri viventi, a cui li accomuna il corpo, la res extensa, ma da cui li distingue la capacità di pensare e la coscienza, la res cogitans, per cui non fanno parte della natura, ma vi agiscono come attori sulla scena di un teatro. La res cogitans, che condividono con Dio, li rende superiori a tutti gli altri viventi e li autorizza a considerare che tutti i viventi non umani siano stati creati per soddisfare le loro esigenze, per cui hanno il diritto di utilizzarli ai propri fini. Su questa concezione antropocentrica si è fondato lo sfruttamento crescente delle risorse naturali che ha consentito di finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e che, in poco più di due secoli, ha progressivamente aggravato la crisi ecologica fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana. Sulla base di questa concezione, che accresce le iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi, vegetali e animali, la sinistra ha ritenuto che la crescita delle merci prodotte di anno in anno costituisse la premessa per realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani.

 

Le conseguenze di questa concezione antropocentrica sono sotto gli occhi di tutti, a eccezione dei politici di destra e di sinistra, degli economisti, degli imprenditori e dei sindacati. La crescita della produzione di merci ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili, in particolare quelli di fonti fossili, accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, in particolare le emissioni di anidride carbonica, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica tossiche e non tossiche (le plastiche) non metabolizzabili dalla biosfera. La riduzione delle disponibilità delle risorse non rinnovabili ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo dove insistono i giacimenti più ricchi. I consumi delle risorse rinnovabili hanno superato la loro capacità di rigenerazione annua e per sostenere la loro crescita economica i popoli ricchi ne accaparrano quantità crescenti per sostenere i loro sprechi, sottraendo ai popoli poveri il necessario per vivere. Dal 2008 la globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale, che è indispensabile per continuare a far crescere l’economia in questa fase storica, ha strozzato la crescita economica e i costi dei tentativi di ripresa, sino ad ora fallimentari, sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri continuano ad essere privati del necessario per vivere, per cui sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre e a sottoporsi a sofferenze inenarrabili nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.

 

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un’estensione della sopraffazione della specie umana sulla terra in quanto organismo vivente e su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente, in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani. Le conseguenze più gravi della crisi ecologica e della crisi economica vengono pagate e saranno pagate in misura sempre maggiore dai più poveri tra gli esseri umani. Solo una maggiore equità tra la specie umana e le altre specie viventi consente di accrescere l’equità tra gli esseri umani. Una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani si può realizzare soltanto abbandonando l’antropocentrismo che caratterizza la concezione occidentale del mondo e sviluppando una concezione del mondo biocentrica. Questo è il primo elemento di una nuova declinazione dell’uguaglianza rispetto all’interpretazione che ne ha dato storicamente, per 250 anni, la sinistra.

 

Un secondo elemento che caratterizza l’iniquità insita nella concezione dell’eguaglianza sviluppata dalla sinistra può essere riassunto con questa formulazione: non si può fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi sull’iniquità nei confronti delle generazioni a venire. I debiti pubblici accumulati dalla seconda metà del novecento per sostenere lo stato sociale sono il frutto di un patto non scritto, ma condiviso dalla destra e dalla sinistra, per accrescere il benessere materiale delle classi subalterne senza intaccare i profitti delle classi dominanti. Hanno garantito la crescita economica e la pace sociale a spese di chi non era ancora nato. Le politiche keynesiane, che ne sono state il suggello, hanno cancellato la consapevolezza che i debiti monetari contratti per continuare a far crescere la produzione e la domanda di merci nelle fasi in cui si inceppa, sono gli epifenomeni di debiti contratti nei confronti della natura e delle generazioni future. Se la spesa pubblica in deficit ha svolto questa funzione in passato, nella fase attuale crea più problemi di quanti ne risolva. A livello ambientale perché la produzione di merci a livello mondiale eccede già le capacità del pianeta di fornirle le risorse di cui ha bisogno e di metabolizzare i suoi scarti, per cui spingerla ulteriormente non può che aggravare la crisi ecologica fino al collasso. A livello sociale perché il sovraconsumo delle risorse che ha indotto, ha creato per le giovani generazioni prospettive di vita peggiori di quelle dei loro padri e dei loro nonni. Una nuova declinazione dell’uguaglianza, che consenta di superare questi problemi, richiede lo sviluppo delle tecnologie che riducono il consumo di risorse per unità di prodotto, ovvero una decrescita selettiva e guidata degli sprechi. Questo non è soltanto l’unico modo di creare occupazione, e quindi di restituire un futuro desiderabile ai giovani, ma l’occupazione che si crea in questo modo è utile perché riduce il consumo di risorse e paga i suoi costi d’investimento con i risparmi che consente di ottenere. Fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi senza prendere in considerazione le conseguenze negative che può scaricare sulle generazioni future, come ha fatto la sinistra, è una scelta della massima iniquità. Per superarla occorre riscoprire uno dei fondamenti della cultura contadina. I vecchi contadini piantavano, come lascito ai loro nipoti, alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti e lo facevano perché da bambini avevano mangiato frutti di alberi che erano stati piantati per loro dai loro nonni.

