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LE FABBRICHE RECUPERATE: UN NUOVO MODELLO D’IMPRESA SOLIDALE

di Nicolò Miotto

Il termine ‘impresa recuperata’ nacque nel 2001 nell’Argentina in preda alla grande crisi, quando molti imprenditori, per rispondere alla situazione di default in cui versava lo Stato argentino, decisero di attuare politiche di licenziamento, spingendosi in alcuni casi sino alla dismissione degli impianti industriali. Diversi lavoratori si organizzarono per occupare le fabbriche, impedendo così la svendita dei macchinari o la delocalizzazione delle imprese. Non si trattò però di una semplice occupazione: i lavoratori rimisero in moto la produzione, spesso riconvertendola in termini ecologici, integrandosi nel tessuto sociale e costituendosi in cooperative.

Uno dei casi più eclatanti di Ert (‘Empresas recuperadas por sus trabajadores’) è la ormai ex-Zanon. Fabbrica di ceramica aperta in Argentina da Luigi Zanon agli inizi degli anni ’80, l’impianto nel 2001 è stato occupato dai lavoratori, in risposta ai licenziamenti voluti dalla direzione della fabbrica. Nel 2004, per uscire dall’illegalità, gli operai si sono costituiti in cooperativa con il nome ‘FaSinPat’ (‘Fabrica Sin Patrones’). Questa esperienza innovativa ha un legame diretto con il territorio circostante ed in particolare con la popolazione indigena dei Mapuche. In un’intervista del 2013 Raúl Godoy, ex operaio della fabbrica, ha raccontato di questa interconnessione sociale ed economica: ‘un’idea è stata quella di lanciare la serie [di piastrelle] Mapuche in omaggio alle comunità mapuche di Neuquén che per solidarietà ci permettono di rifornirci dalle cave di argilla che si trovano nei loro territori. Si tratta di diversi tipi di piastrelle decorate con dei motivi tradizionali ideati dai disegnatori mapuche e poi serigrafati in fabbrica. Per noi è sia un modo per esprimere il nostro sostegno alle comunità native oppresse da centinaia di anni e sia una dimostrazione del fatto che le alleanze dal basso pagano e riescono a essere perfino creative’.

Come poi racconta nell’intervista lo stesso Raúl Godoy, non è semplice rimettere in moto una fabbrica, ma la ‘FaSinPat’ non è sola. Il fenomeno ha coinvolto anche Paesi europei. Nel 2011 in Grecia, a Tessalonica, i lavoratori hanno occupato l’impresa Vio.me per evitare la dismissione dell’impianto. Aditya Chakrabortty, opinionista del ‘The Guardian’, ha scritto della riconversione della produzione attuata dagli operai: ‘quando i lavoratori hanno consultato la comunità locale riguardo ciò che avrebbero dovuto produrre, una richiesta era quella di smettere di fabbricare materiali chimici per il settore delle costruzioni. Ora vengono prodotti sapone e detergenti eco-friendly per la casa: più puliti e più ecologici’.

Anche l’Italia è teatro di esperienze significative, come la Ri-Maflow a Milano. La Maflow produceva elementi per impianti di servosterzo e di componenti per il condizionamento auto. Nel dicembre 2012 la fabbrica venne chiusa ed alcuni cassintegrati decisero di dare vita ad una cooperativa, che prese concretamente vita nel 2013 con il nome ‘Ri-Maflow’. La produzione venne completamente riconvertita con un focus sull’ecologia. All’interno della fabbrica è presente un centro polifunzionale per il riuso dei materiali: vengono recuperati da privati o aziende apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) da aggiustare, donare o vendere a prezzi contenuti a scuole e soggetti meno abbienti. Dentro il centro vi è anche il ‘Bancale Etico’, una falegnameria che ripara bancali o li trasforma in pezzi d’arredamento. All’interno della fabbrica vi è anche ‘La bottega FuoriMercato’, dove si possono trovare prodotti a km0 del Parco Agricolo Sud Milano. La Ri-Maflow rappresenta un nuovo modo d’intendere la società e l’economia, sul sito ufficiale dello stabilimento si legge: ‘l’obiettivo è quello di realizzare una cittadella dell’altra economia dove attività produttive ed attività sociali si incontrano per resistere alla crisi e promuovere iniziative in rottura con il modello economico liberista’.

Il fenomeno ha una portata internazionale, fra le Ert figurano anche la fabbrica Kazova in Turchia e l’impresa Fralib in Francia. Sin dal 2007, ogni due anni, si sono tenuti vertici internazionali intitolati ‘L’Economia dei Lavoratori’ a cui hanno partecipato i delegati delle fabbriche recuperate e studiosi e ricercatori, così da poter instaurare dei legami fra queste stesse innovative esperienze e creare delle reti collaborative profonde, portatrici di nuovi modi d’intendere economia e società. Il primo vertice si tenne nel 2007 in Argentina, poi venne ripetuto in altri paesi dell’America Latina come il Messico (2011) ed il Brasile (2013). In Europa il primo incontro regionale si è tenuto in Francia nel 2014, mentre il secondo incontro si è tenuto in Grecia nel 2016. Il terzo incontro si terrà 2019 in Italia alla Ri-Maflow.

