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La febbre del Pianeta è salita ancora nel 2015

Il rapporto “Lo Stato del Clima nel 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi evidenzia le allarmanti prospettive che si presenteranno a livello globale a seguito degli impressionanti record raggiunti da una serie di indicatori climatici.

 

Il 2015 è stato inequivocabilmente l’anno più caldo mai registrato per la Terra con 1,0 °C in più rispetto all’era preindustriale, le concentrazioni dei 3 principali gas a effetto serra (diossido di carbonio, metano e protossido di azoto) hanno raggiunto livelli record, l’innalzamento delle acque dei mari ha toccato il suo livello più alto con un incremento di 3,3 mm e la quantità di precipitazioni è aumentata di 70 mm rispetto alla media degli anni ’90, ma al contempo il Pianeta ha anche sofferto di severe siccità su una superficie complessiva doppia rispetto al 2014: dall’8% al 14%.

Questi ed altri impressionanti risultati dei 50 diversi indicatori climatici dell’anno trascorso che continuano a riflettere le tendenze coerenti con la febbre della Terra che aumenta, sono contenuti nel Rapporto “State of the Climate in 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi, coordinati dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e publicato il 2 agosto 2016 nel Supplemento speciale del Bollettino della Società Meteorologica Americana.
Credo che il tempo di chiamare il medico sia stato nei decenni trascorsi – ha dichiarato Deke Arndt, a capo della Divisione il monitoraggio del clima della NOAA  e tra i principali autori del Rapporto – Ora siamo di fronte ha una molteplicità di sintomi“.

Ecco in sintesi i 10 risultati più eclatanti contenuti nel Rapporto 2015.
1. La temperatura globale della superficie terrestre è stata la più alta mai registrata. Nel 2015 il record stabilito appena l’anno prima è stato battuto con un +0,1 °C, superando per la prima volta di 1 °C i livelli di temperatura media globale dei livelli preindustriali.
2. Le temperature superficiali dei mari sono risultate egualmente le più alte mai registrate. La temperatura media marina è stata di 0,33-0,39 °C sopra la media, superando la media precedente di 0,10-0,12 °C. La più alta temperatura rispetto alla media si è verificata nella parte nord-est del Pacifico e nel Pacifico equatoriale orientale, mentre il nord Atlantico e il sud-est della Groenlandia sono rimasti più freddi rispetto alla media. Queste acque molto più calde hanno notevolmente aumentato l’attività dei cicloni tropicali.
3. La quantità di calore immagazzinata dagli oceani è stata la più alta mai registrata. A livello globale il calore accumulato negli strati superiori degli oceani è stato il più alto mai registrato. Gli oceani assorbono circa il 90% del calore in eccesso della Terra.
4. Il livello globale dei mari è il maggiore mai registrato. Si è raggiunto nel 2015 il nuovo record di 70 mm rispetto alla media del 1993, l’anno che segna l’inizio del record misurato con i satelliti. Nel corso degli ultimi due decenni, il livello del mare è aumentato ad un tasso medio di 3,3 mm all’anno, con i più alti tassi di crescita negli Oceani Pacifico e Indiano occidentale.
5. Il fenomeno di El Niño è stato di eccezionale portata. Oltre ad elevare le temperature globali, l’El Niño ha sollevato il livello del mare, ha intensificato l’attività del ciclone tropicale del Pacifico e provocato siccità nelle parti dei tropici con crescità di incendi e rilascio di anidride carbonica.
6. La concentrazione di gas serra ha raggiunto il livello più alto mai registrato. Il biossido di carbonio (CO2), il metano e il protossido di azoto, sono saliti a valori record durante il 2015. La concentrazione media annua di CO2, secondo l’osservatorio di Mauna Loa (Hawaii), è risultata pari a 400,8 parti per milione (ppm), superando per la prima volta il limite simbolico delle 400 ppm, con 3.1 ppm oltre il 2014, il più grande incremento annuo osservato nel corsi di 58 anni.
7. I cicloni tropicali sono stati ben al di sopra della media generale. Ci sono stati 101 cicloni tropicali in tutti i bacini oceanici nel 2015, ben al di sopra della media 1981-2010 di 82 tempeste. Il Pacifico centrale ha visto succedersi 26 cicloni. Anche la parte occidentale del Nord del Pacifico, e i bacini settentrionali e meridionali dell’Oceano Indiano hanno registrato un’intensa attività. Viceversa, l’attività dei cicloni nel nord Atlantico è stata più debole del 68% del valore medio del periodo 1981-2010, con l’uragano Joaquin che ha coperto quasi la metà di tale valore.
8. Il ghiaccio marino artico ha avuto la sua minima estensione. Nel febbraio 2015, la massima estensione del ghiaccio marino nell’Artico è stato del 7% inferiore della media 1981-2010, il livello più piccolo mai registrato. Le temperature della superficie terrestre artica è stata superiore di 2,8 °C a quella dei primi anni del 20° secolo.
9. I ghiacciai hanno continuato la loro contrazione. L’anno scorso ha segnato il 36° anno consecutivo del contrarsi dei ghiacciai alpini a livello globale. I numeri sono del tutto in linea con quelli rilasciati nello Studio del Politecnico federale di ZurigoContrasting climate change impact on river flows from high-altitude catchments in the Himalayan and Andes Mountains” e pubblicati lo stesso giorno sulla PNAS, secondo cui sull’Himalaya e sulle Ande gli effetti del riscaldamento globale saranno addirittura opposti: il primo nei prossimi decenni sarà soggetto a inondazioni sempre più frequenti, mentre il secondo vedrà acuirsi la siccità.
10. I fenomeni estremi hanno raggiunto la loro maggiore intensità.

schema cambiamenti climatici

Fonte: regioneambiente.it

 