 

Un terzo elemento generatore d’iniquità che occorre rimuovere dall’interpretazione storica data dalla sinistra all’eguaglianza, è la convinzione che le diseguaglianze tra le classi sociali nei Paesi ricchi e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si misurino sostanzialmente con le differenze di reddito monetario. Tutte le statistiche sulla crescita della povertà su cui gli intellettuali di sinistra fondano le loro critiche alla concezione economica oggi dominante, che definiscono neo-liberismo, si fondano su dati monetari. In realtà il reddito monetario può essere considerato una misura adeguata della ricchezza soltanto nelle società che hanno finalizzato l’economia alla produzione di merci, cioè di oggetti e servizi fatti per essere venduti allo scopo di far crescere il profitto di chi li ha prodotti. Soltanto nelle società che finalizzano il lavoro umano non alla soddisfazione dei bisogni della vita, ma alla crescita del profitto, e fondano i rapporti sociali sulla competizione. In queste società l’autoproduzione di beni e i rapporti fondati sulla solidarietà e la collaborazione sono disprezzati e banditi, perché riducono la necessità di comprare e quindi fanno crescere di meno i profitti. Solo se si accetta questo sistema di valori e si pensa che tutto ciò che serve si può solo comprare, si può ritenere che le diseguaglianze si misurino con le differenze di reddito. Le merci sono indispensabili perché nessuno può autoprodurre tutto ciò di cui ha bisogno e nessuna comunità può essere totalmente autosufficiente. Ma le merci non possono soddisfare tutte le esigenze umane e, se tutto ciò che risponde a un bisogno si deve comprare, accrescono la dipendenza dal mercato, riducono l’autonomia delle persone e delle comunità, inducono a identificare il benessere col consumismo, lacerano i rapporti sociali fondati sulla solidarietà. Un sistema economico che si proponga di migliorare il benessere degli esseri umani e a ridurre le diseguaglianze non si lascia ingabbiare nella dimensione monetaria. Non trascura l’importanza del benessere materiale e si propone di creare le condizioni per cui tutti possano accedervi, ma sa che il benessere dipende in misura ancora maggiore dalla tutela dei beni comuni, dei più deboli, della bellezza dei luoghi in cui si vive, della sovranità alimentare, dell’autosufficienza energetica, del sapere tradizionale, delle possibilità di coltivare la propria creatività e di soddisfare le proprie esigenze di conoscenza disinteressata. In una parola di tutto ciò che non si può comprare col denaro e dà un senso alla vita molto più di ciò che si può comprare.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani devono comprare le quantità crescenti di merci che vengono prodotte, altrimenti non si potrebbe continuare a produrne, per cui devono identificare il benessere con il consumismo. Il consumismo deve diventare l’asse portante del sistema dei valori. La realizzazione umana degli individui deve identificarsi con la loro capacità di spesa, con la quantità e la qualità degli oggetti e dei servizi che possono comprare. Coloro che hanno di più diventano il modello di coloro che hanno di meno. Ciò genera uno stato di insoddisfazione permanente anche in chi ha molto più della media, perché c’è sempre qualcuno che ha di più. Il consumismo ha operato, per riprendere le parole di Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica, appiattendo gli esseri umani sulla dimensione materialistica e cancellando dal loro orizzonte mentale la spiritualità. Il recupero della dimensione spirituale è indispensabile per percepire l’intreccio delle relazioni che legano tutte le specie viventi tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, come insegna la scienza dell’ecologia. Per sentire come una sofferenza propria la sofferenza di chi non ha il necessario per vivere, dei giovani che non trovano un’occupazione, di coloro che non sono ancora nati per le condizioni in cui troveranno ridotto il mondo, degli animali negli allevamenti industriali, il taglio di un bosco, l’annullamento della fotosintesi clorofilliana sotto i sudari d’asfalto e di cemento, il sacrificio della bellezza al profitto. La spiritualità non è la fede, anche se non ci può essere fede senza spiritualità. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. Fede è sustanza di cose sperate è argomento delle non parventi, ha scritto Dante. Non tutti hanno la fede, ma la spiritualità è un elemento costitutivo della natura umana. Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica, la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile che consente di recuperare la dimensione della solidarietà non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi, e di conferire alla pulsione all’eguaglianza una connotazione non solo politica, ma esistenziale.