Cosa testimoniano le Ert? Prima di tutto che un’altra economia è possibile, non solo a livello locale, ma anche a livello internazionale. Le fabbriche recuperate sono molte e stanno creando una rete interconnessa per far sì che le esperienze non restino isolate, non restino nazionali, ma transnazionali. Non si tratta solo di economia, ma anche di ambiente, inteso in termini ecologici e sociali: le Ert hanno una forte connessione con il territorio circostante e con le comunità che ivi risiedono. Si coniugano così le necessità materiali delle comunità, che acquista i prodotti delle Ert, e le necessità immateriali dei singoli individui: la Ri-Maflow mette anche a disposizione una sala prova attrezzata per dare sfogo alla propria musicalità creativa. Le fabbriche recuperate rappresentano perciò un nuovo tassello economico, politico, sociale e culturale che gli Stati, partendo dalle amministrazioni locali, potrebbero incentivare per rispondere a delle crisi che non sono solo economiche, ma che mettono in discussione i modelli culturali ed economici al momento dominanti.

 

 

Photo by Jezael Melgoza on Unsplash

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Avvenire

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di Giuliana Mieli

Recentemente il Ministro della Sanità ha presentato al Parlamento i risultati relativi allo stato di applicazione della legge 194/78.

I dati testimoniano una significativa diminuzione degli aborti in genere e soprattutto di quelli chirurgici a favore di un sensibile incremento nell’uso delle pillole destinate alla contraccezione d’emergenza: la pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Non risultano dati ancora sulle fasce d’età interessate a questo tipo di contraccezione.

Nei commenti si insiste naturalmente sull’importanza di una sistematica attività di counseling sulla procreazione responsabile da attuare nei consultori all’interno del percorso nascita e dell’attività di prevenzione dei tumori femminili, oltre a quella destinata agli adolescenti accanto all’informazione e educazione sessuale effettuata nelle scuole.

Colpisce infatti l’impressionante numero di confezioni di pillole abortive d’emergenza vendute che inevitabilmente fa pensare a quanto l’informazione non sia ancora sufficiente e forse anche a quanto seduttivo appaia il messaggio che presenta la pillola extrema ratio come una semplificazione del problema, una scappatoia sempre disponibile e, per la facilità della sua assunzione, capace di proteggere da disagi e ripensamenti. A volte, nella mia pratica clinica, mi colpisce come giovani donne indisponibili ai metodi contraccettivi classici considerati intrusivi, scomodi, pericolosamente minacciosi della naturalità del ciclo riproduttivo, assumano con disinvoltura la contraccezione d’emergenza come se fosse meno impattante sul loro benessere e la loro integrità psicofisica.

Recentemente Papa Francesco, al ritorno da Panama, ha accennato coi giornalisti al tema dell’aborto per chiedere misericordia per chi vi ricorre e per insistere saggiamente sull’importanza di una estesa educazione affettiva. Di questo episodio mi colpiscono due cose: che a riportare la sessualità al suo significato emotivo prezioso in termini relazionali sia una autorità religiosa e che tale autorità, nel parlare di misericordia, veda l’aborto come un errore possibile all’interno dello sviluppo dell’emotività che va affrontato con l’educazione, la consapevolezza e la responsabilità. È implicito il messaggio che le cose si possono fare meglio, si possono evitare sofferenze e disagi, quanto più si è informati, consapevoli e padroni nell’espressione della propria emotività e corporeità.

Certamente è fondamentale diffondere la conoscenza dei metodi contraccettivi e del loro uso. Ma io credo che nelle parole del Papa ci si riferisca alla conoscenza di noi stessi, della nostra affettività e del suo sviluppo. Ma sono stanca di constatare che a richiamare l’importanza degli affetti sia ancora una volta il pensiero religioso – che ha tutti i diritti di occuparsene naturalmente – a perpetuare quella separazione storica nella nostra cultura fra materia e sentimento, fra mondo inanimato e soggettività, sconfitta scientificamente nel secolo scorso dalla svolta della fisica di Einstein e Heisenberg, ma che continua a permanere nel pensiero comune e soprattutto nelle pratiche economiche e sociali della vita odierna.

L’esigenza del rispetto della vita affettiva nella sua evoluzione e nella sua essenza relazionale non può essere un optional appiccicato lì di cui ci si ricorda nelle feste comandate: deve essere un sapere condiviso, non coltivato solo nelle aule universitarie o nei ghetti aristocratici degli addetti ai lavori, ma deve diventare coscienza allargata che possa rivoluzionare il nostro modo di vivere.

Cito sempre la scoperta fatta negli anni quaranta nella cura degli orfani di guerra ospitati in appositi istituti: per quanto nutriti e scaldati, in molti non riuscivano a scampare a epidemie letali che li decimavano. Fu solo il coinvolgimento emotivo di una nurse nella cura di un piccolo che riportò il sistema immunitario di quella creatura a funzionare per poter sopravvivere: si scopriva così che la condizione necessaria per la sopravvivenza della specie è il coinvolgimento affettivo, fondamento delle successive cure materiali.

John Bowlby estese questa scoperta, che pose alla base della sua Teoria dell’attaccamento, con la considerazione che dato il ruolo vitale nella conservazione della specie degli atteggiamenti affettivi di cura, la natura non poteva averli affidati alle bizze della cultura ma li aveva iscritti nella nostra stessa corporeità attraverso il sistema limbico, neuroendocrino, ormonale.

