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il 3 aprile sono a Milano al book pride

Segnalo la mia presenza a Milano, il 3 Aprile in occasione della seconda fiera nazionale dell’editoria indipendente. Evento, GRATUITO, che si svolgerà dal 1-3 Aprile 2016

In questa occasione presenterò il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza.” ed. Lindau, presso  Base | Via Bergognone, 34 Milano , sala Flatlandia.

Mi confronterò con Pippo Civati e saremo moderati da Nicola Mirenzi, giornalista de “La7”

E’ un appuntamento molto importante perché sottolinea ancora di èiù l’importanza, in questo momento storico, di avere editori liberi ed indipendenti che garantiscano la presenza di idee buone e controcorrenti.

Siamo tutti invitati a partecipare.

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DALL’ATTUALITÀ ALLA PROSPETTIVA DEL FUTURO:

Pubblico di seguito l’intervento che l’amoco Paolo Farinella ha tenuto lo scorso 3 marzo a Genova durante la presentazione del mio ultimo libro.

Ringrazio Paolo per l’attenzione che rivolge a me e ai miei scritti e prima ancora per l’impegno che mette nel cambiamento quotidiano verso una società migliore per tutti. Dove nel tutti è contemplato anche il Creato.

Maurizio Pallante

 

 

Presentare Maurizio Pallante è diventato difficile perché c’è il rischio di cadere nell’agiografico o nella derisione dei circoli liberal-conservative che considerano la crescita come il vangelo del loro futuro perché non corrono mai il rischio d’interrogarsi sul presente. Parlare, quindi di «decrescita» nell’accezione filosofico morale in cui ne parla Pallante – perché non è semplicemente un «crescere meno, ma un crescere giusto e meglio –, è antimoderno, spesso bucolico e forse anche infantile. Roba da non addetti ai lavori. Voglio correre questo rischio perché conosco Maurizio Pallante di cui orgogliosamente mi considero amico.

Ascoltandolo privo di superiorità saccente, ma con il cuore dell’apprendimento, ho maturato la mia anima e il mio pensiero e gli sono grato per avermi spalancato le porte e l’interesse a un mondo che è rimasto – a mio modesto avviso – l’unico possibile. Devo essere grato a Manuela Cappello e al marito Giacomo Grappiolo che per primi me lo hanno presentato, invitandolo a Genova. Se nei tempi iniziali della globalizzazione, si gridava lo slogan «Un altro mondo è possibile» per opporsi a un selvaggio assalto alla diligenza dei diritti, della terra, dell’energia, dell’acqua e delle risorse, oggi, anche con l’aiuto di Maurizio Pallante, siamo obbligati a prendere coscienza che «l’unico mondo possibile» è quello proposto da lui.

Oggi egli ha il conforto di avere avuto anche l’imprimatur ufficiale di Papa Francesco che nell’enciclica «Laudato si’» fa sue, in modo ufficiale, le prospettive della decrescita, capovolgendo il punto di vista: non più partendo dalla crescita «cieca e sorda», ma dai bisogni reali delle persone e dalla finitezza della terra che quindi, come tutte le cose finite, non può crescere all’infinito, ma deve essere accudita, custodita e protetta. In sostanza sia il Papa sia Maurizio mettono in guardia dal rischio, ormai in fase avanzata di pericolo, di fare saltare il tappo, dando origine a una deflagrazione – un Big Ben – alla rovescia che ha già messo in cantiere la distruzione totale non solo del Pil, ma della terra stessa.

Paradossalmente, il libro che presentiamo, «Destra e sinistra, addio», non ha come obiettivo la decrescita o i meccanismi per raddrizzare il mondo distorto dai comportamenti umani, ma è un libro che oserei definire il più spirituale di quelli che Maurizio ha scritto. Puntuale nei dati, cifre, numeri, fonti e storia, è un libro diverso. Penso che i suoi libri precedenti, compreso «Monasteri per il terzo Millennio», fossero funzionali a questo che – vedi il titolo! – sembra occuparsi di politica quotidiana, «Destra e sinistra Addio», ma occorre stare attenti a non cadere nel tranello. Sono convinto che l’editore l’abbia fatto apposta: chi si sente ancora di sinistra e chi persiste ancora a considerarsi di destra sono toccati da questa perentoria affermazione di «addio», dichiaratamente esequiale. Come «addio»?

Nel sec. XI, parlando de suo tempo, Bernardo di Chiaravalle, riferendosi alla Roma antica e quindi alla civiltà del suo tempo, disse in un celebre verso, reso famoso, modificato, da Umberto Eco: «Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus – Roma antica esiste solo per il nome (è un ricordo): noi conserviamo, infatti, soltanto i nudi nomi» (Bernardo di Chiaravalle, De contemptu mundi, lib. 1, v. 952). Se vogliamo uscire dal nominalismo senza sussistenza, occorre fare ricorso al «pensiero» e questo libro è un opera di pensiero e di memoria.

Di pensiero perché è alta filosofia non perché s’interroga «si Deus sit», ma perché ci riporta al centro della questione esistenziale, attraverso un linguaggio avvolgente, un discorrere piano e accattivante: siamo sicuri di essere vivente e non già avviati a morte certa? Cosa vuol dire esistere, vivere e progettare? Il libro, pur a questo livello, si legge bene, senza fatica, ma con riposo interiore, misto a sofferenza per non essere stato, in quanto lettore, consapevole per tempo del potere di modificare le condizioni. Pensare è l’arte difficile per oggi e lo sarà ancora di più domani e per questo urge porsi la domanda filosofica e spirituale insieme del «Dove ci troviamo in questo momento?», o se volete «Qual è il senso della nostra esistenza adesso e quale prospettiva di vita ciascuno di noi ha della propria e della storia collettiva?».