 

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Beni e merci: è così difficile da capire?

La crescita economica, occorrerà ripeterlo fino allo sfinimento ma non basterà, non è l’aumento della quantità dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico e produttivo in un periodo di tempo determinato, perché il parametro con cui si misura, il Prodotto Interno Lordo, è un valore monetario che si calcola sommando i prezzi degli oggetti e dei servizi a uso finale (consumi e investimenti) scambiati con denaro, cioè comprati e venduti, in quel periodo di tempo. La crescita del PIL è pertanto l’incremento percentuale di quel valore monetario rispetto al valore monetario del PIL calcolato nell’identico periodo temporale precedente.

La parola che definisce gli oggetti e i servizi scambiati con denaro è merci; la parola che definisce la compravendita di oggetti e servizi è commercio; il luogo in cui avvengono gli scambi commerciali è il mercato.

La motivazione che induce le persone a comprare un oggetto o un servizio è l’utilità, vera o presunta, oggettiva o soggettiva, che pensano di ricavarne. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene.

I concetti di bene e di merce indicano pertanto due caratteristiche diverse di un oggetto o di un servizio. Diverse non significa contrarie, perché il contrario di merce non è bene, ma oggetto o servizio non scambiato con denaro, e il contrario di bene non è merce, ma oggetto o servizio che non offre alcuna utilità. Nello stesso oggetto non possono coesistere due caratteristiche contrarie, ma sono compresenti normalmente due o più caratteristiche diverse. Una merce non può non essere comprata e un bene non può essere inutile o dannoso, ma un oggetto o un servizio che si acquista perché offre un’utilità, reale o presunta, è un bene che si ottiene sotto forma di merce.[1]

Ci sono però anche beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, o per scelta perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono, o perché non si possono comprare: i beni relazionali, o perché appartengono alla comunità di cui si fa parte e si ha diritto a usufruirne: i beni comuni. I beni autoprodotti, i beni scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, i beni comuni non non rientrano nella categoria delle merci. Di contro, alcuni oggetti e servizi che si comprano e rientrano, pertanto, nella categoria delle merci, non hanno nessuna utilità, per cui non sono beni: gli sprechi dovuti a inefficienza tecnologica o organizzativa, come l’energia che si disperde dagli edifici mal coibentati (almeno il 70 per cento di quella che si utilizza), e il cibo che si butta.

Un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci, che identifica il benessere con la crescita del PIL, cioè con l’aumento del valore monetario delle merci a uso finale scambiate con denaro in un periodo di tempo determinato, non può, per definizione, non tendere a ridurre con tutti i mezzi possibili la produzione di beni che non sono merci e aumentare la produzione di merci anche quando non sono beni. Cancella dall’ambito del sapere condiviso il saper fare necessario all’autoproduzione, valorizza la concorrenza tra gli individui, distrugge le comunità e le famiglie, usa la scuola, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa per persuadere che il modo migliore di avere un bene è comprarlo, identifica il benessere col possesso di cose e l’innovazione col miglioramento, mercifica i beni comuni, riduce il lavoro alla produzione di merci in cambio di un reddito, eliminando dall’immaginario collettivo la possibilità di lavorare per produrre almeno una parte dei beni di cui si ha bisogno, trasforma il denaro da mezzo per acquistare i beni che si possono avere solo sotto forma di merci a fine della vita.