Lo sviluppo della psicoanalisi inglese del dopoguerra tratteggia non soltanto l’importanza della relazione di cura ma l’evoluzione di tale relazione dalla simbiosi della vita intrauterina alla lenta e graduale conquista della maturità e dell’autonomia che si fonda sul passaggio dalla dipendenza infantile, legata al bisogno, alla conquista della capacità di scambio reciproco sorretta dal desiderio che caratterizza la vita relazionale adulta sia nell’intreccio delle competenze creative che nella complementarità degli affetti: cruciali i passaggi del parto, i primi tre anni di vita del bambino che portano a compimento lo sviluppo del cervello attraverso le relazioni di cura, l’infanzia e la trasformazione adolescenziale. Questo percorso è molto lento nel mammifero umano proprio a causa della sua complessità. L’OMS parla di 24 anni, che non bastano più.

Il percorso della maturazione affettiva è dunque un continuum che si dipana dalla gravidanza e dalla nascita e che influenza significativamente la maturazione degli individui. Nella sua fisiologia questo lento cammino sottolinea l’esigenza di una forte sicurezza emozionale come elemento di benessere e di fiducia sia nell’eredità non scelta del luogo della nascita che nelle relazioni scelte della vita adulta; la sicurezza affettiva sta alla base anche della capacità di esprimere la propria creatività e i propri talenti nella certezza di uno scambio utile e riconosciuto nella vita sociale.

L’incrocio dei codici affettivi, come li chiamava Franco Fornari, fondati su diversi substrati ormonali, garantiscono la crescita a partire dall’attaccamento all’origine materna verso la scoperta del mondo e della vita attraverso la complementarità del ruolo guida paterno. Le varie fasi della crescita si innestano e completano l’un l’altra come i componenti di quei cannocchiali estensibili che necessitano di tutti gli elementi che li costituiscono per dare una visione corretta. L’intreccio dei codici affettivi è responsabile di relazioni sane fondate sulla conoscenza e il rispetto delle esigenze affettive di base.

In questo senso l’educazione sentimentale è qualcosa che dovrebbe essere patrimonio dell’intera popolazione e non riguardare soltanto i giovani: dovrebbe coinvolgere i genitori in primis, gli insegnanti che essendo inseriti nel percorso di crescita dei nostri figli dagli 0 ai 24 anni inevitabilmente hanno una responsabilità educativa di cui devono essere consapevoli e devono saper gestire; e poi gli operatori della sanità, quelli dell’assistenza, senza contare che la capacità di trattare gli altri con cura e attenzione dovrebbe riguardare tutti in quanto tutti siamo parte attiva in un mondo di relazioni.

La non conoscenza del mondo affettivo, l’averlo espulso come ha fatto la nostra cultura, dall’ambito della scienza per tollerarlo solo di straforo nella spiritualità religiosa, ha sdoganato un sapere razionalistico che, nella celebrazione dei successi ottenuti, ha completamente dimenticato, trascurato o represso la complessità e la ricchezza della nostra natura: come dice efficacemente I. Suttie la nostra è una civiltà cresciuta nel tabù della tenerezza.

Difficile fare vera educazione sentimentale senza entrare in rotta di collisione con le abitudini della nostra società: bisognerebbe demedicalizzare la gravidanza non per espellere la medicina quando è necessaria, ma per ritrovare e imparare a leggere le indicazioni naturali affettive in essa contenute; bisognerebbe proteggere i bambini sotto i tre anni dalla violenza di separazioni inadatte alla loro immaturità proteggendo il lavoro della donna e rendendolo flessibile (questa sì sarebbe una flessibilità intelligente) senza penalizzare la sua sana richiesta di essere parte integrante della vita lavorativa e sociale; bisognerebbe difendere la paternità non solo come sostegno economico ma come responsabilità e apporto fondamentale per la costruzione della sicurezza del figlio nel lento distacco dall’orbita materna; bisognerebbe che le scuole smettessero di selezionare i più adatti ai ruoli dirigenziali prestabiliti e coltivassero la genialità spontanea e creativa che non sempre si esprime nel successo imposto dalla competitività e dal giudizio scolastico; bisognerebbe che i giovani fossero sostenuti e accolti nella via sociale adulta con più curiosità e tolleranza e con la garanzia che il loro ingegno è visto da chi è più avanti negli anni non come un pericolo, ma come una opportunità che possa esprimersi per il vantaggio di tutti; bisognerebbe che il femminile, per tanto tempo relegato nel mondo domestico e dell’infanzia, uscisse allo scoperto ed esplicitasse pienamente la sua immensa capacità di comprensione e di cura e scalzasse un politico e sociale basato sulla competizione, l’ambizione di potere, l’odio dell’avversario e del diverso. E potrei continuare.

Ma perché questo possa avvenire bisogna che il mondo degli affetti venga riconosciuto e difeso e soprattutto praticato intorno ai giovani anche dagli adulti: solo la cura degli affetti e il rispetto del lungo formarsi attraverso infanzia e adolescenza garantisce all’essere umano una realizzazione serena e felice nella piena espressione della sua potenzialità naturale. Ad amare si impara essendo amati, a rispettare si impara essendo rispettati: abbiamo prove inconfutabili sulla disponibilità innata e precoce dei piccoli bambini all’empatia, alla condivisione, all’altruismo. L’egoismo onnipotente è breve retaggio dell’esperienza intrauterina che per prima dà al bambino l’imprinting della felicità e del benessere che cercherà tutta la vita. Ma con la nascita è la relazione con la mamma che lo educa a una presenza legata a una qualità, a un rispetto, a una condivisione del sentire che garantisce risonanza; sarà la scoperta della presenza paterna che integrerà alla sicurezza dell’origine quella di chi ti accoglie e ti insegna, a chi dà il limite per proteggere. Sarà più facile per chi ha avuto questa esperienza affrontare l’identificazione di genere adolescenziale – che segna definitivamente il passaggio maturativo verso il mondo del limite, del desiderio e della scelta – e l’apertura verso l’incontro amoroso sostenuto dal modello interno di una qualità di relazione già assaporata. Diversamente il passaggio adolescenziale con la sua libertà e la sua solitudine può diventare vana ricerca di colmare un vuoto.