Non siamo giunti a questo punto dell’economia sociale perché siamo caduti dal pero, ma perché siamo arrivati ai nodi che sono conseguenza di scelte storiche. Il libro fa anche questo: ci restituisce la memoria perché ci riporta a vivere le premesse storiche, politiche, economiche e sociali che hanno generato le conseguenze che ci stanno condannando in modo irreversibile. Memoria non come ricordo di un passato da rimpiangere, ma come assunzione di un compito che si estende nel tempo, ieri, oggi, domani, passando di generazione in generazione. In questa prospettiva diventa «memoriale», cioè sentirsi fisicamente parte viva e protagonista, responsabile nel bene e colpevole nel male di tutto ciò che accade qui o all’emisfero sud o al polo nord o all’equatore, luoghi cioè che non abbiamo mai visto prima.

Già alle pp. 10-17, cioè nel «Prologo» poche pennellate sono sufficienti per capire il senso storico della caduta del muro di Berlino, di cui sentiamo la polvere addosso ancora oggi; segue il cambio del nome del PCI; alla nota 1 di p. 13 troviamo la notizia di due e-mail segrete spedite da Tony Blair a Bush, in cui un anno prima della decisione, il liberale di S. M. Britannica si dichiarava pronto ad entrare in guerra a fianco degli Usa. Oggi lo stesso Blair sostiene di avere sbagliato e che la guerra contro l’Iraq era illegittima perché basata su false prove costruite a tavolino.

La parte caratteristica del libro sono i riquadri, vere perle a se stanti, che allargano l’orizzonte: nel primo alle pp. 18-20 si parla dello scenario della Germania vista con gli occhi della Volkswagen e di quello della Cina: tutti e due questi giganti dell’economia di crescita sono condannati a diminuire i posti di lavori umani, sapendo che questa scelta inciderà sulla domanda, per cui devono a tutti i costi crescere, ma potranno farlo solo con i robot. Se però diminuiscono i posti di lavori, ci sarà meno ricchezza e quindi caleranno i compratori con la conseguenza che i robot aumenteranno la produzione, ma Germania e Cina non sapranno a chi vendere quello che producono.

Nel riquadro delle pp. 158-160 si descrive il passaggio «dalla Democrazia Cristiana a Forza Italia», attraverso meccanismi e processi che ci fanno capire noi stessi e le ragioni delle nostre scelte anche partitiche, anche di voto, e, io aggiungo, anche stupide e superficiali. Alle pp. 80-81 facciamo la scoperta di cosa sia accaduto in Sardegna nel secolo scorso: cosa è stato distrutto e per quali ragioni. L’ultimo riquadro, il più lungo, alle pp. 208-221 ci offre un sintetico ed efficace riassunto con chiave di lettura dell’enciclica «Laudato si’» di Papa Francesco.

Il sottotitolo del libro è la chiave di esso: «Per una nuova declinazione dell’uguaglianza». La declinazione è la struttura grammaticale delle lingue più importante dopo il verbo, perché riguarda il soggetto e la sua funzione all’interno della frase, del periodo, del discorso, di un testo. In greco, in latino, in tedesco, in polacco, in russo soccorrono i casi, nelle lingue neolatine, invece, la declinazione è segnata dall’uso diversificato dell’articolo.

In un tempo in cui la disuguaglianza è diventata la norma dell’economia di crescita e la conseguenza del mercato e delle politiche capitaliste e neocapitaliste, parlare di declinazione dell’uguaglianza significa centrare la prospettiva sui bisogni reali delle persone che vivono all’interno di un tessuto relazionale comunitario come misura e controllo delle disponibilità delle risorse della terra.

Persona e creato portano nel loro DNA l’uguaglianza perché l’uno e l’altro possono esistere solo in funzione reciproca nel rispetto e non nella sopraffazione, nella mutua reciprocità e non nella supremazia di uno sull’altra. Uguaglianza non è un mito ideologico di stampo comunista, ma il metodo economico che si basa su un substrato spirituale perché ciascuno prende coscienza di essere parte di un tutto vivo e mai padrone senza confini d’ingordigia e voracità. Uguaglianza intesa come dimensione della giustizia che è fondamento della democrazia basata sui diritti e sui doveri (Cost. it., artt. 2 e 3), cioè sul senso di responsabilità politica che il singolo vive e assume nei confronti della propria comunità umana dove vive e realizza il proprio progetto di vita e il proprio sogno di futuro.

L’uguaglianza è sinonimo di proporzione tra individuo, comunità di persone, umanità e cosmo. Se ci deve essere un vantaggio, questo deve appartenere al cosmo che è affidato alla nostra cura e al nostro discernimento, memori del mandato biblico – per i credenti – di Gen 2,15 che nel testo ebraico ha questo tenore: «Dio pose Àdam nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse/sorvegliasse/preservasse». Il primo verbo ebraico «‘abad» è applicato a chi presta servizio a Dio o all’ambasciatore del sovrano nel senso di «servo», titolo onorifico; il secondo verbo «shamàr» è usato nella Bibbia per «custodire/osservare» i comandamenti di Dio, quindi assenso religioso.

In questa prospettiva – è il compito filosofico che Maurizio Pallante svolge egregiamente – occorre ripensare il rapporto tra religione ed economia (cap. 7, pp. 145-157) su «Religione oppio dei popoli?», che può instaurare un rapporto perverso fino alla sudditanza della prima dalla seconda, se accetta compromessi come la storia dimostra. Oppure sul rapporto tra «povertà e ricchezza» (cap. 6, pp. 127-144) dove si dimostra la superiorità delle «relazioni umani solidali [che] sono più importanti del denaro per la felicità delle persone» (p. 127, nota 1); la scoperta del dono come fondamento di una economia «altra» che è il modo per porre un rimedio alla pazzia della crescita senza fine che è l’irrazionale che rende impossibile ogni possibilità umana.

Grazie Maurizio Pallante per questo bel «dono» che ci obbliga, sì!, a declinare l’importanza che ciascuno di noi può essere, se vuole, per il mondo intero.

Paolo Farinella, prete.

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Lunedì 7 Marzo sarò ospite a “Pane Quotidiano” su rai3

Un buon uso del mezzo televisivo o di internet sarà Lunedì 7 marzo, alle ore 12.45, quando sarò ospite della trasmissione di Rai3 «Pane Quotidiano».
Intervistato da Concita De Gregorio, e dove presenterò il mio nuovo libro Destra e sinistra addio.

