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Oltre la destra e la sinistra. Firenze, Teatro Verdi, 2 ottobre 2016

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, nel corso della Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate.

 

Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. […] Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».

 

Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che Marx, in un famoso passo del Capitale, definisce come il passaggio da un modo di produzione che può essere descritto con la formula M-D-M a un modo di produzione che può essere descritto dalla formula D-M-D1, dove la lettera M indica le merci e la lettera D indica il denaro. Nel modo di produzione pre-industriale, M-D-M, le attività produttive vengono svolte da artigiani che producono merci per clienti che le richiedono perché ne hanno bisogno, e ricevono in cambio del denaro che utilizzano per produrre altre merci richieste da altri clienti che ne hanno bisogno. Il fine del lavoro è la produzione di merci che hanno un valore d’uso e il denaro è il mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale,  D-M-D1, i capitalisti investono del denaro, accumulato originariamente con varie forme di sopraffazione – colonialismo, schiavismo, privatizzazione delle terre comuni ed espulsione dei contadini dalle campagne per costringerli a diventare operai – per produrre con l’uso di macchine sempre più efficienti azionate da motori, quantità crescenti di merci che non sono state richieste da nessuno, allo scopo di venderle per ricavare più denaro di quello che hanno investito per produrle. Il valore di D1 deve pertanto essere superiore al valore di D, altrimenti il processo non avrebbe senso, e la differenza tra i due valori costituisce il profitto. Nel modo di produzione industriale si producono valori di scambio e il denaro diventa il fine della produzione.

 

La destra e la sinistra hanno valutato che il modo di produzione industriale costituisse un progresso rispetto al modo di produzione pre-industriale perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca di abbondanza senza precedenti. A partire da questa comune valutazione culturale, lo scontro tra i due schieramenti è stato politico e si è articolato su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso «la mano invisibile del mercato», come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra? La storia ha dimostrato che dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto sia cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa con la vittoria definitiva della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dai flussi interminabili di Trabant che portavano i tedeschi dell’est ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi stracarichi di merci tecnologicamente avanzate nella Germania dell’ovest.

 

Il mercato fa crescere la produzione di merci più della programmazione e dei piani quinquennali. L’economia che distribuisce in maniera più iniqua il profitto (la differenza tra D1 e D) riduce la quota destinata ai consumi e accresce la quota destinabile agli investimenti, per cui fa crescere la produzione di merci più di un’economia che, distribuendo in modi più equi il profitto, fa crescere di più la quota destinata ai consumi e riduce la quota destinabile agli investimenti. Se la sinistra condivide con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è strategicamente perdente. E ha perso. Ma la sua sconfitta non è la sconfitta della pulsione all’eguaglianza, che la sinistra ha incarnato per appena due secoli e mezzo. È la sconfitta dell’interpretazione storica che ne ha dato. Pertanto i sostenitori dell’eguaglianza non possono non domandarsi come il loro ideale possa trovare una nuova concretizzazione storica, liberandosi dai limiti, dagli errori e dai vincoli di quella interpretazione.

 

L’errore di fondo della sinistra è stato di credere che si potesse realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani distribuendo in maniera più equa il profitto generato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ovvero governando in maniera diversa dalla destra un sistema economico e produttivo che, come la destra, considerava un progresso perché attraverso i progressi della scienza e della tecnologia accresceva sempre di più il potere della specie umana sulla natura, consentendole di ricavare quantità sempre maggiori di risorse e di produrre quantità sempre maggiori di beni. Questa concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio, è stata teorizzata dal filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà seicento. Pochi anni dopo il filosofo francese René Descartes avrebbe sostenuto che gli esseri umani sono ontologicamente diversi da tutti gli altri esseri viventi, a cui li accomuna il corpo, la res extensa, ma da cui li distingue la capacità di pensare e la coscienza, la res cogitans, per cui non fanno parte della natura, ma vi agiscono come attori sulla scena di un teatro. La res cogitans, che condividono con Dio, li rende superiori a tutti gli altri viventi e li autorizza a considerare che tutti i viventi non umani siano stati creati per soddisfare le loro esigenze, per cui hanno il diritto di utilizzarli ai propri fini. Su questa concezione antropocentrica si è fondato lo sfruttamento crescente delle risorse naturali che ha consentito di finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e che, in poco più di due secoli, ha progressivamente aggravato la crisi ecologica fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana. Sulla base di questa concezione, che accresce le iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi, vegetali e animali, la sinistra ha ritenuto che la crescita delle merci prodotte di anno in anno costituisse la premessa per realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani.

 

Le conseguenze di questa concezione antropocentrica sono sotto gli occhi di tutti, a eccezione dei politici di destra e di sinistra, degli economisti, degli imprenditori e dei sindacati. La crescita della produzione di merci ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili, in particolare quelli di fonti fossili, accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, in particolare le emissioni di anidride carbonica, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica tossiche e non tossiche (le plastiche) non metabolizzabili dalla biosfera. La riduzione delle disponibilità delle risorse non rinnovabili ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo dove insistono i giacimenti più ricchi. I consumi delle risorse rinnovabili hanno superato la loro capacità di rigenerazione annua e per sostenere la loro crescita economica i popoli ricchi ne accaparrano quantità crescenti per sostenere i loro sprechi, sottraendo ai popoli poveri il necessario per vivere. Dal 2008 la globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale, che è indispensabile per continuare a far crescere l’economia in questa fase storica, ha strozzato la crescita economica e i costi dei tentativi di ripresa, sino ad ora fallimentari, sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri continuano ad essere privati del necessario per vivere, per cui sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre e a sottoporsi a sofferenze inenarrabili nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.