Straordinaria l’esperienza del Baby-Watching nata anni fa a Monaco di Baviera per combattere il bullismo nelle scuole: fu introdotta la presenza cadenzata in classe di una mamma che aveva appena avuto un bambino con l’ausilio di un facilitatore che spiegava lo svolgersi della relazione di cura; e la cosa ha funzionato egregiamente.

Del resto è la natura stessa a indicarci l’importanza della genitorialità intesa come cura nell’aver organizzato la fecondità umana in maniera diversa dal mondo animale: non calori cadenzati ma una disponibilità mensile per tutti gli anni fecondi della donna che moltiplica le occasioni e genera una possibilità di scelta. La sessualità conserva la sua natura di felice e pieno scambio amoroso, forse il più intenso di tutta la vita, che perpetua nell’età adulta il bisogno inebriante del contatto, del piacere nel fidarsi, della compenetrazione che sostiene e nutre l’individualità e l’autonomia e che può, proprio in quanto gode di questa natura, trasformarsi in scelta consapevole per perpetuare un incontro felice nel farsi di una nuova vita, erede di una esperienza ineffabile di risonanza amorosa. Nella consapevolezza, spesso dimenticata nel mondo borioso e superficiale in cui viviamo, dell’umana caducità e della necessità di convogliare in chi verrà l’eredità di una esperienza di vita piena e appagata.

Se vogliamo educare ai sentimenti dobbiamo essere capaci di viverli e rispettarli nelle loro esigenze, sdoganare il femminile che ne è il grande custode, comprendere e rispettare il mondo dei bambini a partire dalla nascita, fare spazio alla bellezza, all’arte, recuperare il senso di una giusta distribuzione dei beni, rispettare il pianeta per quelli che verranno, aprirsi alla ricchezza delle varie e diverse culture senza sospetto. Marxianamente potremmo dire che dovremmo tornare al valore d’uso superando l’egemonia del valore di scambio, dove ciò che vale è solo la quantità e l’accumulo. Se facciamo crescere bambini e giovani in un mondo dove non c’è più la qualità delle relazioni ma dove tutto è consumo e fretta, è molto difficile che la sessualità possa tornare al suo vero significato umano di incontro, di sicurezza, di tenerezza, di responsabilità perché queste qualità dell’esistere devono essere sperimentate prima per poter essere agite e godute come potrebbero.

 

Photo by Annie Spratt on Unsplash

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La mia generazione ha distrutto il pianeta, per questo benvengano i ragazzi che protestano

DI GEORGE MONBIOT

Theguardian.com

Lo Youth Strike 4 Climate mi ha dato più speranza di quanta ne ho avuta in 30 anni di campagne per il clima. Prima di questa settimana, credevo che fosse tutto finito – per l’indifferenza e l’ostilità di chi ci governa e per la passività della maggior parte della mia generazione – ho temuto che il deterioramento climatico e il disastro ecologico fossero ormai inevitabili. Ora, per la prima volta da anni, penso che possiamo superarli.

La mia generazione e le generazioni precedenti hanno sbagliato tutto. Non siamo riusciti a garantire ciò che è alla base della giustizia intergenerazionale: non si può fare nessuno sconto alla vita umana. In altre parole, la vita di chi non è ancora nato non vale meno della vita di chi già esiste. Noi abbiamo vissuto come se le vostre vite non avessero importanza, come se ogni risorsa che abbiamo trovato  fosse nostra e solo nostra, come se fossimo autorizzati farne tutto quello che volevamo fare, indipendentemente dall’impatto sulle generazioni future. In questo modo, abbiamo creato un’economia cannibale: ci siamo mangiati il vostro futuro, per soddisfare la nostra avidità.

È vero che le persone della mia generazione non siano tutte da biasimare allo stesso modo. Per parlare a grandi linee, la nostra è una società di persone altruiste, governate da psicopatici. Abbiamo permesso ad un numero ristretto di persone incredibilmente ricche ed a dei politici deleteri, finanziati dalle élite incredibilmente ricche, di devastare tutti i sistemi di supporto vitale. Certo ci sarà qualcuno che ha più colpe degli altri, ma la nostra incapacità di bloccare gli oligarchi che stanno saccheggiando la Terra e di aver tollerato il loro potere illegittimo, è colpa di tutti. Insieme, vi stiamo lasciando un mondo che – senza un’azione drastica e decisiva – potrebbe presto diventare inabitabile.

Tutti tutti i giorni,  quando siamo a casa, vi diciamo che se mettete in disordine, poi siete voi che dovette rimettere a posto le cose. Vi diciamo che dovete assumervi la responsabilità delle vostre vite. Ma noi non siamo riusciti a fare lo stesso con noi stessi, stiamo lasciandovi una casa tutta in disordine,  sperando che siate voi a rimetterla a posto.