 

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Alcune cose che contiene il famigerato PIL.

Nei giorni scorsi sulla mia pagina FB, ho intrattenuto qualche battuta con alcune persone che mi seguono nel merito del famigerato PIL.

In modo particolare sostenevo che oramai nel PIL italiano il governo ha inserito anche merci di provenienza illegale ed alcuni di voi mi hanno chiesto su quali fonti basavo queste mie affermazioni.

Siccome appartengo alla vecchia scuola di dare solidità alle parole che dico, propongo qui di seguito due articoli non miei, dove le mie tesi vengono confermate.

Colgo l’occasione per ringraziare ognuno di voi per l’affetto che manifestate qui e sulla pagina facebook e soprattutto per i continui stimoli – come questo – che fornite alle mie ricerche.

Buona lettura a tutti.

FQ 5 dicembre 2015, pagg. 6 – 7

 

1)Illegale e sommerso, l’altro Pil che vola

NON C’È CRISI Nel 2013 è salito a 206 miliardi. Evasione, lavoro nero, droga e prostituzione: la crescita c’è e non è dello zero virgola

VIRGINIA DELLA SALA

 

Verificare in modo diretto i dati sullo stato di salute dell’economia italiana a volte è molto semplice: basta scendere in strada. Per verificare, ad esempio, quelli diffusi ieri dall’Istat sull’aumento del sommerso e delle attività illegali in Italia, che nel 2013 è stato di circa 206 miliardi di euro (pari al 12,9 per cento del Pil e in aumento rispetto al 2012) si può partire da Napoli. Si può bere il caffè o mangiare una pizza in un bar di uno dei vicoli, senza ricevere alcuno scontrino (8 su 10 non lo emettono, secondo un’indagine AdnKronos). Prendere l’autobus senza biglietto con la sicurezza che i controllori saliranno all’ultima fermata. Passeggiare nei mercati di piazza Garibaldi, dove si vende merce contraffatta o comprare quella nascosta nelle cantine: originale, rubata o contraffatta nelle fabbriche di lavoratori in nero dell’hinterland napoletano. E rivenduta a un terzo del prezzo rispetto al negozio. Scansando decine di spacciatori e relative vedette, si può andare a lavorare come operai nei cantieri della zona. In nero, a giornata, per guadagnare 50 euro nel peggiore dei casi e per essere pagati con i voucher lavoro nei migliori. Anche se, con un solo voucher (come raccontato sia dal Fatto che da Report) spesso viene usato anche per tre giorni. Nel 2013 le unità di lavoro non regolari sono risultate 3 milioni e 487 mila. IL POMERIGGIO si può andare al porto. I container sono un misto di merce legale e di contrabbando. Quest’ultima è ben nascosta, ha spiegato Edoardo Francesco Mazzilli, direttore dell’ufficio investigazioni Antifrode dell’Agenzia delle Dogane: sotto montagne di banane o di ananas, si celano sigarette, droga e ogni genere di merci di contrabbando. “Parlare di Napoli – diceva – è come riferirsi a un esempio universale. Le dinamiche sono le stesse in molte altre città di Italia”. Di sera, le strade attorno alla stazione si popolano: prostitute, travestiti, ragazzine e giovani uomini. Il garante dell’Infanzia della Campania, Cesare Romano, ha più volte spiegato come la zona del Centro Direzionale pulluli di minorenni che si concedono per pochi euro. La prostituzione, minorile e non, ha raggiunto un valore di circa 3,5 miliardi di euro così come lo spaccio di droga (11,5 miliardi di euro, un miliardo in più rispetto al 2012). Insieme al contrabbando, valgono quasi l’1 per cento del Pil. E ancora, il lavoro nero nell’industria tessile veneta, il caporalato in Puglia e Calabria. Pochi giorni fa, a Metaponto la Guardia di Finanza a individuato una società di costruzioni che aveva omesso di dichiarare entrate per un milione di euro. Ieri, a Lucca, è stata scoperta un’evasione di 18 milioni di euro: un calzaturificio produceva quasi tutto in una seconda sede tunisina. Insomma, l’Istat la chiama “non osservata”per la connaturata difficoltà nel quantificarla con precisione, ma questa economia è sotto gli occhi di tutti e dall’anno scorso è inserita nel calcolo dei conti adottato da tutti i paesi europei. Pare, poi, non conoscere crisi per la gioia di un Pil che, nell’ultimo trimestre, ha registrato un aumento dello 0,2 per cento: al di sotto delle attese e non abbastanza per assicurare al governo sul raggiungimento del +0,9 per cento entro fine anno, previsto dal Def. Nel 2013, il solo valore aggiunto dall’economia sommersa, è stato di circa 190 miliardi di euro. Nel 2011 era pari all’11,4 per cento del Pil. Ma da dove arrivano questi numeri? Quasi la metà (il 47,9 per cento) deriva dalla mancata dichiarazione fiscale degli operatori economici: parliamo di circa 99 miliardi di euro. Altri 71 miliardi derivano dal lavoro irregolare e 19 miliardi da attività come fitti in nero e mance. Le pratiche illegali, invece, producono un valore di circa 16 miliardi. GLI ESEMPI fatti all’inizio, non sono casuali. Secondo l’Istituto di statistica, a incidere maggiormente sono i servizi, il commercio, i trasporti, le attività di ristorazione e le costruzioni. Si aggiungono le attività professionali (il tipico saldo dal dentista, con o senza ricevuta), il settore agricolo e alimentare, e l’industria. Dalla voluntary disclosure (il meccanismo di rientro dei capitali nascosti all’estero) sono rientrate ‘volontariamente’ nelle casse pubbliche risorse per circa 3,8 miliardi di euro. Secondo le stime iniziali, però, sarebbero dovuti essere almeno sei.

 

11,5 miliardi. Quanto valeva nel 2013 lo spaccio di droga in Italia (un miliardo in più rispetto al 2012). Con il contrabbando vale quasi l’1% del Pil.