 

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un’estensione della sopraffazione della specie umana sulla terra in quanto organismo vivente e su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente, in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani. Le conseguenze più gravi della crisi ecologica e della crisi economica vengono pagate e saranno pagate in misura sempre maggiore dai più poveri tra gli esseri umani. Solo una maggiore equità tra la specie umana e le altre specie viventi consente di accrescere l’equità tra gli esseri umani. Una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani si può realizzare soltanto abbandonando l’antropocentrismo che caratterizza la concezione occidentale del mondo e sviluppando una concezione del mondo biocentrica. Questo è il primo elemento di una nuova declinazione dell’uguaglianza rispetto all’interpretazione che ne ha dato storicamente, per 250 anni, la sinistra.

 

Un secondo elemento che caratterizza l’iniquità insita nella concezione dell’eguaglianza sviluppata dalla sinistra può essere riassunto con questa formulazione: non si può fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi sull’iniquità nei confronti delle generazioni a venire. I debiti pubblici accumulati dalla seconda metà del novecento per sostenere lo stato sociale sono il frutto di un patto non scritto, ma condiviso dalla destra e dalla sinistra, per accrescere il benessere materiale delle classi subalterne senza intaccare i profitti delle classi dominanti. Hanno garantito la crescita economica e la pace sociale a spese di chi non era ancora nato. Le politiche keynesiane, che ne sono state il suggello, hanno cancellato la consapevolezza che i debiti monetari contratti per continuare a far crescere la produzione e la domanda di merci nelle fasi in cui si inceppa, sono gli epifenomeni di debiti contratti nei confronti della natura e delle generazioni future. Se la spesa pubblica in deficit ha svolto questa funzione in passato, nella fase attuale crea più problemi di quanti ne risolva. A livello ambientale perché la produzione di merci a livello mondiale eccede già le capacità del pianeta di fornirle le risorse di cui ha bisogno e di metabolizzare i suoi scarti, per cui spingerla ulteriormente non può che aggravare la crisi ecologica fino al collasso. A livello sociale perché il sovraconsumo delle risorse che ha indotto, ha creato per le giovani generazioni prospettive di vita peggiori di quelle dei loro padri e dei loro nonni. Una nuova declinazione dell’uguaglianza, che consenta di superare questi problemi, richiede lo sviluppo delle tecnologie che riducono il consumo di risorse per unità di prodotto, ovvero una decrescita selettiva e guidata degli sprechi. Questo non è soltanto l’unico modo di creare occupazione, e quindi di restituire un futuro desiderabile ai giovani, ma l’occupazione che si crea in questo modo è utile perché riduce il consumo di risorse e paga i suoi costi d’investimento con i risparmi che consente di ottenere. Fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi senza prendere in considerazione le conseguenze negative che può scaricare sulle generazioni future, come ha fatto la sinistra, è una scelta della massima iniquità. Per superarla occorre riscoprire uno dei fondamenti della cultura contadina. I vecchi contadini piantavano, come lascito ai loro nipoti, alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti e lo facevano perché da bambini avevano mangiato frutti di alberi che erano stati piantati per loro dai loro nonni.

 

Un terzo elemento generatore d’iniquità che occorre rimuovere dall’interpretazione storica data dalla sinistra all’eguaglianza, è la convinzione che le diseguaglianze tra le classi sociali nei Paesi ricchi e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si misurino sostanzialmente con le differenze di reddito monetario. Tutte le statistiche sulla crescita della povertà su cui gli intellettuali di sinistra fondano le loro critiche alla concezione economica oggi dominante, che definiscono neo-liberismo, si fondano su dati monetari. In realtà il reddito monetario può essere considerato una misura adeguata della ricchezza soltanto nelle società che hanno finalizzato l’economia alla produzione di merci, cioè di oggetti e servizi fatti per essere venduti allo scopo di far crescere il profitto di chi li ha prodotti. Soltanto nelle società che finalizzano il lavoro umano non alla soddisfazione dei bisogni della vita, ma alla crescita del profitto, e fondano i rapporti sociali sulla competizione. In queste società l’autoproduzione di beni e i rapporti fondati sulla solidarietà e la collaborazione sono disprezzati e banditi, perché riducono la necessità di comprare e quindi fanno crescere di meno i profitti. Solo se si accetta questo sistema di valori e si pensa che tutto ciò che serve si può solo comprare, si può ritenere che le diseguaglianze si misurino con le differenze di reddito. Le merci sono indispensabili perché nessuno può autoprodurre tutto ciò di cui ha bisogno e nessuna comunità può essere totalmente autosufficiente. Ma le merci non possono soddisfare tutte le esigenze umane e, se tutto ciò che risponde a un bisogno si deve comprare, accrescono la dipendenza dal mercato, riducono l’autonomia delle persone e delle comunità, inducono a identificare il benessere col consumismo, lacerano i rapporti sociali fondati sulla solidarietà. Un sistema economico che si proponga di migliorare il benessere degli esseri umani e a ridurre le diseguaglianze non si lascia ingabbiare nella dimensione monetaria. Non trascura l’importanza del benessere materiale e si propone di creare le condizioni per cui tutti possano accedervi, ma sa che il benessere dipende in misura ancora maggiore dalla tutela dei beni comuni, dei più deboli, della bellezza dei luoghi in cui si vive, della sovranità alimentare, dell’autosufficienza energetica, del sapere tradizionale, delle possibilità di coltivare la propria creatività e di soddisfare le proprie esigenze di conoscenza disinteressata. In una parola di tutto ciò che non si può comprare col denaro e dà un senso alla vita molto più di ciò che si può comprare.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani devono comprare le quantità crescenti di merci che vengono prodotte, altrimenti non si potrebbe continuare a produrne, per cui devono identificare il benessere con il consumismo. Il consumismo deve diventare l’asse portante del sistema dei valori. La realizzazione umana degli individui deve identificarsi con la loro capacità di spesa, con la quantità e la qualità degli oggetti e dei servizi che possono comprare. Coloro che hanno di più diventano il modello di coloro che hanno di meno. Ciò genera uno stato di insoddisfazione permanente anche in chi ha molto più della media, perché c’è sempre qualcuno che ha di più. Il consumismo ha operato, per riprendere le parole di Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica, appiattendo gli esseri umani sulla dimensione materialistica e cancellando dal loro orizzonte mentale la spiritualità. Il recupero della dimensione spirituale è indispensabile per percepire l’intreccio delle relazioni che legano tutte le specie viventi tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, come insegna la scienza dell’ecologia. Per sentire come una sofferenza propria la sofferenza di chi non ha il necessario per vivere, dei giovani che non trovano un’occupazione, di coloro che non sono ancora nati per le condizioni in cui troveranno ridotto il mondo, degli animali negli allevamenti industriali, il taglio di un bosco, l’annullamento della fotosintesi clorofilliana sotto i sudari d’asfalto e di cemento, il sacrificio della bellezza al profitto. La spiritualità non è la fede, anche se non ci può essere fede senza spiritualità. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. Fede è sustanza di cose sperate è argomento delle non parventi, ha scritto Dante. Non tutti hanno la fede, ma la spiritualità è un elemento costitutivo della natura umana. Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica, la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile che consente di recuperare la dimensione della solidarietà non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi, e di conferire alla pulsione all’eguaglianza una connotazione non solo politica, ma esistenziale.