 

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Il cemento mangia 8 chilometri di costa all’anno

I dati del rapporto Ambiente Italia di Legambiente, che intanto con Goletta Verde sta verificando lo stato delle acque

roberto giovannini

In Italia ci sono oltre 7mila km di coste con bellezze storiche, ambientali, geomorfologiche. Ma oggi il 51% dei litorali italiani è stato trasformato da case e palazzi e la cifra, senza un cambio delle politiche, è destinata a crescere: negli ultimi decenni al ritmo di 8 km all’anno, più della metà dei paesaggi costieri sono stati letteralmente `mangiati´ da palazzi, alberghi e ville. Non solo cemento: un terzo delle spiagge è interessato da fenomeni erosivi in espansione; 14.542 sono le infrazioni accertate nel corso del 2014 tra reati inerenti al mare e alla costa in Italia, 40 al giorno, 2 ogni km. L’habitat marino è costantemente messo alla prova dall’inquinamento, con il 25% degli scarichi cittadini ancora non depurati (40% in alcune località) e ben 1.022 agglomerati in procedura di infrazione europea. Il 45% dei prelievi realizzati da Goletta Verde nel 2015 è risultato inquinato, mentre la plastica continua a invadere spiagge e fondali marini. Solo il 19% della costa (1.235 km) è sottoposta a vincoli di tutela. Questa la fotografia della nostra costa scattata dal rapporto Ambiente Italia 2016, a cura di Legambiente e edito da Edizioni Ambiente, presentato oggi a Roma.

 

 

 

A peggiorare la situazione ci si mette il consumo di suolo: dei 6.477 km di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, 3.291 km sono stati trasformati in modo irreversibile. Nello specifico 719,4 km sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 918,3 sono stati colonizzati dai centri urbani. La diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, interessa 1.653,3 km, pari al 25% dell’intera linea di costa. Tra le regioni, la Sicilia ha il primato assoluto di km di costa caratterizzati da urbanizzazione meno densa ma diffusa (350 km), seguita da Calabria e Puglia; la Sardegna è invece la regione più virtuosa per quantità di paesaggi naturali e agricoli ancora integri.

 

Dal 1988 ad oggi, sono stati trasformati da case e palazzi ulteriori 220 km di coste, con una media di 8 km all’anno, cioè 25 metri al giorno. Tra le regioni più devastate la Sicilia con 65 km, il Lazio con 41 e la Campania con 29. Nelle aree costiere, secondo i dai Istat, nel decennio 2001-2011 sono sorti 18mila nuovi edifici. Ben 700 edifici per chilometro quadrato sia in Sicilia che in Puglia, 600 in Calabria ma anche 232 per chilometro quadrato in Veneto, 308 in Friuli Venezia Giulia, 300 in Toscana, Basilicata e Sardegna.

 

Ad emergere dal rapporto è anche un’aggravante che si va ad aggiungere alle tante criticità: quella dei cambiamenti climatici «con impatti significativi sugli ecosistemi, sulla linea di costa e sulle aree urbane», sottolinea Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. Una sfida, aggiunge, che «deve portare a una nuova e più incisiva visione degli interventi. Occorre rafforzare la resilienza dei territori ai cambiamenti climatici e spingere verso la riqualificazione e valorizzazione diffusa del patrimonio costiero». Le ragioni della fragilità delle aree costiere italiane risiedono in problemi idrogeologici e nelle conseguenze di urbanizzazioni, sia legali che abusive. A questo si aggiungono fenomeni meteorologici come temporali, alluvioni e esondazioni che si stanno ripetendo con nuova intensità e frequenza.

 

I cambiamenti climatici insomma rendono i nostri territori costieri più fragili e mettono in pericolo le persone, insieme al fenomeno dell’innalzamento dei mari. Tra le minacce, l’erosione costiera: oggi più di un terzo delle nostre spiagge è in erosione e il futuro sembra ancora più arduo per l’innalzamento del livello del mare e l’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi. In molti casi si è intervenuti con la costruzione di scogliere aderenti alla costa che hanno, di fatto, solo spostato il problema, col risultato che oggi abbiamo interi tratti di costa coperti da scogliere artificiali, che non permettendo il ricambio idrico e la sedimentazione delle sabbie, contribuiscono al progressivo abbassamento dei fondali e ai possibili crolli. La tecnica del ripascimento dei litorali è più efficace ma anche più costosa.

 

«Per il futuro delle aree costiere – ha dichiarato Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente – abbiamo la possibilità di ispirarci e scegliere un modello che si è già rivelato di successo. Quello delle aree protette e dei territori che hanno scelto di puntare su uno sviluppo qualitativo e che stanno vedendo i frutti positivi anche in termini di crescita del turismo». In Italia ci sono 32 aree protette nazionali con misure di tutela a mare (pari a oltre 2milioni e 800mila ettari di superficie protetta a mare), 27 aree marine protette (o riserve marine), 2 parchi marini sommersi, 2 perimetrazioni a mare nei parchi nazionali e un santuario internazionale per la tutela dei mammiferi marini. Inoltre oggi sono individuate ben 54 aree marine di reperimento dove istituire riserve marine.

Fonte: LaStampa.it

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Beni e merci: è così difficile da capire?

La crescita economica, occorrerà ripeterlo fino allo sfinimento ma non basterà, non è l’aumento della quantità dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico e produttivo in un periodo di tempo determinato, perché il parametro con cui si misura, il Prodotto Interno Lordo, è un valore monetario che si calcola sommando i prezzi degli oggetti e dei servizi a uso finale (consumi e investimenti) scambiati con denaro, cioè comprati e venduti, in quel periodo di tempo. La crescita del PIL è pertanto l’incremento percentuale di quel valore monetario rispetto al valore monetario del PIL calcolato nell’identico periodo temporale precedente.