206 miliardi. È l’a m m o n t a re dell’economia sommersa e derivante da attività illegali (droga , p ro s t i t u z i o n e etc) nel 2013, pari al 12,9% del Pil

190 miliardi. L’economia sommersa. Di questa il 47,9% deriva da evasione, il 34,7% dal l avoro irregolare, il 9,4% dalle a l t re co m p o n e n t i (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta)

15, 2 miliardi. Vengono da p ro s t i t u z i o n e , co n t ra b b a n d o di tabacco e droga. 1,3 miliardi è ra p p re s e n t a to dall’i n d o t to

 

 

 

Dati Istat sull’aumento del sommerso e delle attività illegali in Italia, che nel 2013 è stato di circa 206 miliardi di euro (pari al 12,9 per cento del Pil e in aumento rispetto al 2012)

 

Dati 2013

La prostituzione ha raggiunto un valore di circa 3,5 miliardi di euro, lo spaccio di droga di 11,5 miliardi di euro, un miliardo in più rispetto al 2012). Insieme al contrabbando, valgono quasi l’1 per cento del Pil.

 

15, 2 miliardi. Vengono da prostituzione, contrabbando di tabacco e droga. 1,3 miliardi è rappresentato dall’indotto

 

2) L’economia illegale è l’unica che cresce

In tre anni quella legale ha perso il 2,4%. Impennata del crimine (droga, prostituzione etc.) del 6,9%

 

Fatto Quotidiano 28 gennaio 2016, pag. 12

 

Nunzia Penelope

Economia nera, affari d’oro. È la sintesi di uno studio che ha messo a confronto l’andamento dell’economia regolare con quella sommersa e illegale nell’ultimo triennio. La ricerca – dell’ufficio studi di Confartigianato su dati Istat e Unioncamere – fornisce risultati inquietanti, e dimostra che è in corso un travaso di valore dal “bianco” al “nero”. Nello stesso periodo in cui l’economia regolare perdeva il 2,4% in termini di valore aggiunto, quella sommersa e illegale è cresciuta infatti di identica percentuale: + 2,4. Non solo. All’interno del “non osservato’’ – a sua volta diviso in economia sommersa e illegale – la crescita più vertiginosa è stata proprio quella delle attività criminali, che hanno segnato un’impennata nel volume d’affari del 6,9%. Droga, prostituzione e contrabbando, con relativo indotto, hanno ottenuto un fatturato di 16,5 miliardi: una cifra superiore a quella dell’intera produzione dei mezzi di trasporto, auto compresa, che sfiora i 15,8 miliardi. Il solo traffico di stupefacenti vale quasi quanto tutta la spesa nazionale per l’assistenza sociale: 11,5 miliardi, contro 12,4. La nostra economia, dunque, si sposta sempre più non solo verso il sommerso, ma anche verso il crimine, che pesa oggi più di alcuni settori chiave come l’immobiliare, l’assicurativo, il farmaceutico. Parlano i numeri: il comparto illegale, col suo 6,9%, registra la performance migliore tra i 28 settori in cui è suddivisa l’economia regolare, superando altri settori giganteschi come le attività immobiliari, che crescono di appena il 2,9, i macchinari o le attività finanziarie e assicurative, entrambi con +2,3. Al terzo posto nella classifica dei migliori risultati c’è l’economia sommersa, che con un +2% ottiene un risultato migliore dell’industria chimica (+1,7%) o dell’industria farmaceutica (+ 0,3%). Quanto ai restanti 21 comparti tradizionali, dal tessile all’alimentare, il segno è per tutti meno. Dunque è il nero a trainare il nostro Pil. Lo studio di Confartigianato calcola, infatti, anche il volume delle attività regolari prestate però in modo “abusivo’’, e nuovamente si nota il travaso: nel 2014 siamo arrivati a oltre un milione di imprenditori e lavoratori autonomi irregolari, con una crescita dello 0,3%, contro un drastico calo del 4,2%, pari a quasi 300 mila unità perdute, di quelli in regola. Del resto, il mercato per tutto questo c’è, ed è florido: nel solo 2014, quasi 7 milioni di persone hanno acquistato beni e servizi in nero, pari al 13,5% della popolazione di riferimento (maggiori di 15 anni), contro una media Ue dell’11%. Ma in rapporto al Pil pro-capite, la nostra spesa nel comparto irregolare è addirittura superiore del 75% alla media Ue, del doppio rispetto alla Francia e del triplo rispetto alla Germania. Chi paga il prezzo sono le imprese “pulite’’. In particolare le piccole, così spesso celebrate come la vera spina dorsale del paese. Oltre il 65% del settore artigiano è vittima di una concorrenza sleale e durissima da parte dei “colleghi’’ del sommerso: al terzo trimestre del 2015, erano 898.902 le imprese messe a rischio da questo dumping, oltre due terzi del totale. Tra i comparti più esposti ci sono costruzioni, servizi, trasporti, ristorazione; tutti con tassi d’irregolarità superiori alla già alta media nazionale. Il che ha indotto Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, a chiedere una “operazione verità”:“Basta ipocrisie c’è troppa economia illegale che sottrae reddito e lavoro agli imprenditori onesti. Serve tolleranza zero”. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Destra e sinistra addio. Presentazione a Milano

Martedì 9 febbraio 2016, alle ore 18.30 presso la libreria Mondadori Megastore di via Maghera, 28 a Milano, presenterò il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza” ed. Lindau.

Sono molto felice di questa presentazione sulla città di Milano. Principalmente perché sarò accompagnato da Duccio Demetrio che stimo da tempo e di cui mi onoro di essere accompagnato.

In secondo luogo presentare “destra e sinistra addio” a Milano –  abbiamo un bel circolo presente sul territorio – in clima di elezioni primarie o comunque in un periodo elettorale, significa contribuire fattivamente a ravvivare il sano dibattito politico. Sono convinto che i grandi cambiamenti partano sempre dal basso e sarebbe interessante e davvero rivoluzionario se qualche componente politica desiderasse approfondire e far sue le tematiche della decrescita felice.