 

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“Destra e sinistra addio”: Maurizio Pallante e una nuova declinazione dell’uguaglianza

“Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono”.

 

L’ultimo saggio di Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio, è in un certo senso il sedimentato culturale di un processo di evoluzione teorica cominciato dall’autore ormai vent’anni fa, con Le tecnologie d’armonia (Bollati Boringhieri, Torino 1994), e proseguito con l’elaborazione della sua «decrescita felice», che si caratterizza per i richiami all’autoproduzione e alla proposta di riduzione selettiva di tutte quelle merci che non sono beni, e che in alcun modo possono diventarlo.

 

Da decenni Pallante critica il modo di produzione industriale della società tecnologico-capitalista, che si sta dirigendo – ormai, forse, senza alcuna possibilità di recupero – verso la catastrofe. Tuttavia in questa sua ultima fatica, non si limita ad osservare gli aspetti critici della razionalità economica occidentale, ma si spinge fino al cuore. Al centro.

 

E spingersi al centro significa mettere in discussione le categorie culturali e politiche che hanno creato le condizioni per considerare positivamente l’attuale modo di produzione industriale, responsabile di una crescita economica – con annesso disastro ambientale – senza precedenti. E le categorie fondamentali di cui si parla sono quelle della destra e della sinistra. Parole, queste, che negli ultimi duecento anni hanno distinto chi riteneva le diseguaglianze tra gli esseri umani costitutive e naturali (destra), e chi al contrario le considerava di origine sociale, e quindi riducibili con accorgimenti politici ed economici adeguati (sinistra).

 

Il saggio Destra e sinistra addio si manifesta al momento opportuno. E non solo, si badi, perché la politica italiana (ma è forse diverso altrove, nel vasto mare occidentale?) palesa una mediocrità costitutiva, ma proprio perché destra e sinistra operano ovunque sulla base di una comune valutazione positiva del modo di produzione industriale, ch’è ormai giunto al capolinea. Entrambe considerano le rivoluzioni industriali un progresso rispetto al passato, salvo poi distinguersi quanto alla modalità di distribuzione dei benefici. Entrambe hanno concorso a spingere masse di persone dalle campagne alle città, trasformando milioni di contadini in milioni di proletari al servizio del grande capitale. La storia ha poi mostrato che le politiche della destra sono più efficaci per far crescere l’economia e la competizione di quelle di sinistra. E i risultati di questa razionalità sventurata sono, ormai, sotto gli occhi di tutti.

 

Ma veniamo al saggio. Per capirne appieno il senso è necessario intanto riflettere sul titolo. Dire Destra e sinistra addio non equivale a sostenere che la destra è uguale alla sinistra. D’altronde lo stesso autore mette più volte in risalto le differenti pulsioni: quelle della destra alla disuguaglianza, e della sinistra all’uguaglianza. Ma la pulsione all’uguaglianza, è questo un nodo cruciale, non è prerogativa assoluta della sinistra. Pallante afferma a ragione, infatti, che la pulsione all’uguaglianza preesiste alla sinistra e le sopravviverà.

 

A partire da questa considerazione, diventa fondamentale allora soffermarsi sul sottotitolo del saggio: Per una nuova declinazione dell’uguaglianza. È appunto qui il segreto: l’uguaglianza. L’uguaglianza oltre la sinistra.

 

Questa impostazione, per essere compresa appieno, richiede una riconsiderazione ontologica del tutto. Necessita di un ripensamento delle relazioni in senso orizzontale non solo fra esseri umani, bensì anche fra esseri umani e contesto naturale (di cui l’essere umano fa parte). L’uomo non è più il signore della terra, ma è un modo d’essere fra altri modi d’essere che compartecipano all’unico essere.

 

Pallante nota, allora, come per ripensare la società in modo ecologicamente sostenibile, sia fondamentale mettere in discussione l’antropocentrismo che caratterizza l’occidente in senso violento.

 

Maurizio Pallante

Maurizio Pallante

 

In queste pagine, mi pare si aprano spazi nuovi, utopie che baluginano all’orizzonte e che – richiamandosi esplicitamente a una spiritualità costitutiva dell’essere – creano le condizioni per un ripensamento cosmocentrico della cultura, della società, della politica e del mercato.

Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono, ripartendo dal singolo che non si pone più su un piedistallo rispetto al contesto. E quel singolo-in-relazione è il medesimo a cui si rivolge anche Papa Francesco nella sua Laudato si’: «bisogna operare il bene, dal momento che il male esercitato sul mondo è male fatto a se stessi». Tutto è in relazione. Perché l’essere è tutto, e niente è fuori dall’essere.

 

Questa nuova visione del mondo è troppo grande e complessa per poter essere espressa e compresa politicamente dalle categorie di destra e di sinistra. Qui c’è di più. C’è quella visione del mondo che si sottrae alla volontà di sopraffazione per lasciarsi dire ancora, ancora e ancora da una parola polisemica, che spalanca spazi di poesia. Quella poesia del vivere in comunione col creato e con la natura a cui tutti noi afferiamo, senza distinzione.

 

In questo senso – e per molti altri, che ognuno di voi saprà indicare – Destra e sinistra addio è un libro che si manifesta in un tempo opportuno. Perché se ci sarà ancora la possibilità di un domani, destra e sinistra dovranno appartenere necessariamente a un dolorosissimo passato.

Alessandro Pertosa

Fonte: Italiachecambia.org

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Decrescita felice e sobrietà liberante

Charlie Chaplin in \

Il suo libro sostiene che “destra” e “sinistra” sono categorie politiche superate. Che cosa significa questo per la nostra società?

«Destra e sinistra sono le concretizzazioni storiche di due pulsioni insite nell’animo umano: quella all’ineguaglianza e alla competizione, e quella all’uguaglianza e alla collaborazione. Pur condividendo l’idea che lo scopo dell’economia sia la crescita della produzione di merci, si sono scontrate sui criteri per far crescere l’economia e per suddividere i redditi monetari tra le classi sociali: il mercato per la destra, l’intervento dello Stato per la sinistra. Oggi l’economia finalizzata alla crescita è arrivata al capolinea: richiede più risorse di quante gliene possa fornire il pianeta, emette più scarti di quanti ne possa metabolizzare, impoverisce sempre di più i poveri, fomenta guerre, distrugge i legami sociali e ha causato una gravissima crisi morale perché ha fatto diventare il denaro lo scopo della vita. Le opzioni politiche della destra e della sinistra non sono in grado di farci uscire da questa crisi: occorre, come ha scritto papa Francesco, una rivoluzione culturale, un nuovo inizio».

 

Un altro concetto centrale del suo libro è la “decrescita felice”: cosa intende esattamente con questa espressione?

«Per definire la decrescita, occorre precisare che la crescita economica non è l’aumento dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico, perché il parametro con cui si misura, il Pil, è un valore monetario che si ottiene sommando i prezzi dei prodotti e dei servizi finali scambiati con denaro, cioè delle merci. Ma non tutte le merci sono beni: gli sprechi di energia, il cibo che si butta, l’abuso di medicine fanno crescere il Pil, ma non soddisfano nessuna esigenza. E non tutti i beni di cui abbiamo bisogno si possono soltanto comprare. Alcuni si possono autoprodurre o scambiare reciprocamente sotto forma di dono. Il munus, che costituisce il legame sociale, il cum, delle comunità.

 

«Questi beni non fanno crescere il Pil. La decrescita non va confusa con la recessione, cioè con la diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci, ma si realizza sia con la riduzione selettiva e guidata della produzione di merci che non sono beni, sia con l’aumento dei beni che non passano attraverso la mercificazione. La decrescita non si limita a proporre di mettere il segno meno davanti al Pil, ma introduce elementi di valutazione qualitativa nel fare umano. Richiede innovazioni tecnologiche motivate eticamente, finalizzate a ridurre l’impronta ecologica dell’umanità, insieme a cambiamenti degli stili di vita. È un diverso sistema di valori che consente di distribuire più equamente le risorse della terra tra i popoli e di avere un atteggiamento più rispettoso nei confronti di tutti i viventi. La decrescita non è un modello di società codificata, ma un processo che ognuno può contribuire a costruire con le sue scelte di vita. Non è una meta da raggiungere, ma è una strada da percorrere, ognuno secondo le sue possibilità e le sue inclinazioni, anche in modi differenti nelle varie fasi della vita».

 

Che rapporto c’è tra la “decrescita felice” e la “sobrietà liberante” di cui parla papa Francesco nella “Laudato si’”?

«Il consumismo crea una dipendenza patologica dalle cose e offre solo soddisfazioni temporanee a una sofferenza interiore che alimenta in continuazione e può essere curata solo dalla sobrietà. Ma se ci si libera dal bisogno indotto di acquistare tutte le novità che vengono immesse sul mercato si fa diminuire la domanda e si inceppa il meccanismo economico della crescita: si favorisce una decrescita selettiva. La connessione tra la sobrietà e la decrescita non sfugge al papa, che individua nella crescita economica la causa della crisi ecologica e delle ingiustizie tra i popoli, auspicando una decrescita dei popoli ricchi al fine di favorire una crescita diversa dei popoli poveri. Diversa, non basata sul consumismo e il super sfruttamento delle risorse. La sobrietà, e la decrescita che ne consegue, sono due tasselli fondamentali e interconnessi della rivoluzione culturale auspicata da papa Francesco».

A cura di Luca Fiorani

Fonte: cittanuova.it

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DALL’ATTUALITÀ ALLA PROSPETTIVA DEL FUTURO:

Pubblico di seguito l’intervento che l’amoco Paolo Farinella ha tenuto lo scorso 3 marzo a Genova durante la presentazione del mio ultimo libro.