La parola che definisce gli oggetti e i servizi scambiati con denaro è merci; la parola che definisce la compravendita di oggetti e servizi è commercio; il luogo in cui avvengono gli scambi commerciali è il mercato.

La motivazione che induce le persone a comprare un oggetto o un servizio è l’utilità, vera o presunta, oggettiva o soggettiva, che pensano di ricavarne. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene.

I concetti di bene e di merce indicano pertanto due caratteristiche diverse di un oggetto o di un servizio. Diverse non significa contrarie, perché il contrario di merce non è bene, ma oggetto o servizio non scambiato con denaro, e il contrario di bene non è merce, ma oggetto o servizio che non offre alcuna utilità. Nello stesso oggetto non possono coesistere due caratteristiche contrarie, ma sono compresenti normalmente due o più caratteristiche diverse. Una merce non può non essere comprata e un bene non può essere inutile o dannoso, ma un oggetto o un servizio che si acquista perché offre un’utilità, reale o presunta, è un bene che si ottiene sotto forma di merce.[1]

Ci sono però anche beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, o per scelta perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono, o perché non si possono comprare: i beni relazionali, o perché appartengono alla comunità di cui si fa parte e si ha diritto a usufruirne: i beni comuni. I beni autoprodotti, i beni scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, i beni comuni non non rientrano nella categoria delle merci. Di contro, alcuni oggetti e servizi che si comprano e rientrano, pertanto, nella categoria delle merci, non hanno nessuna utilità, per cui non sono beni: gli sprechi dovuti a inefficienza tecnologica o organizzativa, come l’energia che si disperde dagli edifici mal coibentati (almeno il 70 per cento di quella che si utilizza), e il cibo che si butta.

Un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci, che identifica il benessere con la crescita del PIL, cioè con l’aumento del valore monetario delle merci a uso finale scambiate con denaro in un periodo di tempo determinato, non può, per definizione, non tendere a ridurre con tutti i mezzi possibili la produzione di beni che non sono merci e aumentare la produzione di merci anche quando non sono beni. Cancella dall’ambito del sapere condiviso il saper fare necessario all’autoproduzione, valorizza la concorrenza tra gli individui, distrugge le comunità e le famiglie, usa la scuola, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa per persuadere che il modo migliore di avere un bene è comprarlo, identifica il benessere col possesso di cose e l’innovazione col miglioramento, mercifica i beni comuni, riduce il lavoro alla produzione di merci in cambio di un reddito, eliminando dall’immaginario collettivo la possibilità di lavorare per produrre almeno una parte dei beni di cui si ha bisogno, trasforma il denaro da mezzo per acquistare i beni che si possono avere solo sotto forma di merci a fine della vita.

Se si ritiene che la crescita della produzione di merci abbia superato la capacità della biosfera di fornirle le risorse che le sono necessarie e di metabolizzare gli scarti che genera, che sia la causa delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili di cui ha bisogno, della crisi climatica, delle iniquità crescenti tra le classi sociali, tra i popoli, tra la specie umana e le altre specie viventi, non si può non operare per contrastarla e rallentarla, strappandole la maschera seducente con cui nasconde il suo vero volto agli occhi dell’umanità. Questo è l’obbiettivo che si è posto il variegato mondo di coloro che sostengono la necessità di una decrescita. Su come si possa raggiungere le opinioni non sono concordi, come inevitabilmente accade nelle fasi nascenti di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, a cui ognuno approda a partire dalla sua formazione culturale e dai suoi precedenti orientamenti politici. Questo non è un limite, ma un valore paragonabile alla biodiversità che, attraverso il confronto consente di depurare il paradigma culturale nascente dai residui del paradigma culturale precedente insiti in ogni percorso individuale. Solo così è possibile farlo emergere progressivamente dal bozzolo in cui è rinchiuso, come le statue che, secondo Michelangelo, erano contenute nel blocco di marmo da cui lo scultore le libera a forza di togliere.

In relazione alle ipotesi formulate dal movimento della decrescita felice, che costituisce una di queste componenti, Serge Latouche ha scritto e ribadito più di una volta lo stesso concetto, più o meno con le stesse parole:

 

[…] bisogna intendersi esattamente su che cosa debba decrescere. Per la maggioranza degli obiettori di crescita la risposta è che bisogna relegare in secondo piano l’indice-feticcio della crescita, cioè il PIL. È ciò che sostiene esplicitamente Maurizio Pallante, autore di un manifesto della decrescita felice. Per Pallante è necessario ridurre la produzione dei beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nel calcolo del PIL e aumentare quella dei beni e servizi non commerciali che non vi rientrano: autoproduzione, economia del dono e della reciprocità. Dal canto loro, gli adepti della semplicità volontaria e, in Francia i discepoli di Pierre Rabhi, sostengono una posizione analoga, ma meno precisa, con lo slogan «meno beni, più legami». Meno precisa perché dal punto di vista economico il legame può essere considerato come produttore di servizi non commerciali, e dunque di beni (nel senso di Pallante).[2]

 

In questo passaggio, tratto dal suo ultimo libro pubblicato in Italia, La decrescita prima della decrescita (2016), Latouche ha ripreso quanto aveva già scritto più volte nel corso degli ultimi anni. La prima volta nel 2011, nella prefazione alla traduzione in francese del libro di Maurizio Pallante, La decrescita felice, dove si era espresso così:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice la decrescita è un concetto positivo, che può essere definito come la diminuzione del PIL, ovvero la riduzione dei consumi dei beni e dei servizi scambiati con denaro (merci), ma è felice, perché al contempo comporta un aumento di beni e servizi non mercificati (beni), che procurano vere soddisfazioni. Ne risulta che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete.[3]