Se si ritiene che la crescita della produzione di merci abbia superato la capacità della biosfera di fornirle le risorse che le sono necessarie e di metabolizzare gli scarti che genera, che sia la causa delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili di cui ha bisogno, della crisi climatica, delle iniquità crescenti tra le classi sociali, tra i popoli, tra la specie umana e le altre specie viventi, non si può non operare per contrastarla e rallentarla, strappandole la maschera seducente con cui nasconde il suo vero volto agli occhi dell’umanità. Questo è l’obbiettivo che si è posto il variegato mondo di coloro che sostengono la necessità di una decrescita. Su come si possa raggiungere le opinioni non sono concordi, come inevitabilmente accade nelle fasi nascenti di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, a cui ognuno approda a partire dalla sua formazione culturale e dai suoi precedenti orientamenti politici. Questo non è un limite, ma un valore paragonabile alla biodiversità che, attraverso il confronto consente di depurare il paradigma culturale nascente dai residui del paradigma culturale precedente insiti in ogni percorso individuale. Solo così è possibile farlo emergere progressivamente dal bozzolo in cui è rinchiuso, come le statue che, secondo Michelangelo, erano contenute nel blocco di marmo da cui lo scultore le libera a forza di togliere.

In relazione alle ipotesi formulate dal movimento della decrescita felice, che costituisce una di queste componenti, Serge Latouche ha scritto e ribadito più di una volta lo stesso concetto, più o meno con le stesse parole:

 

[…] bisogna intendersi esattamente su che cosa debba decrescere. Per la maggioranza degli obiettori di crescita la risposta è che bisogna relegare in secondo piano l’indice-feticcio della crescita, cioè il PIL. È ciò che sostiene esplicitamente Maurizio Pallante, autore di un manifesto della decrescita felice. Per Pallante è necessario ridurre la produzione dei beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nel calcolo del PIL e aumentare quella dei beni e servizi non commerciali che non vi rientrano: autoproduzione, economia del dono e della reciprocità. Dal canto loro, gli adepti della semplicità volontaria e, in Francia i discepoli di Pierre Rabhi, sostengono una posizione analoga, ma meno precisa, con lo slogan «meno beni, più legami». Meno precisa perché dal punto di vista economico il legame può essere considerato come produttore di servizi non commerciali, e dunque di beni (nel senso di Pallante).[2]

 

In questo passaggio, tratto dal suo ultimo libro pubblicato in Italia, La decrescita prima della decrescita (2016), Latouche ha ripreso quanto aveva già scritto più volte nel corso degli ultimi anni. La prima volta nel 2011, nella prefazione alla traduzione in francese del libro di Maurizio Pallante, La decrescita felice, dove si era espresso così:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice la decrescita è un concetto positivo, che può essere definito come la diminuzione del PIL, ovvero la riduzione dei consumi dei beni e dei servizi scambiati con denaro (merci), ma è felice, perché al contempo comporta un aumento di beni e servizi non mercificati (beni), che procurano vere soddisfazioni. Ne risulta che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete.[3]

 

Nel 2012, nel libro Per un’abbondanza frugale aveva ribadito il concetto:

 

È vero che alcuni obiettori di crescita, come Maurizio Pallante in Italia, sembrano pensare che la decrescita – e in primo luogo quella del PIL – sia compatibile con l’economia capitalistica di mercato, ma questa non è l’idea della maggioranza dei decrescenti. Per Pallante, fondatore della corrente della decrescita felice, la decrescita è un concetto positivo che può essere definito con la riduzione del PIL, cioè la diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso c’è un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Questa concezione tende a ridurre la rottura della crescita all’obiettivo dell’autoproduzione, il che la avvicina all’idea della semplicità volontaria.[4]

Nel 2013, nella prefazione del libro di Mauro Bonaiuti La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, non aveva perso l’occasione per ribattere il chiodo:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice, non si tratta tanto di uno slogan provocatorio che vuole indicare la rottura con la società della crescita, quanto di un obiettivo già applicabile a un contenuto concreto. La decrescita secondo Pallante è un concetto positivo che può essere tradotto in riduzione del PIL, cioè in diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso corrisponde a un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso.[5]

 

In realtà, sin dalla prima formulazione di questa teoria nel libro La decrescita felice, pubblicato nel 2005 e ristampato più volte, la decrescita è stata definita come una riduzione del PIL che si può ottenere non con la diminuzione della produzione e del consumo di merci, ma delle merci che non sono beni, oltre che con l’aumento della produzione e dell’uso di beni autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, quando sia vantaggioso farlo, non solo per ridurre i costi, il consumo di risorse e le emissioni di scarti, ma anche per recuperare un saper fare che riduce la dipendenza dal mercato e per ricostruire i legami sociali lacerati dall’onnimercificazione. La riduzione del consumo di merci che non sono beni e l’aumento dell’uso di beni che non sono merci comportano una riduzione dell’impatto ambientale, un miglioramento della qualità della vita e una riduzione del bisogno di denaro, che consente una riduzione del tempo di lavoro e un aumento del tempo che si può dedicare alle relazioni umane e alla creatività. Una decrescita del PIL ottenuta in questo modo aumenta il benessere: è una decrescita felice.