Ringrazio Paolo per l’attenzione che rivolge a me e ai miei scritti e prima ancora per l’impegno che mette nel cambiamento quotidiano verso una società migliore per tutti. Dove nel tutti è contemplato anche il Creato.

Maurizio Pallante

 

 

Presentare Maurizio Pallante è diventato difficile perché c’è il rischio di cadere nell’agiografico o nella derisione dei circoli liberal-conservative che considerano la crescita come il vangelo del loro futuro perché non corrono mai il rischio d’interrogarsi sul presente. Parlare, quindi di «decrescita» nell’accezione filosofico morale in cui ne parla Pallante – perché non è semplicemente un «crescere meno, ma un crescere giusto e meglio –, è antimoderno, spesso bucolico e forse anche infantile. Roba da non addetti ai lavori. Voglio correre questo rischio perché conosco Maurizio Pallante di cui orgogliosamente mi considero amico.

Ascoltandolo privo di superiorità saccente, ma con il cuore dell’apprendimento, ho maturato la mia anima e il mio pensiero e gli sono grato per avermi spalancato le porte e l’interesse a un mondo che è rimasto – a mio modesto avviso – l’unico possibile. Devo essere grato a Manuela Cappello e al marito Giacomo Grappiolo che per primi me lo hanno presentato, invitandolo a Genova. Se nei tempi iniziali della globalizzazione, si gridava lo slogan «Un altro mondo è possibile» per opporsi a un selvaggio assalto alla diligenza dei diritti, della terra, dell’energia, dell’acqua e delle risorse, oggi, anche con l’aiuto di Maurizio Pallante, siamo obbligati a prendere coscienza che «l’unico mondo possibile» è quello proposto da lui.

Oggi egli ha il conforto di avere avuto anche l’imprimatur ufficiale di Papa Francesco che nell’enciclica «Laudato si’» fa sue, in modo ufficiale, le prospettive della decrescita, capovolgendo il punto di vista: non più partendo dalla crescita «cieca e sorda», ma dai bisogni reali delle persone e dalla finitezza della terra che quindi, come tutte le cose finite, non può crescere all’infinito, ma deve essere accudita, custodita e protetta. In sostanza sia il Papa sia Maurizio mettono in guardia dal rischio, ormai in fase avanzata di pericolo, di fare saltare il tappo, dando origine a una deflagrazione – un Big Ben – alla rovescia che ha già messo in cantiere la distruzione totale non solo del Pil, ma della terra stessa.

Paradossalmente, il libro che presentiamo, «Destra e sinistra, addio», non ha come obiettivo la decrescita o i meccanismi per raddrizzare il mondo distorto dai comportamenti umani, ma è un libro che oserei definire il più spirituale di quelli che Maurizio ha scritto. Puntuale nei dati, cifre, numeri, fonti e storia, è un libro diverso. Penso che i suoi libri precedenti, compreso «Monasteri per il terzo Millennio», fossero funzionali a questo che – vedi il titolo! – sembra occuparsi di politica quotidiana, «Destra e sinistra Addio», ma occorre stare attenti a non cadere nel tranello. Sono convinto che l’editore l’abbia fatto apposta: chi si sente ancora di sinistra e chi persiste ancora a considerarsi di destra sono toccati da questa perentoria affermazione di «addio», dichiaratamente esequiale. Come «addio»?

Nel sec. XI, parlando de suo tempo, Bernardo di Chiaravalle, riferendosi alla Roma antica e quindi alla civiltà del suo tempo, disse in un celebre verso, reso famoso, modificato, da Umberto Eco: «Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus – Roma antica esiste solo per il nome (è un ricordo): noi conserviamo, infatti, soltanto i nudi nomi» (Bernardo di Chiaravalle, De contemptu mundi, lib. 1, v. 952). Se vogliamo uscire dal nominalismo senza sussistenza, occorre fare ricorso al «pensiero» e questo libro è un opera di pensiero e di memoria.

Di pensiero perché è alta filosofia non perché s’interroga «si Deus sit», ma perché ci riporta al centro della questione esistenziale, attraverso un linguaggio avvolgente, un discorrere piano e accattivante: siamo sicuri di essere vivente e non già avviati a morte certa? Cosa vuol dire esistere, vivere e progettare? Il libro, pur a questo livello, si legge bene, senza fatica, ma con riposo interiore, misto a sofferenza per non essere stato, in quanto lettore, consapevole per tempo del potere di modificare le condizioni. Pensare è l’arte difficile per oggi e lo sarà ancora di più domani e per questo urge porsi la domanda filosofica e spirituale insieme del «Dove ci troviamo in questo momento?», o se volete «Qual è il senso della nostra esistenza adesso e quale prospettiva di vita ciascuno di noi ha della propria e della storia collettiva?».

Non siamo giunti a questo punto dell’economia sociale perché siamo caduti dal pero, ma perché siamo arrivati ai nodi che sono conseguenza di scelte storiche. Il libro fa anche questo: ci restituisce la memoria perché ci riporta a vivere le premesse storiche, politiche, economiche e sociali che hanno generato le conseguenze che ci stanno condannando in modo irreversibile. Memoria non come ricordo di un passato da rimpiangere, ma come assunzione di un compito che si estende nel tempo, ieri, oggi, domani, passando di generazione in generazione. In questa prospettiva diventa «memoriale», cioè sentirsi fisicamente parte viva e protagonista, responsabile nel bene e colpevole nel male di tutto ciò che accade qui o all’emisfero sud o al polo nord o all’equatore, luoghi cioè che non abbiamo mai visto prima.