 

Nel 2012, nel libro Per un’abbondanza frugale aveva ribadito il concetto:

 

È vero che alcuni obiettori di crescita, come Maurizio Pallante in Italia, sembrano pensare che la decrescita – e in primo luogo quella del PIL – sia compatibile con l’economia capitalistica di mercato, ma questa non è l’idea della maggioranza dei decrescenti. Per Pallante, fondatore della corrente della decrescita felice, la decrescita è un concetto positivo che può essere definito con la riduzione del PIL, cioè la diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso c’è un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Questa concezione tende a ridurre la rottura della crescita all’obiettivo dell’autoproduzione, il che la avvicina all’idea della semplicità volontaria.[4]

Nel 2013, nella prefazione del libro di Mauro Bonaiuti La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, non aveva perso l’occasione per ribattere il chiodo:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice, non si tratta tanto di uno slogan provocatorio che vuole indicare la rottura con la società della crescita, quanto di un obiettivo già applicabile a un contenuto concreto. La decrescita secondo Pallante è un concetto positivo che può essere tradotto in riduzione del PIL, cioè in diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso corrisponde a un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso.[5]

 

In realtà, sin dalla prima formulazione di questa teoria nel libro La decrescita felice, pubblicato nel 2005 e ristampato più volte, la decrescita è stata definita come una riduzione del PIL che si può ottenere non con la diminuzione della produzione e del consumo di merci, ma delle merci che non sono beni, oltre che con l’aumento della produzione e dell’uso di beni autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, quando sia vantaggioso farlo, non solo per ridurre i costi, il consumo di risorse e le emissioni di scarti, ma anche per recuperare un saper fare che riduce la dipendenza dal mercato e per ricostruire i legami sociali lacerati dall’onnimercificazione. La riduzione del consumo di merci che non sono beni e l’aumento dell’uso di beni che non sono merci comportano una riduzione dell’impatto ambientale, un miglioramento della qualità della vita e una riduzione del bisogno di denaro, che consente una riduzione del tempo di lavoro e un aumento del tempo che si può dedicare alle relazioni umane e alla creatività. Una decrescita del PIL ottenuta in questo modo aumenta il benessere: è una decrescita felice.

La riduzione della produzione delle merci che non sono beni, cioè degli sprechi e dei danni che ne conseguono, richiede lo sviluppo di tecnologie con una finalità diversa da quelle che accrescono la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo e, di conseguenza, la produzione totale di merci. Queste tecnologie sono finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, secondo la concezione della scienza formulata in modo organico per la prima volta nella storia dell’occidente dal filosofo Francesco Bacone all’inizio del XVII secolo. Non a caso sono per lo più derivazioni a uso civile di innovazioni tecnologiche sviluppate in ambito militare. Le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale per unità di prodotto sono invece finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui i processi produttivi utilizzano le risorse della terra, in modo da non eccedere la sua capacità bioriproduttiva annua, da ridurre le emissioni biodegradabili a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana, da eliminare le emissioni non biodegradabili. Lo sviluppo di queste tecnologie non soltanto costituisce l’unico modo di accrescere significativamente l’occupazione nei paesi industrializzati, ma crea occupazione in lavori utili (perché creare occupazione non è un valore in sé, anzi può essere un danno se si crea nelle fabbriche delle armi o in processi produttivi devastanti). Le innovazioni tecnologiche finalizzate a una decrescita selettiva e governata degli sprechi costituiscono una proposta di politica economica e implicano un cambiamento di paradigma culturale. Qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

L’aumento della produzione di beni che non passano attraverso la mercificazione è una proposta che presenta profonde affinità con le riflessioni di Ivan Illich sul vernacolare

«Vernacolare» – ha scritto Illich nel 1978 – viene da una radice indogermanica che contiene l’idea di «radicamento» e «dimora». È una parola latina che, nell’epoca classica, indicava qualsiasi cosa allevata, coltivata, tessuta o fatta in casa. […] Io vorrei oggi resuscitare in parte l’antico significato del termine. Abbiamo bisogno di una parola che esprima in maniera immediata il frutto di attività non motivate da considerazioni di scambio; una parola che indichi quelle attività, non legate al mercato, con cui la gente soddisfa dei bisogni, ai quali nel processo stesso del soddisfarli dà forma concreta.[6]

 

E nel 1979, nel saggio Le tre dimensioni della scelta pubblica, pubblicato nello stesso volume, ha ribadito:

 

[…] io propongo […] l’idea di lavoro vernacolare: attività non pagate, che garantiscono e incrementano la sussistenza, ma totalmente refrattarie a ogni analisi basata sui concetti dell’economia formale. «Vernacolare» è un termine latino, che ha assunto oggi una connotazione quasi esclusivamente linguistica. Nell’antica Roma, fra il 500 a. C. e il 600 d. C., esso indicava qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune, valore che una persona poteva proteggere e difendere, ma non poteva né vendere né acquistare sul mercato. Io suggerisco di recuperare questo semplice termine, per contrapporlo alle merci […].[7]

 

L’autoproduzione di beni e gli scambi non mercantili basati sul dono e la reciprocità sono atti di disobbedienza civile che riducono la dipendenza dal mercato, restituiscono dignità culturale al saper fare che costituisce una caratteristica esclusiva della specie umana, consentono di superare l’appiattimento sulla dimensione materialistica e di valorizzare la spiritualità, possono mettere in crisi l’economia della crescita facendo diminuire la domanda di merci. Anche su questo versante qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

La proposta di ridurre la produzione e il consumo di merci che non sono beni implica l’introduzione di criteri di valutazione qualitativa del fare umano. Non significa credere che il meno sia meglio di per sé, ma scegliere il meno quando è meglio, che è cosa ben diversa dalla proposta di una generica riduzione della produzione e del consumo di merci. La rivalutazione delle capacità di autoproduzione di beni per ridurre la dipendenza dal mercato e ricostruire i legami sociali distrutti dall’onnimercificazione, è un atto di ribellione alla riduzione degli esseri umani a fantocci nevrotici che non sanno fare nulla, non conoscono nulla e sono capaci soltanto di comprare, buttare via e ricomprare.