Secondo voi saranno capaci di raccogliere questa grande sfida? Non lo so. Certamente sarebbe una grande rivoluzione, in positivo per tutti i milanesi.

Intanto io vado a proporre le nostre idee e a contaminare quante più persone possibili. Vi aspetto in tanti.

Passateparola.

 

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La forza rivoluzionaria della spiritualità nella società materialista e consumista

Pubblico un Estratto dal libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 2016, pagg. 198 – 203

Il denaro può essere considerato il fondamento del sistema dei valori soltanto da persone che hanno smarrito la dimensione spirituale e non riescono a vedere nella vita altra prospettiva dalla soddisfazione delle esigenze materiali, che accomunano gli esseri umani alle altre specie animali, con similitudini sostanziali nella classe dei mammiferi a cui essi appartengono. La spiritualità è una dimensione esistenziale esclusivamente umana, caratterizzata da pulsioni, riflessioni, sentimenti, slanci e desideri razionalmente incomprensibili, che non attengono alla sopravvivenza degli individui e della specie. È la sfera in cui si manifesta l’etica e la facoltà di pensare. La spiritualità consente agli esseri umani di sviluppare la consapevolezza delle relazioni e delle interdipendenze che li connettono a tutte le altre forme di vita. Questa consapevolezza, che può essere più o meno sostenuta razionalmente, o più o meno istintiva, è il presupposto che può indurre ad agire per evitare che se ne sbrindelli la trama. La spiritualità si manifesta ai livelli più alti nei rapporti fondati sull’amore, un’intimità reciproca, una condivisione di scelte esistenziali così profonda che travalica la razionalità e si realizza col dono incondizionato del proprio tempo e delle proprie capacità alle persone amate. Un dono gratuito, che non prevede restituzioni e può assumere forme diverse senza mutare la sua sostanza. È il rapporto tra genitori e figli, tra amanti, tra persone appartenenti a una stessa comunità religiosa. È la pulsione interiore che induce a dedicare la propria vita ad alleviare le sofferenze di coloro che sono stati colpiti con particolare durezza nella psiche, nel corpo, dalle vicende della vita, da sofferenze causate dalle condizioni di deprivazione affettiva o di miseria materiale in cui sono cresciute. È la motivazione che induce il contadino anziano a piantare alberi di cui non mangerà i frutti, memore di aver mangiato da bambino i frutti di alberi piantati da chi sapeva che non ne avrebbe mangiati. Il dono gratuito e incondizionato del tempo, che sostanzia i legami interpersonali fondati sull’amore, veniva indicato in latino con la parola donum. Oltre che con questo tipo di dono, gli esseri umani possono rafforzare le connessioni che definiscono il loro essere come con-essere, per riprendere una  definizione di Alessandro Pertosa (nel libro Dall’economia all’euteleia. Scintille di decrescita e di anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014), instaurando tra loro rapporti di scambio basati su un dono del tempo che implica la restituzione, non immediata né scadenzata, né quantificata rigorosamente, basata sulla fiducia reciproca. In latino questo tipo di dono veniva definito munus. Sul dono del tempo che implica la restituzione si fondano i rapporti comunitari, ovvero i legami sociali tra nuclei di persone che si conoscono, vivono in uno spazio territoriale delimitato, generalmente un paese, e si scambiano vicendevolmente lavori e servizi senza la mediazione del denaro. Mentre gli scambi mediati dal denaro sono impersonali e implicano una competizione tra i contraenti – chi vende punta a ricavare la somma più alta possibile, mentre chi compra tende a spuntare il prezzo più basso – gli scambi basati sul dono reciproco del tempo implicano la condivisione e la solidarietà. Se uno dei contraenti non rispetta la regola implicita del controdono, rompe il rapporto di fiducia e si autoesclude dai legami comunitari. Benché non siano mai stati codificati formalmente, i rapporti comunitari fondati sul munus, presentano le stesse caratteristiche di solidarietà in tutti i luoghi del mondo e in tutte le epoche storiche. E presentano anche le stesse forme di deviazione, consistenti nella possibilità di utilizzare il dono come strumento di dominio da parte di chi è in grado di fare e fa doni così grandi che non possono essere restituiti da chi li riceve. Tuttavia deviazioni di questo tipo si possono realizzare solo in presenza di grandi diseguaglianze, che costituiscono di per sé un impedimento sostanziale alla realizzazione di rapporti autenticamente comunitari. Oltre l’ambito degli scambi interpersonali che avvengono nel quotidiano, in alcune scadenze con una forte connotazione simbolica per la vita delle comunità, il munus assume connotazioni corali, presentandosi sotto la forma di una solidarietà collettiva che coinvolge non solo i rapporti degli esseri umani tra loro, ma anche con i luoghi del mondo in cui vivono e da cui traggono ciò di cui hanno bisogno per vivere. Si pensi ai momenti della vita contadina tradizionale in cui si raccoglievano i frutti del lavoro e dell’attesa di un anno: la mietitura del grano, la trebbiatura e la vendemmia, in cui tutte le famiglie a turno si aiutavano vicendevolmente. Momenti di solidarietà e di festa che sono finiti quando l’economia del dono è stata sostituita dalla mercificazione e i raccolti sono stati effettuati da persone pagate per farlo: contoterzisti, braccianti e giornalieri.

Mentre le relazioni fondate sul munus sono inevitabilmente limitate al momento in cui avvengono, le relazioni fondate sul donum sono in grado di superare i limiti spazio-temporali che connotano la condizione umana e di creare legami tra le generazioni attraverso l’arte. Le opere d’arte, in tutte le loro forme – musica, pittura, scultura, architettura, letteratura – sono lasciti di bellezza e di armonia aggiunte dagli esseri umani alla bellezza e all’armonia originarie del mondo, arricchiti da ogni generazione e tramandati sotto forma di dono inevitabilmente gratuito alle generazioni successive, fino a quando la modernità ha trasformato l’arte da dono in merce, sottoponendola, come tutte le merci, alle regole della pubblicità, del prezzo, del profitto e della deperibilità.