Qualcuno di noi ci ha provato, qualcuno ha cercato di spiegare  alla nostra generazione che avremmo dovuto fare quello che state facendo voi. Ma, tutto sommato abbiamo trovato gente che inarcava il sopracciglio  e che faceva spallucce. Per anni molte persone della mia età hanno negato che ci fosse un problema. Hanno negato che stesse avvenendo una catastrofe climatica. Hanno negato che clima stesse cambiando. Hanno negato che stesse arrivando una estinzione. Hanno negato che i sistemi della vita sulla terra stessero sull’orlo di un collasso.

Hanno negato tutto questo perché accettarlo avrebbe significato mettere in discussione tutti i valori che consentivano la loro qualità di vita. Se si fosse dato retta alla scienza, la macchina su cui viaggiavano non sarebbe andata bene. Se la scienza avesse avuto ragione, le loro  vacanze all’estero non sarebbero state una scelta giusta. La crescita economica, l’aumento dei consumi, l’intero sistema in cui erano stati portati a credere che fosse giusto, doveva essere sbagliato. Era più facile quindi fingere che la scienza avesse torto e che il loro modo di vivere fosse quello giusto, piuttosto che accettare che la scienza avesse ragione e che il loro modo di vivere fosse sbagliato.

Qualche anno fa, qualcosa è cambiato. Invece di negare la scienza, ho sentito le stesse persone dire “OK, è vero, ma ormai è troppo tardi per fare qualcosa”.  Tra il momento in cui dicevano che non era vero e quando hanno manifestato la loro disperazione, non c’è stato nemmeno un attimo in cui ho sentito dire: ” È vero, dobbiamo fare qualcosa “. Il dichiarare la loro disperazione è stata un’altra forma di negazione; un altro modo di persuadersi che si doveva continuare come prima. Se non c’era niente ormai che si poteva fare, allora non c’era più nemmeno il bisogno di mettere in discussione le loro convinzioni più profonde. Per questo aver negato, per questo egoismo, per questa  miopia della mia generazione, questa è ora l’ultima possibilità.

Quei disastri che avevo paura che avrebbero potuto vedere, da vecchi, i miei nipoti stanno già accadendo:  la popolazione degli insetti sta collassando, estinzione di massa, fuochi  incontrollabili, siccità, ondate di caldo, inondazioni. Questo è il mondo  che vi stiamo lasciando in eredità. La vostra è una delle prime generazioni non nate che non siamo stati capaci di proteggere, quando i nostri consumi sono schizzati alle stelle.

Ma quelli di noi che da tanto tempo si sono spesi per questa lotta non vi abbandoneranno. Voi avete lanciato una sfida a cui noi dobbiamo rispondere, e noi saremo solidali con voi. Anche se siamo vecchi e voi siete giovani, sarete voi che ci guiderete. Almeno questo, ve lo dobbiamo.

Mettendo insieme la vostra determinazione e la nostra esperienza, possiamo costruire un movimento abbastanza forte da rovesciare il sistema che nega la vita e che ci ha portato sull’orlo del disastro, se non oltre. Insieme dobbiamo pretendere un mondo diverso, un sistema di vita che difenda la natura da cui tutti noi dipendiamo. Un sistema che renda onore a voi, ai nostri figli, e che dia lo stesso valore alla vita (di oggi e a quello) di chi non è ancora nato. Insieme, costruiremo un movimento che deve – e che diventerà – irresistibile.

George Monbiot

 

Fonte: https://www.theguardian.com

Link: https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/feb/15/planet-children-protest-climate-change-speech

traduzione di Bosque Primario, pubblicata su comedonchisciotte.org

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Sintesi dell’incontro nazionale di Roma del 23 febbraio 2019

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Il Centrale Teatro Preneste, in cui si è svolto l’incontro, è stato riempito da sottoscrittori dell’appello arrivati da molte regioni italiane. Dalla Venezia Giulia alla Sicilia, per indicare la provenienza di coloro che hanno fatto i viaggi più lunghi. Abbiamo iniziato puntualmente alle 11 con una relazione introduttiva di Maurizio Pallante che ha ricordato le ragioni del nostro impegno politico, soffermandosi in particolare sulle motivazioni per cui va oltre la contrapposizione tra destra e sinistra, che ha caratterizzato le dinamiche politiche dell’epoca storica avviata dalla Rivoluzione industriale. Un’epoca che si sta concludendo con la prospettiva di una autodistruzione dell’umanità in conseguenza del superamento dei limiti della sostenibilità ambientale causato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci.

La prima sessione dell’incontro è stata dedicata all’esposizione di esperienze locali che prefigurano la possibilità di realizzare forme di relazioni sociali fondate sulla collaborazione e la solidarietà, di attività lavorative che utilizzano le risorse dei territori non solo senza stravolgerli, ma valorizzandone la bellezza, di forme di volontariato finalizzate a diffondere comportamenti rispettosi degli ambienti in cui si vive, di forme d’impegno politico non partitico per difenderli dalle aggressioni portate in nome del profitto, di forme di volontariato a tutela delle categorie sociali più svantaggiate. Nelle loro differenze gli elementi che le accomunano sono un sistema di valori che supera l’appiattimento degli esseri umani sulla dimensione materialistica e consumistica; la scelta di non limitarsi a organizzare forme di opposizione a scelte politiche ed economico-produttive devastanti, ma di costruire alternative più interessanti e più desiderabili sia dal punto di vista economico e lavorativo, sia dal punto di vista ambientale; la dimostrazione che l’affermazione “un altro mondo è possibile” non è soltanto uno slogan, ma una prospettiva di cui si possono costruire anticipazioni a livello locale. Anticipazioni che per essere più efficaci devono essere concepite come tasselli da affiancare per tentare di costruire un’alternativa globale: esempi da cui trarre indicazioni riproponibili, con i necessari adattamenti, in altre realtà locali.