Fraintendimenti così sostanziali della decrescita felice possono derivare soltanto da una lettura poco attenta, a cui sono sfuggite alcune parole, o dal fatto di dare inconsapevolmente all’aggettivo diverso il significato di contrario e dedurne che le merci non possono essere beni e i beni non possono essere merci. Solo se si pensa che le merci non possano essere beni si può confondere – non una volta per disattenzione, ma ripetutamente – la riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni con la riduzione della produzione e del consumo di merci tout court. Solo se si pensa che i beni non possono essere merci si può dire che «i beni sono i beni e i servizi non mercantili». Mentre chiunque sa che molti beni – cioè oggetti e servizi utili – si possono comprare e alcuni beni, quelli che richiedono tecnologie evolute e competenze professionali specializzate, si possono solo comprare.

Non so, e poco importa sapere, se la ripetuta deformazione e banalizzazione della decrescita felice da parte di Latouche dipenda da una lettura superficiale o da un’incomprensione. Quello che conta è dove va a parare: alla critica del fatto che in questa versione «la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete» (prefazione a La décroissance heureuse, 2011); «Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso» (prefazione al libro di Mauro Bonaiuti, La grande transizione, 2013). A parte il fatto che dedurre proposte operative dalle riflessioni teoriche non è un limite ma un merito, anche quando siano incomplete o discutibili, a cosa serve denunciare la gravità dei problemi ambientali, economici e sociali causati dalla crescita senza porsi il problema di come bloccarla? Senza

impegnarsi a formulare proposte concrete che vanno dal sovvertimento dei valori su cui ha uniformato gli stili di vita delle popolazioni nei paesi industrializzati, al superamento dell’antropocentrismo e di una concezione della tecnologia come strumento di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, alla definizione di un paradigma culturale alternativo, all’elaborazione di proposte di politica economica finalizzate ad avviare una decrescita che non sia austerità e pauperismo, ma consenta di realizzare condizioni di vita più soddisfacenti proprio perché si propone di ridurre gli sprechi e non i beni, di rivalutare capacità mortificate e di ripristinare relazioni umane solidali?

Poiché la crescita consiste in una progressiva estensione della mercificazione a un numero sempre maggiore di aspetti della vita di un numero sempre maggiore di esseri umani, le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci hanno bisogno che si perda la percezione della differenza tra il concetto di bene e il concetto di merce, affinché il maggior numero delle persone ritenga che tutto ciò di cui ha bisogno si possa solamente comprare e che il benessere si misuri con la crescita della quantità di cose che si possono comprare. Nella lingua inglese la differenza tra i due concetti è ormai sparita. Sui dizionari la parola merce è tradotta con la parola goods, che significa beni. Di conseguenza uno dei pilastri su cui non si può non fondare la rivoluzione culturale della decrescita è proprio il ripristino della differenza tra il concetto di merce e il concetto di bene. Solo se non si fonda su questa pietra angolare si può pensare che possa essere ridotta a uno slogan, a una «parola bomba», buona per titillare la vanità di quegli intellettuali di sinistra che si piccano di essere anticonformisti e di non farsi intortare dall’ideologia del potere, ma inutile per sterzare il volante e cambiare la direzione di marcia di una macchina che si sta dirigendo a tutta velocità verso il precipizio.

Maurizio Pallante

[1]          Aristotele scrive nella Metafisica, libro V (1017b 25 – 1018b 10): «Opposti si dicono i contraddittori, i contrari, i relativi, privazione e possesso, gli estremi da cui si generano e si dissolvono le cose. Opposti si dicono anche quegli attributi che non possono trovarsi insieme nello stesso soggetto, che pure li può accogliere separatamente […]. Il grigio e il bianco, infatti, non si trovano insieme nello stesso oggetto, perciò gli elementi da cui derivano sono opposti.

Contrari si dicono quegli attributi differenti per genere che non possono essere presenti insieme nel medesimo oggetto, quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito del medesimo genere, quegli attributi che maggiormente differiscono nell’ambito dello stesso soggetto che li accoglie…

Diverse secondo la specie si dicono quelle cose che pur appartenendo allo stesso genere, non sono subordinate le une alle altre, quelle che pur appartenendo allo stesso genere, hanno una differenza, quelle che hanno una contrarietà nella loro sostanza». Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, pp. 217-221, traduzione di Giovanni Reale.

[2]    Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 15

[3]    Maurizio Pallante, La décroissance hereuse, Nature & Progrès, Namur 2011, Prefazione di Serge Latouche, pag. 16.

[4]    Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 76

[5]    Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2013, Prefazione di Serge Latouche, pp. 13-14. Può essere utile precisare en passant che i concetti di bene e di merce non sono sovrapponibili ai concetti di valore d’uso e di valore di scambio utilizzati da Marx, perché una merce, quando è prodotta da un artigiano per un cliente che gliela chiede in cambio di denaro è un valore d’uso (un bene ottenuto sotto forma di merce). Secondo Marx, il modo di produzione preindustriale può essere sintetizzato dalla formula «merce – denaro – merce». È nel modo di produzione industriale che le merci diventano valori di scambio, prodotti non finalizzati a soddisfare un’esigenza espressa da qualcuno, ma a far crescere attraverso le vendite il valore monetario investito per produrli. Pertanto il modo di produzione industriale può essere sintetizzato con la formula «denaro – merce – denaro», dove la quantità di denaro alla fine del processo deve essere maggiore di quella all’inizio.