La spiritualità non coincide con la fede, ma ne è il presupposto. La fede è la manifestazione della spiritualità di chi crede in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi», ha scritto Dante nel canto XXII del Paradiso, ai versi 64-65. La spiritualità si manifesta anche senza la fede, ma senza spiritualità non c’è fede e la religione diventa un guscio vuoto, privo di vita. Oppure uno strumento di potere utilizzato per dominare e condizionare i comportamenti delle persone più deboli.

Chi mantiene viva la sua spiritualità non può condividere i valori di un sistema economico e produttivo fondato su un antropocentrismo devastante nei confronti degli ambienti, violento nei confronti di tutti gli altri viventi, ingiusto nei confronti dei popoli poveri e delle generazioni future. La spiritualità è la forza più grande che si possa contrapporre alle iniquità generate da questo sistema. Il recupero della spiritualità in una società che tende ad annullarla per concentrare ogni interesse sugli aspetti materiali della vita, è una metanoia, un cambiamento del modo di pensare e del sistema dei valori, una liberazione interiore dai condizionamenti che inducono a credere che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci e il senso della vita si identifichi col potere d’acquisto e col possesso di cose. Riducendo l’importanza del denaro e valorizzando le relazioni umane fondate sul dono incondizionato che caratterizza i rapporti d’amore e sul dono che implica la reciprocità, la spiritualità smonta i pilastri su cui il modo di produzione industriale ha omologato i pensieri e le aspirazioni degli esseri umani per rendere i loro comportamenti funzionali al raggiungimento dei suoi fini. È una scelta esistenziale che nella vita quotidiana assume la connotazione della disobbedienza civile, perché induce a non lasciarsi irretire dalle sirene del consumismo, ma a dedicare più tempo agli affetti che al lavoro, a leggere un libro, ad ascoltare un brano musicale, a visitare un museo invece di lasciarsi ipnotizzare dagli spettacoli d’intrattenimento. Perché induce a comprare poco senza pensare che si stia rinunciando a qualcosa. Comprare poco è una rinuncia solo per chi crede che il senso della vita sia comprare sempre di più. In realtà è una scelta liberatoria, che affranca dallo stato di insoddisfazione permanente cui si condanna chi ripone le sue aspettative di realizzazione umana nell’acquisto di cose, perché inevitabilmente le economie finalizzate alla crescita immettono in continuazione sui mercati cose nuove per non dare mai tregua al desiderio di acquistarle, consentendo di appagarlo solo nel breve intervallo di tempo necessario a mantenerlo vivo. E quel breve intervallo di tempo in cui il desiderio di acquistare viene appagato provvisoriamente dall’acquisto, non è nemmeno sereno perché, se si crede che il benessere consista nel possesso di cose, non si può evitare che venga corroso dal confronto con chi ne possiede di più. Solo un cambiamento del sistema dei valori consente di capire a quale mortificazione della propria umanità si condanni chi, lasciandosi irretire dalle sirene del consumismo smarrisce la propria spiritualità, a quale vuoto esistenziale sia destinato chi non percependo che il suo essere è costituito dal tessuto delle relazioni che lo connettono agli altri esseri viventi, non conosce più la solidarietà: non è capace a darne e non ne riceve.

 

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“Destra e sinistra addio” intervista di Filippo La Porta su Left

Allego qui di seguito una mia intervista su LEFT e ringrazio di vero cuore l’amico Filippo La Porta per la disponibilità, l’onestà intellettuale e la professionalità.

Di seguito l’intervista:

intervista su LEFT

 

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Né Tatcher (o Merkel) né Keynes. Può la decrescita indicarci la strada per superare la crisi economica?

La crisi che ha colpito i paesi industrializzati nel 2008, e non è ancora in via di risoluzione nonostante l’impegno profuso dai governi nazionali e dalle istituzioni sovranazionali, sta dimostrando l’inefficacia delle misure politiche tradizionalmente utilizzate per far ripartire la crescita economica nelle fasi di recessione.

 

Non saranno certo le riflessioni fatte dal nostro movimento per la decrescita felice a indicare la via d’uscita da una situazione che fino ad ora non è stata sbloccata dalle proposte di centri di ricerca e da soggetti politici molto più competenti e potenti di noi. Tuttavia, se le caratteristiche di questa crisi sono così inusuali da sfuggire alle terapie consolidate, un punto di vista ec-centrico come il nostro potrebbe aprire prospettive che non sono state prese in considerazione, ma potrebbero avere potenzialità insospettate.

 

Innanzitutto una precisazione che non dovrebbe essere necessario ripetere per l’ennesima volta, ma visto il permanere di fraintendimenti, più o meno voluti, è utile ribadire: la decrescita non è la recessione.

 

La recessione è una fase economica caratterizzata  dalla diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. La sua conseguenza più grave è la disoccupazione, che comporta una diminuzione della domanda e un aggravamento della crisi.

 

La decrescita è la diminuzione selettiva e guidata della produzione di merci che non hanno oggettivamente nessuna utilità, ovvero degli sprechi.

 

Non si confondano gli sprechi con i beni che qualcuno potrebbe considerare superflui, perché la valutazione del superfluo attiene ai gusti e alle scelte individuali, su cui nessuno è autorizzato a intervenire. Gli sprechi sono, per fare qualche esempio, il cibo che si butta – circa un terzo di quello che si produce -; l’energia termica che si disperde da edifici mal coibentati – in Italia mediamente i due terzi in confronto con gli edifici meno efficienti dell’Alto Adige, i nove decimi rispetto agli edifici più efficienti -; i materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi, che vengono resi definitivamente inutilizzabili sotterrandoli o bruciandoli. Gli sprechi di cibo, di energia e di materiali non rispondono a nessun bisogno o desiderio. Non rientrano nell’ambito del superfluo. Rientrano nell’ambito del dannoso, perché ogni spreco non è soltanto una dissipazione inutile, ma un danno agli ambienti e alla vita. L’energia che si spreca aumenta le emissioni di anidride carbonica, e quindi aggrava l’effetto serra, senza apportare alcun beneficio. Il cibo che si butta accresce la frazione putrescibile dei rifiuti, quella più difficile da trattare. I materiali che si sotterrano inquinano le falde idriche e i suoli, quelli che si bruciano aumentano le emissioni di anidride carbonica, di sostanze inquinanti – in particolare la diossina – e di particelle ultra fini.