La riduzione della produzione delle merci che non sono beni, cioè degli sprechi e dei danni che ne conseguono, richiede lo sviluppo di tecnologie con una finalità diversa da quelle che accrescono la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo e, di conseguenza, la produzione totale di merci. Queste tecnologie sono finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, secondo la concezione della scienza formulata in modo organico per la prima volta nella storia dell’occidente dal filosofo Francesco Bacone all’inizio del XVII secolo. Non a caso sono per lo più derivazioni a uso civile di innovazioni tecnologiche sviluppate in ambito militare. Le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale per unità di prodotto sono invece finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui i processi produttivi utilizzano le risorse della terra, in modo da non eccedere la sua capacità bioriproduttiva annua, da ridurre le emissioni biodegradabili a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana, da eliminare le emissioni non biodegradabili. Lo sviluppo di queste tecnologie non soltanto costituisce l’unico modo di accrescere significativamente l’occupazione nei paesi industrializzati, ma crea occupazione in lavori utili (perché creare occupazione non è un valore in sé, anzi può essere un danno se si crea nelle fabbriche delle armi o in processi produttivi devastanti). Le innovazioni tecnologiche finalizzate a una decrescita selettiva e governata degli sprechi costituiscono una proposta di politica economica e implicano un cambiamento di paradigma culturale. Qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

L’aumento della produzione di beni che non passano attraverso la mercificazione è una proposta che presenta profonde affinità con le riflessioni di Ivan Illich sul vernacolare

«Vernacolare» – ha scritto Illich nel 1978 – viene da una radice indogermanica che contiene l’idea di «radicamento» e «dimora». È una parola latina che, nell’epoca classica, indicava qualsiasi cosa allevata, coltivata, tessuta o fatta in casa. […] Io vorrei oggi resuscitare in parte l’antico significato del termine. Abbiamo bisogno di una parola che esprima in maniera immediata il frutto di attività non motivate da considerazioni di scambio; una parola che indichi quelle attività, non legate al mercato, con cui la gente soddisfa dei bisogni, ai quali nel processo stesso del soddisfarli dà forma concreta.[6]

 

E nel 1979, nel saggio Le tre dimensioni della scelta pubblica, pubblicato nello stesso volume, ha ribadito:

 

[…] io propongo […] l’idea di lavoro vernacolare: attività non pagate, che garantiscono e incrementano la sussistenza, ma totalmente refrattarie a ogni analisi basata sui concetti dell’economia formale. «Vernacolare» è un termine latino, che ha assunto oggi una connotazione quasi esclusivamente linguistica. Nell’antica Roma, fra il 500 a. C. e il 600 d. C., esso indicava qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune, valore che una persona poteva proteggere e difendere, ma non poteva né vendere né acquistare sul mercato. Io suggerisco di recuperare questo semplice termine, per contrapporlo alle merci […].[7]

 

L’autoproduzione di beni e gli scambi non mercantili basati sul dono e la reciprocità sono atti di disobbedienza civile che riducono la dipendenza dal mercato, restituiscono dignità culturale al saper fare che costituisce una caratteristica esclusiva della specie umana, consentono di superare l’appiattimento sulla dimensione materialistica e di valorizzare la spiritualità, possono mettere in crisi l’economia della crescita facendo diminuire la domanda di merci. Anche su questo versante qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

La proposta di ridurre la produzione e il consumo di merci che non sono beni implica l’introduzione di criteri di valutazione qualitativa del fare umano. Non significa credere che il meno sia meglio di per sé, ma scegliere il meno quando è meglio, che è cosa ben diversa dalla proposta di una generica riduzione della produzione e del consumo di merci. La rivalutazione delle capacità di autoproduzione di beni per ridurre la dipendenza dal mercato e ricostruire i legami sociali distrutti dall’onnimercificazione, è un atto di ribellione alla riduzione degli esseri umani a fantocci nevrotici che non sanno fare nulla, non conoscono nulla e sono capaci soltanto di comprare, buttare via e ricomprare.

