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Lo spreco di cibo vale 15,5 mld all’anno: quasi l’80% si fa in casa

 

Ogni anno 15,5 miliardi di euro di cibo finiscono nella pattumiera, un valore pari allo 0,94% del Pil. Un dato riconducibile per la maggior parte allo spreco domestico che rappresenta i 4/5 del totale. Sono le stime elaborate sulla base dei test ‘Diari di Famiglia’ eseguiti dal ministero dell’Ambiente con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroalimentari dell’Università di Bologna e con Swg, nell’ambito del progetto Reduce 2017, a un anno dall’entrata in vigore della Legge per la limitazione degli sprechi, l’uso consapevole delle risorse e la sostenibilità ambientale, la cosiddetta Legge Gadda.

Nel dettaglio vale oltre 3,5 miliardi annui lo spreco alimentare nella sola filiera, ovvero dai campi (946.229.325 euro) alla produzione industriale (1.111.916.133 euro), agli sprechi nella distribuzione (1.444.189.543 euro). A questa cifra vanno aggiunti i 12 miliardi dello spreco domestico reale (quello percepito si ferma a 8 miliardi).

I dati scientifici dei ‘Diari di Famiglia’, condotti le scorse settimane su un campione statistico di 400 famiglie di tutta Italia, saranno resi noti nell’ambito di un convegno internazionale a febbraio 2018, in occasione della quinta Giornata Nazionale di Prevenzione dello Spreco alimentare. Ogni giorno, per una settimana, 400 famiglie hanno annotato su formulari composti da parti compilative e chiuse il cibo gettato ad ogni pasto, con annessa motivazione, sul modello realizzato dal Wrap, in Inghilterra, che ha realizzato l’esperimento sul campione più ampio in assoluto (più di 100 famiglie).

Intanto cresce fra i cittadini la sensibilizzazione intorno al tema spreco: l’Osservatorio Waste Watcher (Last Minute Market/Swg) stima che 7 cittadini su 10 sono a conoscenza della nuova normativa e oltre il 91% considera grave e allarmante la questione spreco legata al cibo, mentre l’81% dei cittadini si dichiara consapevole che il cambiamento deve avvenire innanzitutto nel quotidiano.

Per questo la campagna Spreco Zero 2017, con il progetto Reduce, ha introdotto ‘Waste Notes’, il Diario settimanale scaricabile online che sensibilizza la famiglia sullo spreco del cibo. “Lo spreco si annida soprattutto vicino a noi – spiega il responsabile scientifico di Reduce, Luca Falasconi – Il progetto ci permette di capire che proprio la quotidianità delle nostre azioni determina la produzione di spreco alimentare, ogni giorno. Il frigo, la dispensa, e le mense scolastiche sono tra i principali luoghi dove ogni giorno cibo ancora perfettamente buono e sano inizia il suo percorso verso la discarica”.

“Lo spreco alimentare è un tema su cui sensibilizzare innanzitutto i giovani, dai bimbi ai millennials della generazione Z: perché saranno loro a guidare il mondo – spiega il direttore scientifico della Campagna europea di sensibilizzazione ‘Spreco Zero’ di Last Minute Market Andrea Segrè – Fra gli obiettivi prioritari di Spreco Zero permane la proclamazione di un Anno Europeo sullo Spreco alimentare, una questione globale richiede campagne capillari per lo meno a livello dei paesi Ue”.

“Sosteniamo da cinque anni e con grande convinzione il progetto Spreco Zero e ci auguriamo che ottenga risultati sempre maggiori in un’ottica di uso consapevole delle risorse da parte di cittadini e imprese e di sostenibilità ambientale”, ricorda Luciano Bacoccoli, Responsabile Territorial Relations&Claims Centro Nord di Unicredit.

Fonte: Adnkronos.it

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Decrescita e demografia

Sulla mia pagina FB recentemente è sorto un piccolo dibattito sulla necessità o meno di una decrescita demografica.

Su tale delicato argomento ho scritto in passato diverse cose che ho raccolto in un mio famoso e fortunato libro:

“La decrescita felice”, nuova edizione, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2009, pagg. 162-165

Qui di seguito riporto per tutti quanto voi l’estratto specifico. Spero possa servire per comprendere meglio la problematica e per aprire ulteriori piste di riflessione e ricerca.

 