 

Una decrescita selettiva degli sprechi non è soltanto utile a livello ambientale, ma contribuisce a ridurre anche le tensioni internazionali per il controllo delle aree geografiche dove si trovano i giacimenti di energia fossile e di materie prime. Inoltre, dal punto di vista economico comporta una riduzione dei costi di produzione delle aziende (un ciclo produttivo con una minore intensità energetica è meno costoso) e delle importazioni, quindi offre un vantaggio competitivo; richiede l’adozione di innovazioni tecnologiche più avanzate, quindi stimola la ricerca; crea un’occupazione con una connotazione qualitativa: un’occupazione utile, perché a parità di produzione di benessere riduce il prelievo di materie prime, tra cui le fonti fossili, e le emissioni di sostanze di scarto nella biosfera.

 

A questo punto occorre una precisazione. La decrescita selettiva degli sprechi non ha nulla a che fare con l’ossimoro dello sviluppo sostenibile. Con la definizione di sviluppo sostenibile si indica un processo di crescita economica caratterizzato dall’uso di tecnologie più efficienti e meno impattanti sugli ambienti. Per esempio l’uso di energie rinnovabili al posto delle energie fossili. Ma di fronte a un sistema energetico, come quello italiano, che spreca il 70 per cento dell’energia che produce e usa, ha senso proporsi di accrescere l’offerta di energia diversificandola per renderla più amichevole nei confronti degli ambienti, invece di proporsi in prima istanza di ridurre gli sprechi e, successivamente, di soddisfare il fabbisogno residuo con fonti rinnovabili? Un sistema energetico dissipativo come quello della maggior parte dei paesi industrializzati è paragonabile a un secchio bucato. Dovendo riempire d’acqua un secchio bucato, chi si proporrebbe di farlo cambiando la fonte senza chiudere prima i suoi buchi?

 

La crisi che stiamo vivendo è una crisi di sovrapproduzione, determinata dal fatto che nei sistemi economici in cui le attività produttive sono finalizzate alla crescita della produzione di merci, le aziende per sostenere la concorrenza devono investire continuamente in tecnologie che aumentano la produttività, ovvero che consentono di produrre di più in una unità di tempo, riducendo al contempo i costi mediante una riduzione dell’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Ciò non comporta automaticamente, come per lo più si pensa, una riduzione dell’occupazione. La comporta solo se la riduzione dell’incidenza lavoro umano sul valore aggiunto non viene tradotta in una riduzione dell’orario di lavoro. In questo caso, ed è ciò che sta succedendo nei paesi industrializzati, si determina una riduzione dell’occupazione e, di conseguenza, una riduzione della domanda a fronte di un incremento dell’offerta di merci. Questa è la causa di fondo della crisi che stiamo attraversando.

 

A questo squilibrio insito nelle economie della crescita si è fatto fronte incentivando il ricorso al debito da parte dei privati e ricorrendo al debito pubblico per aumentare la domanda. Questo fenomeno, iniziato nei primi anni sessanta, è stato l’altra faccia della medaglia del boom economico. A partire dagli anni ottanta è stato accentuato dalla globalizzazione, che è stata perseguita dai paesi industrializzati per ampliare il mercato dei loro prodotti, ma li ha sottoposti alla concorrenza di paesi dove il costo della manodopera è molto più basso. Questa concorrenza ha spinto in basso i salari nei paesi industrializzati: «tra il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento» (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015, p. 110). La riduzione dell’occupazione determinata dalle delocalizzazioni di molte produzioni nei paesi cosiddetti in via di sviluppo e la riduzione dei salari hanno comportato una riduzione della domanda che è stata uno dei fattori scatenanti della crisi e comporta difficoltà sempre maggiori a superarla.

 

L’entità dei debiti pubblici è stata aggravata dal fatto che, man mano che aumentano, gli Stati sono costretti a offrire tassi d’interesse sempre più alti a chi sottoscrive i buoni del tesoro, fino a dover chiedere prestiti per pagare gli interessi sui prestiti precedentemente chiesti. In Italia questo processo ha ricevuto un forte impulso all’inizio degli anni 80 dalla decisione dell’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e del governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi di vietare alla Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti, per evitare il rischio d’inflazione. Il risultato fu un forte innalzamento degli interessi sui titoli. In dieci anni il debito pubblico raddoppiò, salendo dal 60 per cento del Pil nel 1982 al 120 per cento nel 1993. (L. Gallino, op. cit., pagg. 66-67). Da trent’anni gli interessi ammontano a 90 – 100 miliardi all’anno su un totale di 2.135 miliardi nel 2014, mentre nello stesso anno il valore del Pil è stato di 1.613 miliardi. (L. Gallino, op. cit., pagg. 100–101).

 

Le due proposte formulate per superare la crisi sono state, da una parte le politiche di austerity finalizzate a ridurre i debiti pubblici riducendo sostanzialmente la spesa sociale, dall’altra le politiche keynesiane finalizzate ad aumentare la domanda attraverso i debiti pubblici in modo da rilanciare la crescita del prodotto interno lordo e di ridurre il rapporto debito/PIL. Le politiche di austerity deprimono la domanda e aggravano la crisi. Il loro totale fallimento è stato dimostrato dai fatti. Le politiche keynesiane non aumentano soltanto i debiti finanziari, ma i debiti a carico delle generazioni future e i debiti nei confronti della natura, poiché aumentano il prelievo di risorse da trasformare in merci e le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera. Inoltre non tengono conto del fatto che, rispetto agli anni trenta del secolo scorso il rapporto tra tecnosfera e biosfera è completamente cambiato: le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera sono aumentate da 270 a 410 parti per milione, innescando una mutazione climatica di cui si stanno iniziando a sentire i primi effetti destinati ad aggravarsi; nel settore delle fonti energetiche fossili il rapporto tra l’energia investita per ricavare energia e l’energia ricavata è sceso dal valore di 1 a 100 misurato negli anni trenta del novecento, al valore di 1/8 misurato negli anni novanta; l’overshoot day, il giorno in cui l’umanità arriva a consumare tutte le risorse rinnovabili che la biosfera genera in un anno, è sceso alla metà di agosto; negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica vaste come gli Stati Uniti; la popolazione mondiale è passata da 2 a 7 miliardi; la fertilità dei suoli agricoli è diminuita; la fauna ittica è stata dimezzata.