Già alle pp. 10-17, cioè nel «Prologo» poche pennellate sono sufficienti per capire il senso storico della caduta del muro di Berlino, di cui sentiamo la polvere addosso ancora oggi; segue il cambio del nome del PCI; alla nota 1 di p. 13 troviamo la notizia di due e-mail segrete spedite da Tony Blair a Bush, in cui un anno prima della decisione, il liberale di S. M. Britannica si dichiarava pronto ad entrare in guerra a fianco degli Usa. Oggi lo stesso Blair sostiene di avere sbagliato e che la guerra contro l’Iraq era illegittima perché basata su false prove costruite a tavolino.

La parte caratteristica del libro sono i riquadri, vere perle a se stanti, che allargano l’orizzonte: nel primo alle pp. 18-20 si parla dello scenario della Germania vista con gli occhi della Volkswagen e di quello della Cina: tutti e due questi giganti dell’economia di crescita sono condannati a diminuire i posti di lavori umani, sapendo che questa scelta inciderà sulla domanda, per cui devono a tutti i costi crescere, ma potranno farlo solo con i robot. Se però diminuiscono i posti di lavori, ci sarà meno ricchezza e quindi caleranno i compratori con la conseguenza che i robot aumenteranno la produzione, ma Germania e Cina non sapranno a chi vendere quello che producono.

Nel riquadro delle pp. 158-160 si descrive il passaggio «dalla Democrazia Cristiana a Forza Italia», attraverso meccanismi e processi che ci fanno capire noi stessi e le ragioni delle nostre scelte anche partitiche, anche di voto, e, io aggiungo, anche stupide e superficiali. Alle pp. 80-81 facciamo la scoperta di cosa sia accaduto in Sardegna nel secolo scorso: cosa è stato distrutto e per quali ragioni. L’ultimo riquadro, il più lungo, alle pp. 208-221 ci offre un sintetico ed efficace riassunto con chiave di lettura dell’enciclica «Laudato si’» di Papa Francesco.

Il sottotitolo del libro è la chiave di esso: «Per una nuova declinazione dell’uguaglianza». La declinazione è la struttura grammaticale delle lingue più importante dopo il verbo, perché riguarda il soggetto e la sua funzione all’interno della frase, del periodo, del discorso, di un testo. In greco, in latino, in tedesco, in polacco, in russo soccorrono i casi, nelle lingue neolatine, invece, la declinazione è segnata dall’uso diversificato dell’articolo.

In un tempo in cui la disuguaglianza è diventata la norma dell’economia di crescita e la conseguenza del mercato e delle politiche capitaliste e neocapitaliste, parlare di declinazione dell’uguaglianza significa centrare la prospettiva sui bisogni reali delle persone che vivono all’interno di un tessuto relazionale comunitario come misura e controllo delle disponibilità delle risorse della terra.

Persona e creato portano nel loro DNA l’uguaglianza perché l’uno e l’altro possono esistere solo in funzione reciproca nel rispetto e non nella sopraffazione, nella mutua reciprocità e non nella supremazia di uno sull’altra. Uguaglianza non è un mito ideologico di stampo comunista, ma il metodo economico che si basa su un substrato spirituale perché ciascuno prende coscienza di essere parte di un tutto vivo e mai padrone senza confini d’ingordigia e voracità. Uguaglianza intesa come dimensione della giustizia che è fondamento della democrazia basata sui diritti e sui doveri (Cost. it., artt. 2 e 3), cioè sul senso di responsabilità politica che il singolo vive e assume nei confronti della propria comunità umana dove vive e realizza il proprio progetto di vita e il proprio sogno di futuro.

L’uguaglianza è sinonimo di proporzione tra individuo, comunità di persone, umanità e cosmo. Se ci deve essere un vantaggio, questo deve appartenere al cosmo che è affidato alla nostra cura e al nostro discernimento, memori del mandato biblico – per i credenti – di Gen 2,15 che nel testo ebraico ha questo tenore: «Dio pose Àdam nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse/sorvegliasse/preservasse». Il primo verbo ebraico «‘abad» è applicato a chi presta servizio a Dio o all’ambasciatore del sovrano nel senso di «servo», titolo onorifico; il secondo verbo «shamàr» è usato nella Bibbia per «custodire/osservare» i comandamenti di Dio, quindi assenso religioso.

In questa prospettiva – è il compito filosofico che Maurizio Pallante svolge egregiamente – occorre ripensare il rapporto tra religione ed economia (cap. 7, pp. 145-157) su «Religione oppio dei popoli?», che può instaurare un rapporto perverso fino alla sudditanza della prima dalla seconda, se accetta compromessi come la storia dimostra. Oppure sul rapporto tra «povertà e ricchezza» (cap. 6, pp. 127-144) dove si dimostra la superiorità delle «relazioni umani solidali [che] sono più importanti del denaro per la felicità delle persone» (p. 127, nota 1); la scoperta del dono come fondamento di una economia «altra» che è il modo per porre un rimedio alla pazzia della crescita senza fine che è l’irrazionale che rende impossibile ogni possibilità umana.

Grazie Maurizio Pallante per questo bel «dono» che ci obbliga, sì!, a declinare l’importanza che ciascuno di noi può essere, se vuole, per il mondo intero.

Paolo Farinella, prete.

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Lunedì 7 Marzo sarò ospite a “Pane Quotidiano” su rai3

Un buon uso del mezzo televisivo o di internet sarà Lunedì 7 marzo, alle ore 12.45, quando sarò ospite della trasmissione di Rai3 «Pane Quotidiano».
Intervistato da Concita De Gregorio, e dove presenterò il mio nuovo libro Destra e sinistra addio.

 

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Destra e sinistra addio. Presentazione a Milano

Martedì 9 febbraio 2016, alle ore 18.30 presso la libreria Mondadori Megastore di via Maghera, 28 a Milano, presenterò il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza” ed. Lindau.