“Se la preoccupazione per la crescita della popolazione mondiale è motivata dal fatto che comporta un consumo di risorse superiore alla capacità bioriproduttiva del pianeta, la decrescita della popolazione mondiale va perseguita in prima istanza nei paesi sviluppati, che hanno un’impronta ecologica pro capite molto superiore alla capacità bioriproduttiva del pianeta, e non nei paesi sottosviluppati, la cui impronta ecologica è molto più bassa. Si potrebbe obbiettare che in questi paesi è più alto il tasso di natalità, mentre in quelli è già basso. La domanda che ci si deve porre allora è per quale ragione ciò avvenga. A questo proposito occorre sgombrare il campo dalle interpretazioni culturali, che mettono l’accento sul maggior peso delle religioni nei paesi più poveri e arretrati, o meglio dell’oscurantismo religioso che ostacola le pratiche contraccettive, e sul basso livello d’istruzione che determina una ignoranza diffusa sia della fisiologia riproduttiva che delle pratiche contraccettive. Non che questi elementi non ci siano e non esercitino il loro peso, ma sicuramente una causa ben più importante è la consapevolezza dell’alta incidenza della mortalità infantile, che dipende dalla povertà reale, cioè dalla mancanza del necessario per vivere, per prevenire le malattie e per curarsi. La specie umana appartiene alla classe dei mammiferi e tutti i mammiferi generano un numero tanto maggiore di piccoli quanto più bassa è l’aspettativa che possano diventare adulti e procreare a loro volta per dare continuità alla specie. Quanto più alta diventa l’aspettativa della durata della vita, tanto più diminuisce il tasso di natalità. Non c’è religione o ignoranza che possano contrastare strategicamente questa tendenza, come dimostra la storia dei popoli occidentali nell’ultimo secolo, compresi quelli in cui il cattolicesimo è la religione dominante. Ma la possibilità di sopravvivenza dei piccoli dipende dal superamento della povertà reale, non monetaria, a cui i popoli sottosviluppati sono costretti dal fatto che la loro impronta ecologica pro capite è inferiore alla media perché l’impronta ecologica dei paesi sviluppati la supera, sottraendo loro ciò che è necessario per vivere. E ciò avviene non tanto perché a causa del loro egoismo e della loro insensibilità non si curano di sottrarre a chi non ha il necessario quanto serve per alimentare il loro superfluo e i loro sprechi, ma perché il sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci ha bisogno di un apporto crescente di risorse, altrimenti crollerebbe trascinando con sé nella rovina tutto il sistema sociale. Al contrario di quanto usualmente si pensa, non è vero che un’economia della decrescita non si può realizzare se non smette di crescere la popolazione mondiale, ovvero se non si riduce il tasso di natalità dei paesi sottosviluppati, mentre invece il tasso di natalità dei paesi sottosviluppati può smettere di crescere soltanto se l’economia dei paesi sviluppati non viene più finalizzata alla crescita. Non è la crescita demografica a impedire la decrescita economica, ma la crescita economica a impedire la decrescita demografica.

Affinché si riduca il tasso di natalità dei paesi con un’impronta ecologica pro capite inferiore alla media sostenibile dal pianeta, occorre che aumenti la loro aspettativa di durata della vita e, di conseguenza, la loro disponibilità di risorse. Affinché ciò avvenga senza aggravare l’insostenibilità causata dai paesi con un’impronta ecologica pro capite superiore alla media, occorre che l’impronta ecologica di questi paesi diminuisca. Affinché ciò avvenga senza causare uno sconvolgimento della loro organizzazione sociale e senza suscitare reazioni di massa negative, occorre uno sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui usano le risorse e un cambiamento profondo degli stili di vita in modo che la riduzione dell’impronta ecologica non comporti un peggioramento del benessere. Basta pensare che una parte significativa delle risorse utilizzate dalla percentuale dell’umanità con i consumi più alti non risponde a bisogni reali, ma alimenta sprechi che non sarebbe improprio considerare privi di senso, mentre invece un senso ce l’hanno perché sostengono la crescita economica aumentando sia l’offerta, sia la domanda di merci mediante il potere d’acquisto degli occupati nei settori dove si producono. Per sgombrare il campo dalle teorie che sostengono l’infinita espandibilità dei bisogni e si propongono di difendere la libertà di scelta degli acquirenti, basta prendere in considerazione gli sprechi senza alcuna utilità nei due settori strategici dei bisogni umani, l’energia e l’alimentazione, su cui sostanzialmente si basa il calcolo dell’impronta ecologica.

In relazione ai consumi energetici di fonti fossili, gli sprechi e le inefficienze in fase di trasformazione e negli usi finali ammontano almeno al 70 per cento. Raddoppiare l’efficienza nell’uso di queste risorse non presenta particolari difficoltà, per cui senza aumentare l’impronta ecologica è possibile raddoppiare il numero delle persone che ne possono disporre. Se a ciò si aggiungono le possibilità offerte dalle fonti rinnovabili, questo risultato si potrebbe ottenere anche con una riduzione dei consumi di fonti fossili. In relazione all’alimentazione tre sono i tipi di sprechi oggettivi che estendono l’impronta ecologica senza apportare alcuna utilità, creando anzi danni spesso irreversibili. In primo luogo nei paesi ricchi la quantità del cibo che si butta lungo la filiera che parte dalla produzione, passa attraverso la grande distribuzione e arriva ai consumatori, ammonta al 3 per cento del prodotto interno lordo. Secondo il rapporto Agrimonde dell’Inra (Institut National de la recherche agronomique), in questi paesi ogni giorno si buttano 800 calorie di cibo pro capite. Se così non fosse, tutti gli esseri umani potrebbero avere le 3000 calorie quotidiane necessarie al loro metabolismo. In secondo luogo l’agricoltura chimica e le filiere lunghe o lunghissime (sempre più spesso intercontinentali) hanno un’impronta ecologica tanto rilevante quanto inutile. Quanta energia brucia e che senso ha far arrivare da altri continenti cibi che possono essere coltivati nelle regioni in cui abita chi li utilizza? Altrettanto vale per il consumi di energia necessari a coltivare prodotti agricoli fuori stagione. In terzo luogo non bisogna dimenticare l’impronta ecologica dell’alimentazione carnea. Poiché il tasso di conversione delle proteine vegetali in proteine animali è molto basso e raggiunge il minimo nelle carni bovine dove è di 16 a 1, ovvero occorrono 16 proteine vegetali per ottenere una proteina animale, l’adozione di un regime alimentare vegetariano (più sano e meno nocivo per la salute umana) ridurrebbe l’impronta ecologica consentendo di vivere senza privazioni a 11 miliardi di individui, ben più dei 9 indicati dai demografi come il limite massimo che si raggiungerà nel 2050. Se prima di quella data la popolazione mondiale non si ridurrà in conseguenza di una riduzione dell’impronta ecologica dei popoli sviluppati che consenta di allungare le aspettative di vita dei popoli sottosviluppati.”