[6]    Ivan Illich, Nello specchio del passato, Red edizioni, Como 1992, pp. 122-23

[7]    Ibidem, pagg. 97-98.

 

 

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ISPRA, pesticidi nel 63,9% delle acque superficiali

Sono dati preoccupanti quelli che emergono dall’edizione 2016 del Rapporto nazionale pesticidi nelle acque pubblicato dall’ISPRA. I dati si riferiscono al biennio 2013 – 2014 e registrano una significativa crescita dei punti di controllo risultati contaminati. Tra le sostanze spesso al di sopra dei limiti figura anche il glifosato, erbicida da alcuni mesi al centro dell’attenzione anche a livello europeo. Allarmante appare anche la diffusione dei così detti ‘cocktail’, miscele di sostanza diverse i cui effetti sull’uomo sono di difficile valutazione.

La rete di rilevamento dei pesticidi

Il rapporto pubblicato dall’ISPRA si basa su una serie di dati ottenuti tramite campionamento delle acque superficiali e sotterranee e raccolti dalle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente. Per il 2014 in particolare l’indagine ha preso in considerazione 3.747 punti di campionamento sui quali sono stati eseguiti 14.718 campioni. Nella analisi sono state ricercate un totale di 365 sostanze differenti, andando in questo modo ad ampliare lo spettro di ricerca rispetto ai dati del 2012 (335 sostanze ricercate). Nel biennio 2013 – 2014 i campioni eseguiti sono stati complessivamente 29.220 e su questi sono state eseguite 1.351.718 misure analitiche. Nelle analisi sono state rilevate 224 sostanze diverse con una prevalenza degli erbicidi; in forte crescita rispetto al passato la presenza di fungicidi e insetticidi anche per effetto del più ampio spetto di sostanze ricercate.

Per interpretare correttamente i dati occorre anche sottolineare come la rete di monitoraggio non sia uniforme sul territorio. Di due regioni, la Calabria ed il Molise, non si dispone di dati mentre sono 5 le regioni per le quali non sono disponibili dati sulle acque sotterranee. Va inoltre evidenziato che nelle cinque regioni della pianura padano-veneta si concentra quasi il 60% dei punti di monitoraggio della rete nazionale. Infine va precisato che la presenza di diversi pesticidi è stata cercata solo da alcune regioni determinando in questo modo dati non del tutto omogenei sul territorio nazionale.

Cala l’uso di fitosanitari

Nella categoria dei pesticidi rientrano da un punto di vista normativo sia prodotti fitosanitari (su cui esistono dati storici sulle vendite) che biocidi (su cui mancano dati completi).

Nel solo 2014 in Italia sono state utilizzate in agricoltura circa 130 mila tonnellate di prodotti fitosanitari contenenti oltre 400 tipi di sostanze differenti. Rispetto ai dati del 2001 l’uso di questi prodotti è in calo del 12% a testimonianza di come l’impiego di sostanze chimiche in agricoltura avvenga oggi in maniera più cautelativa. A fronte di questi numeri però i dati mostrano come il numero di punti contaminati da pesticidi tra il 2003 ed il 2014 sia aumentato del 20% per le acque superficiali e del 10% per le acque sotterranee. Dati solo in apparenza contraddittori che, fa notare l’ISPRA, si spiegando tenendo conto di due fattori: da un lato in molte regioni del centro – sud sono emerse con ritardo contaminazioni prima non rilevate; dall’altro la presenza di pesticidi nell’ambiente è influenzata dalla persistenza di queste sostanza nel tempo e dalla caratteristiche dei terreni attraversati.

Pesticidi nelle acque

Per le acque superficiali il rapporto ISPRA indica come nel 63,9% dei 1.284 punti di monitoraggio sia stata rilevata la presenza di pesticidi. In 274 punti di monitoraggio, pari al 21,3% del totale, i dati rilevati sono risultati superiori ai limiti di qualità ambientali. Tra le sostanze che più di frequente hanno superato i limiti figura anche il glifosato assieme al suo metabolita AMPA. Geograficamente la presenza di pesticidi nelle acque superficiali raggiunge punte del 90% in Toscana e del 95% in Umbria.

Non molto migliore è la situazione delle acque sotterranee che, almeno da un punto di vista geologico, dovrebbero risultare più protette dalla contaminazione. Nel 31,7% dei 2.463 punti di controllo considerati le acque sono risultate contaminate da pesticidi. In 170 punti di rilevamento, pari al 6,9% del totale, sono stati rilevati valori superiori ai limiti. Friuli Venezia Giulia (68,6%) e Sicilia (76%) le regioni in cui si registra il più alto tasso di contaminazione delle acque sotterranee.

Il glifosato e le miscele di pesticidi

Come accennato il glifosato è tra i pesticidi più frequentemente individuati nelle acque superficiali con valori spesso al di sopra dei limiti. Su questo erbicida è in corso una dura battaglia politica a livello comunitario tra paesi che ne chiedono la messa al bando (tra cui l’Italia) ed altri che invece ne vorrebbero estendere l’autorizzazione all’uso anche per i prossimi anni. Forti dubbi sull’uso del glifosato come erbicida in agricoltura sono stati sollevati da uno studio dell’International Agency for Research on Cancer (IARC) che nel 2015 ha classificato la sostanza come probabilmente cancerogena.