La seconda sessione ha definito le prossime tappe da percorrere per arrivare a costituire ufficialmente il soggetto politico di cui questo convegno è stato una tappa preparatoria. In particolare sono stati indicati alcuni obbiettivi strategici a questo fine:

– la costituzione di un gruppo di lavoro che predisponga uno Statuto coerente con i nostri principi e le nostre finalità; le modalità d’iscrizione;

– le modalità per scegliere il nome: a partire da quelli formulati nel brainstorming lanciato insieme alla diffusione dell’appello, un piccolo gruppo di esperti in comunicazione ne sceglierà una rosa ristretta da sottoporre ai sottoscrittori dell’appello;

– l’allargamento del gruppo composto da 4 persone che ha gestito la fase iniziale di questo progetto politico, auspicabilmente con l’inserimento di donne, per gestire la fase successiva, da questo incontro al momento in cui il soggetto politico verrà costituito ufficialmente, presumibilmente nei mesi di settembre o ottobre;

– la costituzione di circoli territoriali tra i sottoscrittori dell’appello e l’individuazione all’interno di ogni circolo di un responsabile della formazione;

– un primo ciclo di formazione a carattere residenziale, rivolto ai responsabili della formazione di ogni circolo, ma aperto a chiunque voglia parteciparvi, dal pomeriggio/sera del venerdì al dopo pranzo della domenica; i responsabili della formazione di ogni circolo dovranno a loro volta organizzare corsi di formazione a livello territoriale.

È seguito un breve spuntino di pranzo nel porticato antistante il teatro, utile per scambi di opinione e conoscenza reciproca tra i partecipanti. Subito dopo è iniziata la terza sessione, caratterizzata da due interventi culturali di grande spessore, nonostante l’esiguità del tempo a disposizione. Fabio Pinzi ha parlato della permacultura come opportunità per riprogettare sistemi umani belli, ricchi, produttivi e accoglienti. Giuliana Mieli ha parlato del femminile e della sua importanza nella rivoluzione ecologica. I due interventi sono stati anticipazioni di riflessioni più ampie che saranno svolte nei corsi di formazione. Hanno suscitato un forte interesse tra i partecipanti, come è stato dimostrato dalle richieste ai due relatori di partecipare a incontri che saranno organizzati dai costituendi circoli territoriali.

La quarta sessione è stata una tavola rotonda tra tre studenti, introdotta da un intervento di Jacopo Rothenaisler, che ha evidenziato l’importanza dello sciopero mondiale degli studenti del 15 marzo contro l’inerzia dei governi nei confronti della crisi climatica. Questa scelta delle giovani generazioni, che subiranno più pesantemente le conseguenze dell’irresponsabilità delle generazioni precedenti, è l’unica possibilità di indurre i governi ad adottare misure più drastiche per ridurre l’effetto serra di quanto non abbiano fatto sino ad ora nelle sedi internazionali. Gli interventi di Kevin Simäo Ograbek, studente dell’ultimo anno del Liceo di Mendrisio, dove, come in tutte le scuole superiori della Svizzera, già sono stati fatti scioperi per questo motivo, di Alessandro Piovano, secondo anno di giurisprudenza Torino, e di Nicolò Miotto, secondo anno di scienze diplomatiche all’Università di Trieste e autore di un interessante studio delle costituzioni di Bolivia ed Ecuador, dove i diritti della natura sono stai inseriti nei diritti costituzionali, hanno dimostrato una consapevolezza e un senso di responsabilità molto superiori a quelle dei politici. Se ci sarà una possibilità che l’umanità non venga risucchiata nel vortice di un processo che può decretarne la fine, si dovrà più alla forza di questo movimento che al nostro impegno di ambientalisti. È comunque nostro dovere, etico e politico, offrirgli il supporto della nostra esperienza, difendendo per quanto possiamo la sua autonomia da possibili strumentalizzazioni.

L’ultima sessione è stata dedicata al rafforzamento del nostro sito, costituendo una redazione in grado di far conoscere tempestivamente le nostre valutazioni sull’evoluzione della crisi ambientale e della crisi economica, le nostre proposte finalizzate a ridurle, le nostre critiche alle decisioni politiche che la sottovalutino o che, come purtroppo è accaduto e accadrà, contribuiscano ad aggravarla, le esperienze positive in corso che indicano delle vie alternative, mettendone in evidenza l’efficacia, la riproducibilità, la desiderabilità.

Al termine di una giornata molto intensa Nino Pascale ha riassunto gli impegni che sono stati presi per essere pronti a costituire entro i mesi di settembre o ottobre, il soggetto politico a cui tendiamo. Agli intervenuti è rimasta una mezz’ora di tempo per intrecciare relazioni finalizzate a rafforzare la conoscenza reciproca e a costituire i circoli territoriali e i gruppi di lavoro tematici. Tutti hanno condiviso la sensazione di incontro molto utile e di un passo in avanti nell’evoluzione del nostro progetto.

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Antispecismo come necessità di cambiamento

antispecismo

di Claudio Cianca

Perché parliamo di antispecismo?

Cosa c’entra con la decrescita (selettiva degli sprechi) e con l’ecologismo (difesa dell’ambiente naturale)?