Fraintendimenti così sostanziali della decrescita felice possono derivare soltanto da una lettura poco attenta, a cui sono sfuggite alcune parole, o dal fatto di dare inconsapevolmente all’aggettivo diverso il significato di contrario e dedurne che le merci non possono essere beni e i beni non possono essere merci. Solo se si pensa che le merci non possano essere beni si può confondere – non una volta per disattenzione, ma ripetutamente – la riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni con la riduzione della produzione e del consumo di merci tout court. Solo se si pensa che i beni non possono essere merci si può dire che «i beni sono i beni e i servizi non mercantili». Mentre chiunque sa che molti beni – cioè oggetti e servizi utili – si possono comprare e alcuni beni, quelli che richiedono tecnologie evolute e competenze professionali specializzate, si possono solo comprare.

Non so, e poco importa sapere, se la ripetuta deformazione e banalizzazione della decrescita felice da parte di Latouche dipenda da una lettura superficiale o da un’incomprensione. Quello che conta è dove va a parare: alla critica del fatto che in questa versione «la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete» (prefazione a La décroissance heureuse, 2011); «Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso» (prefazione al libro di Mauro Bonaiuti, La grande transizione, 2013). A parte il fatto che dedurre proposte operative dalle riflessioni teoriche non è un limite ma un merito, anche quando siano incomplete o discutibili, a cosa serve denunciare la gravità dei problemi ambientali, economici e sociali causati dalla crescita senza porsi il problema di come bloccarla? Senza

impegnarsi a formulare proposte concrete che vanno dal sovvertimento dei valori su cui ha uniformato gli stili di vita delle popolazioni nei paesi industrializzati, al superamento dell’antropocentrismo e di una concezione della tecnologia come strumento di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, alla definizione di un paradigma culturale alternativo, all’elaborazione di proposte di politica economica finalizzate ad avviare una decrescita che non sia austerità e pauperismo, ma consenta di realizzare condizioni di vita più soddisfacenti proprio perché si propone di ridurre gli sprechi e non i beni, di rivalutare capacità mortificate e di ripristinare relazioni umane solidali?

Poiché la crescita consiste in una progressiva estensione della mercificazione a un numero sempre maggiore di aspetti della vita di un numero sempre maggiore di esseri umani, le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci hanno bisogno che si perda la percezione della differenza tra il concetto di bene e il concetto di merce, affinché il maggior numero delle persone ritenga che tutto ciò di cui ha bisogno si possa solamente comprare e che il benessere si misuri con la crescita della quantità di cose che si possono comprare. Nella lingua inglese la differenza tra i due concetti è ormai sparita. Sui dizionari la parola merce è tradotta con la parola goods, che significa beni. Di conseguenza uno dei pilastri su cui non si può non fondare la rivoluzione culturale della decrescita è proprio il ripristino della differenza tra il concetto di merce e il concetto di bene. Solo se non si fonda su questa pietra angolare si può pensare che possa essere ridotta a uno slogan, a una «parola bomba», buona per titillare la vanità di quegli intellettuali di sinistra che si piccano di essere anticonformisti e di non farsi intortare dall’ideologia del potere, ma inutile per sterzare il volante e cambiare la direzione di marcia di una macchina che si sta dirigendo a tutta velocità verso il precipizio.

Maurizio Pallante

[1]          Aristotele scrive nella Metafisica, libro V (1017b 25 – 1018b 10): «Opposti si dicono i contraddittori, i contrari, i relativi, privazione e possesso, gli estremi da cui si generano e si dissolvono le cose. Opposti si dicono anche quegli attributi che non possono trovarsi insieme nello stesso soggetto, che pure li può accogliere separatamente […]. Il grigio e il bianco, infatti, non si trovano insieme nello stesso oggetto, perciò gli elementi da cui derivano sono opposti.

Contrari si dicono quegli attributi differenti per genere che non possono essere presenti insieme nel medesimo oggetto, quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito del medesimo genere, quegli attributi che maggiormente differiscono nell’ambito dello stesso soggetto che li accoglie…

Diverse secondo la specie si dicono quelle cose che pur appartenendo allo stesso genere, non sono subordinate le une alle altre, quelle che pur appartenendo allo stesso genere, hanno una differenza, quelle che hanno una contrarietà nella loro sostanza». Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, pp. 217-221, traduzione di Giovanni Reale.

[2]    Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 15

[3]    Maurizio Pallante, La décroissance hereuse, Nature & Progrès, Namur 2011, Prefazione di Serge Latouche, pag. 16.