Altro dato che viene sottolineato nel rapporto ISPRA sui pesticidi riguarda le miscele di diverse sostanze (fino a 48) rilevate in alcuni campioni. Mentre i livelli delle singole sostanze prese individualmente possono essere inferiori ai limiti, ben poco si sa dell’azione combinata di cocktail di sostanze sulla salute umana. Molti studi suggeriscono che la tossicità di una miscela di sostanze sia sempre superiore a quella delle singole componenti e che di conseguenza una corretta stima del rischio dovrebbe prevedere limiti specifici.

Photo Credits | ISPRA

Fonte: Ecologie.com

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G7 e costi nascosti dei combustibili fossili

Alla vigilia del prossimo summit dei Capi di Stato e di Governo del G7 in Giappone (Ise-Shima, 26-27 maggio 2016), 82 organizzazioni di 30 Paesi (per l’Italia, l’Associazione Medici per l’Ambiente – ISDE), che rappresentano più di 300.000 medici, paramedici e professionisti della sanità pubblica, hanno sottoscritto un Documento dal titolo “Global Health Professionals Call for Transition Away from Coal”.

Considerato che all’odg del vertice ci sono anche le modalità per rafforzare le risposte efficaci per la salute pubblica e per garantire la fornitura di servizi sanitari per tutta la durata della vita degli individui, in linea gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile al 2030, deliberati dall’Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso settembre, si chiede di accelerare sull’uscita dal carbone quale fonte energetica, poiché l’impegno preso l’anno scorso al G7 in Germania di eliminare gradualmente le sovvenzioni alle fonti fossili entro la fine del secolo non costituisce una road map adeguata alle emergenze sanitarie che i cambiamenti climatici e l’inquinamento atmosferico stanno determinando a livello globale.
Viceversa, l’eliminazione dell’inquinamento atmosferico causato dalle centrali elettriche a carbone produrrebbe immediati effetti positivi sulla salute degli individui e risparmi notevoli per l’assistenza sanitaria. Inoltre, l’uscita dal carbone, si afferma nel documento, rallenterebbe i cambiamenti climatici, riducendo morti e malattie attuali e future connesse all’inquinamento, alle ondate di calore, agli incendi, alle inondazioni, alla siccità e alla malnutrizione.

hidden costs of our energy supply
Il tema dei costi nascosti dei combustibili fossili è stato pure oggetto di un Brief paper  (“The True Cost of Fossil Fuels: Saving on the Externalities of Air Pollution and Climate Change”), diffuso il 20 maggio 2016 dall’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA), secondo cui se si raddoppiasse al 2030 la quota di energie rinnovabili nel mix energetico globale si eviterebbero 4 milioni di morti all’anno e si risparmierebbero fino a 4.200 miliardi di dollari all’anno per le “esternalità” connesse alle spese per la salute, ovvero 15 volte di più delle spese che sarebbero necessarie per raddoppiare il “peso” al 2030 delle energie rinnovabili.

Il Brief sviluppa i risultati del Rapporto “REmap: Roadmap for a Renewable Energy Future” che IRENA aveva pubblicato in marzo.
Stiamo già vedendo che le fonti rinnovabili competono testa a testa con le fonti dei combustibile tradizionali e di vincere – ha affermato il Direttore del Centro di Innovazione e Tecnologia di IRENA, Dolf GielenQualora siano considerati tutti i costi e benefici, le energie rinnovabili diventano un’opzione ancora più attraente. Al fine di comprendere il vero costo dell’energia e prendere decisioni politiche di conseguenza, i costi esterni connessi con l’uso di combustibili fossili devono essere incorporati nei prezzi energetici”.

Il calo maggiore di inquinanti deriverebbe, secondo l’Agenzia, dal settore energetico, soprattutto per effetto della riduzione dell’uso di carbone, seguito dai trasporti, grazie al miglioramento della qualità dell’aria nelle città. In termini assoluti, a trarre i maggiori benefici per i risparmi in termini di salute, sarebbero Cina, India, Indonesia e Stati Uniti, insieme a tutti i Paesi in via di sviluppo dove l’uso delle bioenergie tradizionali verrebbe progressivamente eliminato.

Tuttavia, con le attuali politiche e piani nazionali vigenti, la domanda di combustibili fossili è destinata a crescere del 40% tra il 2010 e il 2030, aumentando così i livelli attuali di inquinamento dell’aria interna ed esterna, mentre raddoppiare la quota di energie rinnovabili nel mix energetico globale, ridurrebbe l’uso di carbone, petrolio e gas naturale, rispettivamente, del 36%, 20% e 15%.
Oggi, quattro dollari vengono spesi per sovvenzionare il consumo di combustibili fossili per ogni dollaro speso per sussidi alle energie rinnovabili – ha aggiunto Gielen – Con gli attuali prezzi ai minimi storici di petrolio, gas e carbone è ora più facile che mai per i governi apportare correzioni a questa situazione. Questo breve rapporto aiuta a chiarire il costo reale dell’energia, e così facendo, incoraggia l’adozione di politiche che permettano di incrementare l’implementazione delle energie rinnovabili“.

Fonte: Regioneambiente.it

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La siccità del mediterraneo orientale

Pubblicata sul Journal of Geophysical Research, la ricerca “Spatiotemporal drought variability in the Mediterranean over the last 900 years”, condotta dalla NASA rileva che la recente siccità che ha avuto inizio nel 1998 nella regione levantina del Mediterraneo orientale, che comprende Cipro, Israele, Giordania, Libano, Palestina, Siria e Turchia, è con ogni probabilità la peggiore siccità degli ultimi nove secoli.