Spesso questi temi vengono visti separatamente eppure, non cogliere i reciproci nessi, significherebbe pensare di praticare il paradigma della decrescita – o analogamente dell’ecologismo – mantenendo un modello culturale (antropocentrismo: visione dell’uomo e tutto ciò che gli è proprio, come centrale nell’Universo), il quale sostiene ideologicamente le dinamiche produttive opposte. Qui intendiamo sostenere che ciò non ha molto senso.

Perseguire la sostenibilità alimentare mantenendo inalterato un modello culturale incentrato sul solo agente umano, conduce a contraddizioni che minano alla base il perseguimento della stessa sostenibilità. La ragione sta nel fatto che si muovono critiche ad alcune pratiche produttive, senza tenere conto della visione del mondo che è nata in funzione delle medesime pratiche messe in discussione. La presunta “alternativa” finisce con l’essere la “copia conforme” delle stesse logiche, riproposte –spesso inconsapevolmente- sotto altre forme.

L’antispecismo è il movimento che intende attribuire un pari valore e status morale a tutti gli esseri senzienti, individuando la categorizzazione biologica di specie, come origine -e successiva giustificazione- della discriminazione verso gli animali non umani. In sostanza, questa corrente di pensiero, sostiene l’ugualianza fra le specie, che necessita però di essere attuata, affinché l’etica che la contraddistingue possa modificare le condizioni di disparità determinate storicamente. Un antispecismo, vissuto in maniera solo autoreferenziale, resta confinato in posizioni tanto nobili quanto irrealizzabili, finendo per confinare gli stessi attivisti che lo animano in lidi idealisti, spesso portatori di giudizi. Invece, un antispecismo che voglia sperimentare la propria ispirazione filosofica in un progetto politico e culturale, ha bisogno di incontrare i movimenti che, a loro volta, provano a generare cambiamenti, per mezzo di un progressivo impatto a modifica delle norme socialmente stabilite.

Facciamo un passo indietro. Ci permettiamo di dire, semplificando, che una qualsiasi società umana si basa su tre colonne portanti: le pratiche produttive, le quali hanno il compito di assicurare la materiale sopravvivenza / un ordinamento sociale, il quale ha il compito di consentire l’attuazione di quelle pratiche / un modello culturale, ovvero un’immagine della realtà e della posizione del gruppo sociale in essa (da cui consegue una scala di valori e le relative norme di comportamento impartite). Il modello culturale ha proprio il compito di legittimare “ideologicamente” sia le pratiche produttive, sia quell’ordinamento sociale (fungendo da collante sistemico collettivo), di creare cioè una visione che faccia apparire leciti le une e l’altro. Tale visione non ha sempre il compito di descrivere oggettivamente la realtà e, nella maggior parte dei casi, non lo fa; essa appartiene più alla mitologia che alla sfera della conoscenza. Il suo vero compito sta nel giustificare ai membri del gruppo le azioni che il gruppo dirigente compie, verso l’interno e nei confronti del mondo esterno. Poco importa se spesso assume connotati così fuori dalla realtà da divenire paragonabile ad un’allucinazione collettiva.

Le tre colonne portanti si influenzano vicendevolmente. Il modello di cultura deriva dai primi due pilastri ma, al tempo stesso, nel giustificarli in quanto “normali” o addirittura “naturali”, agisce a rafforzarli: quando direttamente, motivando ogni azione che li mantenga, quando indirettamente, ostacolando ogni tendenza divergente. Per il modo stesso in cui sono nate, esse sono inestricabilmente legate l’una all’altra, al punto che non è pensabile modificarne una, senza intervenire contemporaneamente sulle altre. Spesso invece, a leggere le teorie antispeciste, ecologiste e della decrescita, ne ricaviamo la sensazione che si stia parlando di tre temi (e schemi) completamente scollegati fra loro. Manca la visione delle connessioni fra le componenti sociali invece collegate; di conseguenza, se si tende ad un’alternativa reale, non è possibile teorizzare né praticare il cambiamento concependolo separatamente. Se ci chiediamo quando, come e perché nasce l’ideologia specista e con essa il dominio sistematico dell’uomo sulle altre specie animali, o cosa sta all’origine della società della crescita, o ancora cosa determina lo scempio degli habitat naturali, scopriamo che queste tre domande richiedono una risposta omnicomprensiva, facente capo all’analisi di un processo diversificato ma inscindibile.

La crescita è un processo di lungo periodo, iniziato già in epoca protostorica in Europa con le invasioni del popolo pastorale che abbiamo studiato a scuola: gli Indoeuropei. Processo che è andato avanti nel tempo, fino a giungere oggi al suo più grande compimento con la globalizzazione. Anche per quanto riguarda l’ecologismo, si identifica nel neolitico il momento in cui l’umanità cominciò ad avere un impatto molto sensibile sugli ecosistemi, con l’irrompere dell’agricoltura e, soprattutto, dell’allevamento. L’antropocentrismo è nato parallelamente al nascere della società della crescita, dunque con il primo svilupparsi delle culture urbane, come ideologia necessaria alla legittimazione delle pratiche diffuse. Affinché una società pretenda di espandersi indefinitamente, essa deve esprimere una visione antropocentrica del mondo, ovvero della reificazione (riduzione a merce) di tutto ciò che è esterno a sé e dunque oggetto di tale dominio. E’ importante dire che i processi di formazione ed evoluzione dei modelli di cultura non appartengono alla sfera razionale, al contrario coinvolgono il nostro inconscio, dove la razionalità non arriva e
l’elaborazione si compie senza che l’individuo ne abbia alcuna consapevolezza.