[4]    Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 76

[5]    Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2013, Prefazione di Serge Latouche, pp. 13-14. Può essere utile precisare en passant che i concetti di bene e di merce non sono sovrapponibili ai concetti di valore d’uso e di valore di scambio utilizzati da Marx, perché una merce, quando è prodotta da un artigiano per un cliente che gliela chiede in cambio di denaro è un valore d’uso (un bene ottenuto sotto forma di merce). Secondo Marx, il modo di produzione preindustriale può essere sintetizzato dalla formula «merce – denaro – merce». È nel modo di produzione industriale che le merci diventano valori di scambio, prodotti non finalizzati a soddisfare un’esigenza espressa da qualcuno, ma a far crescere attraverso le vendite il valore monetario investito per produrli. Pertanto il modo di produzione industriale può essere sintetizzato con la formula «denaro – merce – denaro», dove la quantità di denaro alla fine del processo deve essere maggiore di quella all’inizio.

[6]    Ivan Illich, Nello specchio del passato, Red edizioni, Como 1992, pp. 122-23

[7]    Ibidem, pagg. 97-98.

 

 

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La siccità del mediterraneo orientale

Pubblicata sul Journal of Geophysical Research, la ricerca “Spatiotemporal drought variability in the Mediterranean over the last 900 years”, condotta dalla NASA rileva che la recente siccità che ha avuto inizio nel 1998 nella regione levantina del Mediterraneo orientale, che comprende Cipro, Israele, Giordania, Libano, Palestina, Siria e Turchia, è con ogni probabilità la peggiore siccità degli ultimi nove secoli.

Gli scienziati hanno ricostruito la storia della siccità del Mediterraneo, come parte dei lavori in corso per migliorare i modelli computerizzati di simulazione del clima, attraverso lo studio degli anelli degli alberi per stabilire le variazioni intercorse delle precipitazioni: anelli sottili indicano anni di siccità; mentre quelli larghi mostrano l’abbondanza d’acqua.
Oltre a identificare gli anni più aridi, il team di scienziati ha scoperto i modelli nella distribuzione geografica della siccità che forniscono un’ “impronta digitale” per identificare le cause sottese. Nell’insieme, i dati mostrano l’intervallo di variazione naturale dei periodi di siccità nel Mediterraneo, che permetterà agli scienziati di distinguere quelli più intensi determinati dal riscaldamento globale indotto dall’uomo.

La rilevanza e l’importanza dei cambiamenti climatici di origine antropica ci impone di comprendere l’intera gamma di variabilità naturale del clima – ha dichiarato Ben Cook, l’autore principale della ricerca e climatologo del Goddard Institute della NASA per gli Studi spaziali e del Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University di New York – Se osserviamo i recenti avvenimenti iniziamo a rilevare le anomalie che si trovano al di fuori di questo intervallo di variabilità naturale, allora possiamo dire con una certa sicurezza a che cosa assomiglia questo particolare evento o questa serie di eventi e quanto è stato il contributo dell’uomo nel determinare i cambiamenti climatici”.

Cook e i suoi colleghi hanno utilizzato i dati sugli anelli degli alberi dell’ “Old World Drought Atlas” per capire meglio la frequenza e la gravità delle siccità verificatesi nel Mediterraneo nel passato. Negli anni compresi tra il 1100 e il 2012, i ricercatori hanno scoperto che le siccità record testimoniate dagli anelli degli alberi corrispondono a quelle descritte nei documenti storici dell’epoca.
Dei dati OWDA gli scienziati si  erano avvalsi anche per spiegare la caduta dell’Impero Khmer e l’abbandono da parte della popolazione della città di Angkor (Cambogia).

La gamma di variabilità di periodi estremamente aridi o piovosi è piuttosto ampia, ma la recente siccità che ha colpito tra il 1998-2012 la regione orientale del Mediterraneo, e tuttora persiste, è di circa il 50% maggiore degli ultimi 500 anni e del 10-20% degli ultimi 900 anni.

mappa mediterraneo

Gennaio 2012. Le tonalità di marrone mostrano le riserve di acqua nella regione del Mediterraneo rispetto allo stoccaggio idrico medio del periodo 2002-2015.
I dati sono desunti dai satelliti GRACE (Gravity Recovery And Climate Experiment), missione congiunta della NASA e l’Agenzia spaziale tedesca) (Fonte: NASA/Goddard Institute).
La copertura di dati su una vasta area ha permesso al team di scienziati non solo di osservare le variazioni nel tempo, ma anche i cambiamenti geografici in tutta la regione.
In altre parole, quando nel Mediterraneo orientale c’è siccità, questa si verifica anche nell’Occidente?
La risposta è sì, nella maggior parte dei casi – ha sottolineato Kevin Anchukaitis, co-autore e scienziato del clima presso l’Università dell’Arizona di Tucson – Questo vale sia per l’attuale società che per le civiltà del passato, ovvero se una regione sta soffrendo le conseguenze della siccità, queste condizioni sono suscettibili di persistere in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è necessariamente possibile fare affidamento sulla ricerca di migliori condizioni climatiche in una regione piuttosto che in un’altra, così da avere la potenziale distruzione su larga scala dei sistemi alimentari, nonché potenziali conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche”.