Gli scienziati hanno ricostruito la storia della siccità del Mediterraneo, come parte dei lavori in corso per migliorare i modelli computerizzati di simulazione del clima, attraverso lo studio degli anelli degli alberi per stabilire le variazioni intercorse delle precipitazioni: anelli sottili indicano anni di siccità; mentre quelli larghi mostrano l’abbondanza d’acqua.
Oltre a identificare gli anni più aridi, il team di scienziati ha scoperto i modelli nella distribuzione geografica della siccità che forniscono un’ “impronta digitale” per identificare le cause sottese. Nell’insieme, i dati mostrano l’intervallo di variazione naturale dei periodi di siccità nel Mediterraneo, che permetterà agli scienziati di distinguere quelli più intensi determinati dal riscaldamento globale indotto dall’uomo.

La rilevanza e l’importanza dei cambiamenti climatici di origine antropica ci impone di comprendere l’intera gamma di variabilità naturale del clima – ha dichiarato Ben Cook, l’autore principale della ricerca e climatologo del Goddard Institute della NASA per gli Studi spaziali e del Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University di New York – Se osserviamo i recenti avvenimenti iniziamo a rilevare le anomalie che si trovano al di fuori di questo intervallo di variabilità naturale, allora possiamo dire con una certa sicurezza a che cosa assomiglia questo particolare evento o questa serie di eventi e quanto è stato il contributo dell’uomo nel determinare i cambiamenti climatici”.

Cook e i suoi colleghi hanno utilizzato i dati sugli anelli degli alberi dell’ “Old World Drought Atlas” per capire meglio la frequenza e la gravità delle siccità verificatesi nel Mediterraneo nel passato. Negli anni compresi tra il 1100 e il 2012, i ricercatori hanno scoperto che le siccità record testimoniate dagli anelli degli alberi corrispondono a quelle descritte nei documenti storici dell’epoca.
Dei dati OWDA gli scienziati si  erano avvalsi anche per spiegare la caduta dell’Impero Khmer e l’abbandono da parte della popolazione della città di Angkor (Cambogia).

La gamma di variabilità di periodi estremamente aridi o piovosi è piuttosto ampia, ma la recente siccità che ha colpito tra il 1998-2012 la regione orientale del Mediterraneo, e tuttora persiste, è di circa il 50% maggiore degli ultimi 500 anni e del 10-20% degli ultimi 900 anni.

mappa mediterraneo

Gennaio 2012. Le tonalità di marrone mostrano le riserve di acqua nella regione del Mediterraneo rispetto allo stoccaggio idrico medio del periodo 2002-2015.
I dati sono desunti dai satelliti GRACE (Gravity Recovery And Climate Experiment), missione congiunta della NASA e l’Agenzia spaziale tedesca) (Fonte: NASA/Goddard Institute).
La copertura di dati su una vasta area ha permesso al team di scienziati non solo di osservare le variazioni nel tempo, ma anche i cambiamenti geografici in tutta la regione.
In altre parole, quando nel Mediterraneo orientale c’è siccità, questa si verifica anche nell’Occidente?
La risposta è sì, nella maggior parte dei casi – ha sottolineato Kevin Anchukaitis, co-autore e scienziato del clima presso l’Università dell’Arizona di Tucson – Questo vale sia per l’attuale società che per le civiltà del passato, ovvero se una regione sta soffrendo le conseguenze della siccità, queste condizioni sono suscettibili di persistere in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è necessariamente possibile fare affidamento sulla ricerca di migliori condizioni climatiche in una regione piuttosto che in un’altra, così da avere la potenziale distruzione su larga scala dei sistemi alimentari, nonché potenziali conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche”.

I ricercatori, inoltre, hanno osservato che quando la parte settentrionale del Mediterraneo (Grecia, Italia, coste di Francia e Spagna) tende ad avere scarsità di precipitazioni, la parte orientale del Nord Africa è piovosa, e viceversa. Queste relazioni est-ovest e nord-sud hanno aiutato il team a capire quali siano le condizioni oceaniche  ed atmosferiche che portano a periodi secchi o umidi.

I due principali modelli di circolazione che influenzano il verificarsi di periodi siccitosi nel Mediterraneo sono la North Atlantic Oscillation (gennaio-aprile) ovvero la differenza di pressione tra l’Anticiclone delle Azzorre e la Depressione d’Islanda, e l’East Atlantic Pattern (aprile-giugno) che segnala le anomalie delle temperature dell’Atlantico orientale. Questi flussi d’aria descrivono come i venti e il tempo tendano a comportarsi a seconda delle condizioni oceaniche. Hanno fasi periodiche che evitano a lungo il formarsi di tempeste nel Mediterraneo e provocano il formarsi di aria più calda, con la conseguenza che l’assenza di piogge e le elevate temperature fanno aumentare l’evaporazione dai terreni e provocano siccità.
Questo studio dimostra che l’andamento di questo recente periodo di siccità della regione orientale del Mediterraneo è del tutto anomalo rispetto agli altri livelli record che si sono registrati nei secoli scorsi, indicando che quest’area risente già gli effetti del riscaldamento del Pianeta indotto dall’uomo – ha commentato Yochanan Kushnir, climatologo presso il Lamont Doherty Earth Observatory, non direttamente coinvolto nella ricerca – La variabilità dei periodi di eccezionale siccità intervenuti negli ultimi 900 anni costituisce un importante contributo che verrà utilizzato per perfezionare i modelli computerizzati per proiettare il rischio di siccità nel XXI secolo”.

La situazione non sembra allarmare troppo i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo Centro-occidentale, che continuano a far finta di niente, come se la questione non li riguardasse, salvo poi voler distinguere chi scappa per le guerre dai rifugiati climatici e disconoscere come la questione mediorientale abbia avuto una escalation anche a seguito della grave siccità che ha colpito quella che, storicamente, è stata la regione della “Mezzaluna fertile”.

In copertina:
Donne al lavoro nei campi del nord-est della Siria colpita da grave siccità che viene considerata una delle concause della grave crisi socio-economica del Paese.