Alcuni esempi: gli effetti che i pesticidi hanno sugli animali, domestici e selvatici (incluso l’umano ovviamente); le popolazioni di uccelli in Europa che hanno subito negli ultimi decenni una drastica rarefazione (la cui causa primaria viene identificata nell’agricoltura industriale, nel cui ambito è da inserire anche la gestione intensiva dei pascoli e quindi ciò che mangiamo), non solo attraverso l’uso di sostanze chimiche letali ma anche attraverso la sistematica distruzione degli habitat. Allo scopo di disporre di un pascolo, si brucia o si abbatte una foresta e ciò implica la morte di tutti gli animali che vivevano in essa (o arsi vivi o di fame perché il loro habitat non esiste più), un gigantesco genocidio. Foche e orsi polari annegano a causa dello scioglimento precoce dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale causato dalle più nocive attività umane. Senza parlare dell’orrendo sfruttamento degli animali “da reddito” perpetrato negli allevamenti, intensivi/industriali/biologici o diversamente alternativi che siano.

Per ciascuno di questi effetti è riscontrabile una causa comune, un fatto di validità generale. L’“animale non umano” è trattato come un’astratta entità, invece di quell’organismo biologico che gode e genera allo stesso tempo un ecosistema: il riconoscimento degli animali come agenti sociali implica la loro profonda ri-considerazione, implica la tutela degli ecosistemi in cui vivono, degli habitat dai quali sono – e siamo – indissolubili, di cui sono – e siamo – parte. Non si può preservare i primi senza preservare i secondi. Cos’è d’altronde un ecosistema, se non un insieme organico di comunità viventi?

E’ pensabile una società della decrescita che si mantenga specista? E’ desiderabile un cambiamento che si fondi su di un concentrato di individui ed attività in perenne – e discriminatoria – infinita espansione? Noi pensiamo di no, perché su un pianeta di dimensioni finite, è chiaro che se una specie vivente pretende di crescere all’infinito non può farlo che a danno di tutte le altre, compresa la parte più debole della propria. Se una parte cresce, le altre devono contrarsi: non c’è alternativa. Una società antispecista deve puntare ad essere una società stazionaria, non nel senso di stagnante, ma una società quantitativamente stabile. La ricerca di un equilibrio nelle convivenze oltre la specie diventa un tema centrale che merita la dovuta attenzione da parte di chi, pur provenendo da diversi interessi, vuole convergere verso l’obiettivo d’interesse comune. Tale atteggiamento, se ponderato, trasforma le battaglie singole da questioni che puntano alla specifica inclusione nel sistema dominante, a lotte che cercano forme di liberazione emancipative, attraverso un approccio intersezionale (l’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società – razzismo, sessismo, abilismo, omofobia, transfobia, xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza
– non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione) . Ci spostiamo quindi dal piano della rivendicazione dei semplici diritti, secondo i ritornelli delle retoriche populiste, per entrare nell’alveo delle ampie rivoluzioni paradigmatiche, che possono davvero ambire a modificare il corso della storia e delle storie.

Se si cerca di cambiare solo una parte della realtà, senza intaccare il modello di cultura generale, non si fa altro che riprodurre nuove versioni della medesima realtà. Viceversa, nel momento in cui si cerca di cambiare il modello culturale, senza porsi il problema di cambiare contestualmente le strutture produttive e sociali che quel modello sostiene, si pretende di costruire un tetto senza aver prima costruito l’edificio sottostante. Nel primo caso, nel momento in cui si sottopone a critica la prassi produttiva del presente (crescita infinita), mantenendo il modello culturale nato per giustificare quella prassi (antropocentrismo), qualunque progetto alternativo sarà solo una versione edulcorata di quella stessa prassi. Facciamo un esempio particolarmente evidente, nel caso delle scelte alimentari: la sostituzione della carne animale con la carne sintetica, sia che il signor Rossi la acquisti al Mc’Donalds, sia che il signor Rossi aderisca alle proposte Slow Food, non è che la stessa carne che diversamente sfrutta, devasta, uccide.

L’opposizione a certe attività produttive (in cui si comprende la condanna della zootecnia), genera uno scollamento, una frattura, fra una visione del mondo (l’uomo superiore agli “animali”) e una delle modalità attraverso cui questa visione trovava una corrispondenza nel mondo reale (l’“animale” reso cosa, materia prima e trasformato in cibo). Si crea un’insostenibile incoerenza fra una dimensione culturale che enuncia un certo rapporto con l’altro-non-umano (la sua negazione in quanto soggetto) e una situazione materiale che impedisce l’esercizio di quel rapporto. Viene così a mancare quella fett(in)a di funzionalità, di ragion d’essere, che incarna il superamento di una certa visione del mondo.

In sostanza, questo nuovo movimento socio/cultural/politico, si prefigge di non cadere nell’errore di essere paladino solo di un nuovo ordine degli umani e delle loro cose, di sostituire semplicemente il vertice della piramide del potere; costruzione nella quale le esistenze degli “schiavi” alla base servirebbe ancora una volta a permetterci di restare in cima. La decrescita è sì auspicabile in termini quantitativi e qualitativi ma, ancor più importante, in termini di equità nei confronti di tutte le specie viventi.

 

 

 

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