Sono molto felice di questa presentazione sulla città di Milano. Principalmente perché sarò accompagnato da Duccio Demetrio che stimo da tempo e di cui mi onoro di essere accompagnato.

In secondo luogo presentare “destra e sinistra addio” a Milano –  abbiamo un bel circolo presente sul territorio – in clima di elezioni primarie o comunque in un periodo elettorale, significa contribuire fattivamente a ravvivare il sano dibattito politico. Sono convinto che i grandi cambiamenti partano sempre dal basso e sarebbe interessante e davvero rivoluzionario se qualche componente politica desiderasse approfondire e far sue le tematiche della decrescita felice.

Secondo voi saranno capaci di raccogliere questa grande sfida? Non lo so. Certamente sarebbe una grande rivoluzione, in positivo per tutti i milanesi.

Intanto io vado a proporre le nostre idee e a contaminare quante più persone possibili. Vi aspetto in tanti.

Passateparola.

 

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La forza rivoluzionaria della spiritualità nella società materialista e consumista

Pubblico un Estratto dal libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 2016, pagg. 198 – 203

Il denaro può essere considerato il fondamento del sistema dei valori soltanto da persone che hanno smarrito la dimensione spirituale e non riescono a vedere nella vita altra prospettiva dalla soddisfazione delle esigenze materiali, che accomunano gli esseri umani alle altre specie animali, con similitudini sostanziali nella classe dei mammiferi a cui essi appartengono. La spiritualità è una dimensione esistenziale esclusivamente umana, caratterizzata da pulsioni, riflessioni, sentimenti, slanci e desideri razionalmente incomprensibili, che non attengono alla sopravvivenza degli individui e della specie. È la sfera in cui si manifesta l’etica e la facoltà di pensare. La spiritualità consente agli esseri umani di sviluppare la consapevolezza delle relazioni e delle interdipendenze che li connettono a tutte le altre forme di vita. Questa consapevolezza, che può essere più o meno sostenuta razionalmente, o più o meno istintiva, è il presupposto che può indurre ad agire per evitare che se ne sbrindelli la trama. La spiritualità si manifesta ai livelli più alti nei rapporti fondati sull’amore, un’intimità reciproca, una condivisione di scelte esistenziali così profonda che travalica la razionalità e si realizza col dono incondizionato del proprio tempo e delle proprie capacità alle persone amate. Un dono gratuito, che non prevede restituzioni e può assumere forme diverse senza mutare la sua sostanza. È il rapporto tra genitori e figli, tra amanti, tra persone appartenenti a una stessa comunità religiosa. È la pulsione interiore che induce a dedicare la propria vita ad alleviare le sofferenze di coloro che sono stati colpiti con particolare durezza nella psiche, nel corpo, dalle vicende della vita, da sofferenze causate dalle condizioni di deprivazione affettiva o di miseria materiale in cui sono cresciute. È la motivazione che induce il contadino anziano a piantare alberi di cui non mangerà i frutti, memore di aver mangiato da bambino i frutti di alberi piantati da chi sapeva che non ne avrebbe mangiati. Il dono gratuito e incondizionato del tempo, che sostanzia i legami interpersonali fondati sull’amore, veniva indicato in latino con la parola donum. Oltre che con questo tipo di dono, gli esseri umani possono rafforzare le connessioni che definiscono il loro essere come con-essere, per riprendere una  definizione di Alessandro Pertosa (nel libro Dall’economia all’euteleia. Scintille di decrescita e di anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014), instaurando tra loro rapporti di scambio basati su un dono del tempo che implica la restituzione, non immediata né scadenzata, né quantificata rigorosamente, basata sulla fiducia reciproca. In latino questo tipo di dono veniva definito munus. Sul dono del tempo che implica la restituzione si fondano i rapporti comunitari, ovvero i legami sociali tra nuclei di persone che si conoscono, vivono in uno spazio territoriale delimitato, generalmente un paese, e si scambiano vicendevolmente lavori e servizi senza la mediazione del denaro. Mentre gli scambi mediati dal denaro sono impersonali e implicano una competizione tra i contraenti – chi vende punta a ricavare la somma più alta possibile, mentre chi compra tende a spuntare il prezzo più basso – gli scambi basati sul dono reciproco del tempo implicano la condivisione e la solidarietà. Se uno dei contraenti non rispetta la regola implicita del controdono, rompe il rapporto di fiducia e si autoesclude dai legami comunitari. Benché non siano mai stati codificati formalmente, i rapporti comunitari fondati sul munus, presentano le stesse caratteristiche di solidarietà in tutti i luoghi del mondo e in tutte le epoche storiche. E presentano anche le stesse forme di deviazione, consistenti nella possibilità di utilizzare il dono come strumento di dominio da parte di chi è in grado di fare e fa doni così grandi che non possono essere restituiti da chi li riceve. Tuttavia deviazioni di questo tipo si possono realizzare solo in presenza di grandi diseguaglianze, che costituiscono di per sé un impedimento sostanziale alla realizzazione di rapporti autenticamente comunitari. Oltre l’ambito degli scambi interpersonali che avvengono nel quotidiano, in alcune scadenze con una forte connotazione simbolica per la vita delle comunità, il munus assume connotazioni corali, presentandosi sotto la forma di una solidarietà collettiva che coinvolge non solo i rapporti degli esseri umani tra loro, ma anche con i luoghi del mondo in cui vivono e da cui traggono ciò di cui hanno bisogno per vivere. Si pensi ai momenti della vita contadina tradizionale in cui si raccoglievano i frutti del lavoro e dell’attesa di un anno: la mietitura del grano, la trebbiatura e la vendemmia, in cui tutte le famiglie a turno si aiutavano vicendevolmente. Momenti di solidarietà e di festa che sono finiti quando l’economia del dono è stata sostituita dalla mercificazione e i raccolti sono stati effettuati da persone pagate per farlo: contoterzisti, braccianti e giornalieri.