I ricercatori, inoltre, hanno osservato che quando la parte settentrionale del Mediterraneo (Grecia, Italia, coste di Francia e Spagna) tende ad avere scarsità di precipitazioni, la parte orientale del Nord Africa è piovosa, e viceversa. Queste relazioni est-ovest e nord-sud hanno aiutato il team a capire quali siano le condizioni oceaniche  ed atmosferiche che portano a periodi secchi o umidi.

I due principali modelli di circolazione che influenzano il verificarsi di periodi siccitosi nel Mediterraneo sono la North Atlantic Oscillation (gennaio-aprile) ovvero la differenza di pressione tra l’Anticiclone delle Azzorre e la Depressione d’Islanda, e l’East Atlantic Pattern (aprile-giugno) che segnala le anomalie delle temperature dell’Atlantico orientale. Questi flussi d’aria descrivono come i venti e il tempo tendano a comportarsi a seconda delle condizioni oceaniche. Hanno fasi periodiche che evitano a lungo il formarsi di tempeste nel Mediterraneo e provocano il formarsi di aria più calda, con la conseguenza che l’assenza di piogge e le elevate temperature fanno aumentare l’evaporazione dai terreni e provocano siccità.
Questo studio dimostra che l’andamento di questo recente periodo di siccità della regione orientale del Mediterraneo è del tutto anomalo rispetto agli altri livelli record che si sono registrati nei secoli scorsi, indicando che quest’area risente già gli effetti del riscaldamento del Pianeta indotto dall’uomo – ha commentato Yochanan Kushnir, climatologo presso il Lamont Doherty Earth Observatory, non direttamente coinvolto nella ricerca – La variabilità dei periodi di eccezionale siccità intervenuti negli ultimi 900 anni costituisce un importante contributo che verrà utilizzato per perfezionare i modelli computerizzati per proiettare il rischio di siccità nel XXI secolo”.

La situazione non sembra allarmare troppo i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo Centro-occidentale, che continuano a far finta di niente, come se la questione non li riguardasse, salvo poi voler distinguere chi scappa per le guerre dai rifugiati climatici e disconoscere come la questione mediorientale abbia avuto una escalation anche a seguito della grave siccità che ha colpito quella che, storicamente, è stata la regione della “Mezzaluna fertile”.

In copertina:
Donne al lavoro nei campi del nord-est della Siria colpita da grave siccità che viene considerata una delle concause della grave crisi socio-economica del Paese.

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Destra e sinistra addio. Presentazione a Milano

Martedì 9 febbraio 2016, alle ore 18.30 presso la libreria Mondadori Megastore di via Maghera, 28 a Milano, presenterò il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza” ed. Lindau.

Sono molto felice di questa presentazione sulla città di Milano. Principalmente perché sarò accompagnato da Duccio Demetrio che stimo da tempo e di cui mi onoro di essere accompagnato.

In secondo luogo presentare “destra e sinistra addio” a Milano –  abbiamo un bel circolo presente sul territorio – in clima di elezioni primarie o comunque in un periodo elettorale, significa contribuire fattivamente a ravvivare il sano dibattito politico. Sono convinto che i grandi cambiamenti partano sempre dal basso e sarebbe interessante e davvero rivoluzionario se qualche componente politica desiderasse approfondire e far sue le tematiche della decrescita felice.

Secondo voi saranno capaci di raccogliere questa grande sfida? Non lo so. Certamente sarebbe una grande rivoluzione, in positivo per tutti i milanesi.

Intanto io vado a proporre le nostre idee e a contaminare quante più persone possibili. Vi aspetto in tanti.

Passateparola.

 

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“Destra e sinistra addio” intervista di Filippo La Porta su Left

Allego qui di seguito una mia intervista su LEFT e ringrazio di vero cuore l’amico Filippo La Porta per la disponibilità, l’onestà intellettuale e la professionalità.

Di seguito l’intervista:

intervista su LEFT