 

In alternativa a queste due prospettive, che finora non sono state in grado di superare né la crisi economica, né la crisi ecologica, il Movimento per la decrescita felice propone che vengano adottate misure di politica economica e industriale finalizzate a incentivare l’adozione di innovazioni tecnologiche che consentano di ridurre gli sprechi e di accrescere l’efficienza con cui si trasformano le risorse naturali in merci. Cioè di realizzare una decrescita selettiva e guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni. Se aumenta l’efficienza con cui si utilizzano le risorse e si riducono gli sprechi, oltre a ridurre l’impatto ambientale si risparmia del denaro, con cui si possono pagare i costi d’investimento delle tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse. Si mette in moto un circolo economico virtuoso creando un’occupazione utile che paga i suoi costi con i risparmi che consente di ottenere. Fa crescere la domanda senza aggravare né i debiti pubblici, né l’impatto ambientale.

 

Se al centro della politica economica e industriale si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze al livello dei peggiori edifici dell’Alto Adige, i consumi per il riscaldamento si ridurrebbero dei due terzi, scendendo dalla media attuale di 200 kilowattora (all’incirca 20 litri di gasolio, o 20 metri cubi di metano) a 70 kilowattora al metro quadrato all’anno. Poiché gli edifici assorbono per il solo riscaldamento invernale un terzo dei consumi totali di energia alla fonte, quanta ne brucia tutto l’autotrasporto nel corso di un anno, si ridurrebbero del 20 per cento sia le nostre importazioni di fonti fossili, sia le nostre emissioni di anidride carbonica. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.

 

Due suggerimenti operativi in conclusione.

 

Un incentivo all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza sostegni di denaro pubblico, può essere costituito dall’uso delle forme contrattuali che caratterizzano, o meglio, dovrebbero caratterizzare, le energy service companies – esco -: società energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici ristrutturati si impegnano a pagare per il riscaldamento, o per l’illuminazione, la stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione per il numero di anni necessario a coprire con i risparmi economici conseguenti al risparmio energetico i costi d’investimento e gli utili della esco. Al termine di questo periodo, che viene indicato dalla esco al momento della stipula del contratto, i risparmi economici vanno a beneficio dei proprietari degli edifici o degli impianti. La durata degli anni necessari a recuperare gli investimenti è inversamente proporzionale all’efficienza ottenuta. La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché, essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici inferiore a quella che calcolato, incassa meno denaro di quello previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.

 

Il circolo economico virtuoso descritto può trovare un volano decisivo in una sorta di patrimoniale energetica sugli immobili, che può essere gestita in due modi. Il proprietario dell’immobile, paga la patrimoniale e lo Stato la utilizza per ristrutturarlo energeticamente, restituendo ogni anno al proprietario l’equivalente del risparmio economico conseguente al risparmio energetico ottenuto, fino all’estinzione della tassa pagata. Oppure il proprietario dell’immobile, invece di pagare la patrimoniale, fa eseguire in proprio la ristrutturazione energetica e incassa direttamente i risparmi.

 

Interventi analoghi si possono effettuare smettendo di rendere definitivamente inutilizzabili le materie prime secondarie contenute negli oggetti che vengono portati allo smaltimento, invece di recuperarle attraverso una raccolta differenziata gestita con criteri economici. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso degli oggetti conferiti in discarica o all’incenerimento, meno se ne portano e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime secondarie occorre venderle. Più se ne vendono e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri la selezione deve essere effettuata accuratamente. Il recupero e la vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi consente di creare un’occupazione utile, di recuperare il denaro necessario a pagarne i costi e di ridurre l’impatto ambientale dei rifiuti. Le ragioni dell’economia e le ragioni dell’ecologia vanno di pari passo grazie alla riduzione di uno spreco inammissibile.

 

La decrescita selettiva degli sprechi è l’unica via d’uscita da una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane inaccettabili. L’assurdità della situazione che stiamo vivendo è dimostrata dal fatto che, mentre il numero dei disoccupati ha raggiunto livelli inaccettabili, non si fanno una serie di lavori che sarebbe indispensabile fare per ridurre la crisi economica, ridurre la crisi ambientale e migliorare la qualità della vita. Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e contemporaneamente non fa fare i lavori più necessari, che pagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del prodotto interno lordo. Prima ce ne libereremo e meglio sarà.

 

 

23 gennaio 2016

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“Destra e sinistra addio” su Il Fatto Quotidiano

Allego di seguito la pagina de “ilFattoQuotidiano” di oggi, in cui è pubblicato uno stralcio del mio ultimo libro “Destra e sinistra addio” ed. Lindau

Buona lettura

Anticipazione da FATTO

24 gennaio 2016 a Roma anteprima nazionale di “Destra e sinistra Addio”

Domenica 24 gennaio 2016, alle ore 10.30 presso Citta’ Dell’ Altra Economia in Largo Dino Frisullo, 00153 Roma, presenterò il mio ultimo libro : “Destra e sinistra addio. per una nuova declinazione dell’uguaglianza” ed. Lindau, 2016

L’incontro, organizzato dal circolo MDF di Roma, si terrà nella sala convegni della Città dell’Altra Economia – largo Dino Frisullo (Metro B Piramide)

modera Filippo La Porta – saggista, giornalista e critico letterario italiano

introduce Lucia Cuffaro – vice pres. Movimento per la Decrescita Felice

qui di seguito l’evento facebook da condividere

Vi aspetto in tanti.