Mentre le relazioni fondate sul munus sono inevitabilmente limitate al momento in cui avvengono, le relazioni fondate sul donum sono in grado di superare i limiti spazio-temporali che connotano la condizione umana e di creare legami tra le generazioni attraverso l’arte. Le opere d’arte, in tutte le loro forme – musica, pittura, scultura, architettura, letteratura – sono lasciti di bellezza e di armonia aggiunte dagli esseri umani alla bellezza e all’armonia originarie del mondo, arricchiti da ogni generazione e tramandati sotto forma di dono inevitabilmente gratuito alle generazioni successive, fino a quando la modernità ha trasformato l’arte da dono in merce, sottoponendola, come tutte le merci, alle regole della pubblicità, del prezzo, del profitto e della deperibilità.

La spiritualità non coincide con la fede, ma ne è il presupposto. La fede è la manifestazione della spiritualità di chi crede in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi», ha scritto Dante nel canto XXII del Paradiso, ai versi 64-65. La spiritualità si manifesta anche senza la fede, ma senza spiritualità non c’è fede e la religione diventa un guscio vuoto, privo di vita. Oppure uno strumento di potere utilizzato per dominare e condizionare i comportamenti delle persone più deboli.

Chi mantiene viva la sua spiritualità non può condividere i valori di un sistema economico e produttivo fondato su un antropocentrismo devastante nei confronti degli ambienti, violento nei confronti di tutti gli altri viventi, ingiusto nei confronti dei popoli poveri e delle generazioni future. La spiritualità è la forza più grande che si possa contrapporre alle iniquità generate da questo sistema. Il recupero della spiritualità in una società che tende ad annullarla per concentrare ogni interesse sugli aspetti materiali della vita, è una metanoia, un cambiamento del modo di pensare e del sistema dei valori, una liberazione interiore dai condizionamenti che inducono a credere che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci e il senso della vita si identifichi col potere d’acquisto e col possesso di cose. Riducendo l’importanza del denaro e valorizzando le relazioni umane fondate sul dono incondizionato che caratterizza i rapporti d’amore e sul dono che implica la reciprocità, la spiritualità smonta i pilastri su cui il modo di produzione industriale ha omologato i pensieri e le aspirazioni degli esseri umani per rendere i loro comportamenti funzionali al raggiungimento dei suoi fini. È una scelta esistenziale che nella vita quotidiana assume la connotazione della disobbedienza civile, perché induce a non lasciarsi irretire dalle sirene del consumismo, ma a dedicare più tempo agli affetti che al lavoro, a leggere un libro, ad ascoltare un brano musicale, a visitare un museo invece di lasciarsi ipnotizzare dagli spettacoli d’intrattenimento. Perché induce a comprare poco senza pensare che si stia rinunciando a qualcosa. Comprare poco è una rinuncia solo per chi crede che il senso della vita sia comprare sempre di più. In realtà è una scelta liberatoria, che affranca dallo stato di insoddisfazione permanente cui si condanna chi ripone le sue aspettative di realizzazione umana nell’acquisto di cose, perché inevitabilmente le economie finalizzate alla crescita immettono in continuazione sui mercati cose nuove per non dare mai tregua al desiderio di acquistarle, consentendo di appagarlo solo nel breve intervallo di tempo necessario a mantenerlo vivo. E quel breve intervallo di tempo in cui il desiderio di acquistare viene appagato provvisoriamente dall’acquisto, non è nemmeno sereno perché, se si crede che il benessere consista nel possesso di cose, non si può evitare che venga corroso dal confronto con chi ne possiede di più. Solo un cambiamento del sistema dei valori consente di capire a quale mortificazione della propria umanità si condanni chi, lasciandosi irretire dalle sirene del consumismo smarrisce la propria spiritualità, a quale vuoto esistenziale sia destinato chi non percependo che il suo essere è costituito dal tessuto delle relazioni che lo connettono agli altri esseri viventi, non conosce più la solidarietà: non è capace a darne e non ne riceve.

 

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“Destra e sinistra addio” intervista di Filippo La Porta su Left

Allego qui di seguito una mia intervista su LEFT e ringrazio di vero cuore l’amico Filippo La Porta per la disponibilità, l’onestà intellettuale e la professionalità.

Di seguito l’intervista:

intervista su LEFT

 

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“Destra e sinistra addio” su Il Fatto Quotidiano

Allego di seguito la pagina de “ilFattoQuotidiano” di oggi, in cui è pubblicato uno stralcio del mio ultimo libro “Destra e sinistra addio” ed. Lindau

Buona lettura

Anticipazione da FATTO

24 gennaio 2016 a Roma anteprima nazionale di “Destra e sinistra Addio”

Domenica 24 gennaio 2016, alle ore 10.30 presso Citta’ Dell’ Altra Economia in Largo Dino Frisullo, 00153 Roma, presenterò il mio ultimo libro : “Destra e sinistra addio. per una nuova declinazione dell’uguaglianza” ed. Lindau, 2016

L’incontro, organizzato dal circolo MDF di Roma, si terrà nella sala convegni della Città dell’Altra Economia – largo Dino Frisullo (Metro B Piramide)

modera Filippo La Porta – saggista, giornalista e critico letterario italiano

introduce Lucia Cuffaro – vice pres. Movimento per la Decrescita Felice

qui di seguito l’evento facebook da condividere

Vi aspetto in tanti.