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Massimo Angelini, “Participio Futuro”, Pentàgora, Savona 2015. RECENSIONE

Dafni Ruscetta

Esiste un modo delicato, penetrante, poetico di descrivere il nostro tempo. E’ quello di Massimo Angelini, filosofo ligure, ricercatore di bellezza in controcorrente, ‘eretico’ dei nostri giorni. La delicatezza, l’equilibrio, la saggezza e la poesia, rimangono nell’aria per molto tempo dopo un suo intervento, dopo uno dei tanti racconti appartenenti alla narrazione che porta in giro per l’Italia, per esprimere una visione del mondo alternativa, ‘eretica’ appunto. Massimo Angelini è anche autore di pubblicazioni sulla storia delle mentalità, sulle tradizioni rurali, sul sacro e sulla visione simbolica della realtà. Tutti elementi che accomunano quegli studiosi – guarda caso quasi mai aderenti al mainstream accademico tradizionale – e moderni ‘predicatori’ di un mondo nuovo, di un paradigma culturale realmente differente per una rinnovata fase della storia dell’umanità.

Nel suo ultimo libro, ‘Participio Futuro’, Angelini mette insieme un vasto repertorio di considerazioni filosofiche, antropologiche e socio-culturali provenienti dalla lunga esperienza di osservazione delle tradizioni contadine della sua terra. Così si sviluppano riflessioni sulla necessità di nuovi simboli per la nostra cultura, sull’importanza della parola (spesso oggetto di artifici linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società), sulla differenza tra segno e significato, tra cultura ed erudizione, tra cultura e intrattenimento, tra proprietà e custodia dei luoghi, tra razionalità e narcisismo; riflessioni sulla frammentazione dell’uomo, sull’assenza di archetipi, sul consenso comune e sulle comunanze, sulla metafisica del mondo rurale e sulla circolarità dell’esistenza, sull’arte e sulla bellezza.

Il simbolo, scrive Angelini, è elemento di unità, ricomposizione dell’unità spezzata. Dopo il tentativo degli uomini di dare la scalata al cielo gli dei decisero di punirli: allora Zeus stabilì di tagliarli in due parti, condannandoli a cercare la parte mancante per ritrovare l’unità. La frammentazione, la scissione tra corpo e spirito, la spaccatura di un mondo simbolico (cioè unitario) ha modificato la capacità di concepire la realtà e noi al suo interno. E’ su questa frattura che s’innesta la modernità, rovesciata al proprio interno fino alla completa perdita di sensi, all’insensibilità del contesto. Un distacco che rescinde i legami, spezza la comunità degli uomini, riducendola a un “arcipelago di solitudini”. Le donne e gli uomini chiusi nel proprio io, nelle proprie astrazioni, vivono in un’apnea esistenziale. Fuori da una visione simbolica e concreta, fuori dall’unione di tutto quanto è nella realtà, alla lunga resta la frammentazione progressiva, fino alle sue estreme conseguenze: la specializzazione esasperata, il relativismo che sotto l’abito borghese della tolleranza maschera l’indifferenza, il distacco dalla realtà che manifesta la virtualità, il primato dell’astrazione, il disprezzo verso il corpo, la non realtà. Angelini ricorda ancora come il contrario di ‘simbolico’ sia ‘diabolico’. Diabolico è, dunque, questo nostro tempo fondato sulla separazione, sulla frattura, sullo scisma interiore e comunitario. E non basta nemmeno la fede, perché senza simboli e segni visibili fatti di gesti, parole, oggetti, essa rischia di essere astratta, eterea, e perciò non comprensibile, perché i simboli rendono visibile e concreto il contatto con il piano della trascendenza.

Angelini ricorda poi l’importanza della parola. E’ il modello di tanta parte del parlare vuoto che in questi decenni ha inquinato la comunicazione pubblica e il mestiere della politica. “La parola” – scrive riferendosi agli artifici linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società – “non può essere usata con leggerezza. Il suo uso impone responsabilità, perché ogni limite alla comprensione porta con sé conseguenze di espropriazione ed espulsione sociale. Con la frammentazione dell’unità della conoscenza nel particolarismo e nell’iperspecializzazione si sono moltiplicate le barriere linguistiche per escludere dalla comprensione chi non appartenga alle corporazioni che pretendono di detenere il sapere in forma di monopolio”.

Da qui il passo per una definizione nuova di cultura è breve: la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. La cultura – ecco il nucleo della nuova definizione di Angelini – porta a crescere, ad elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti tra le persone. Chi invece parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non eleva, non fa crescere, ma inaridisce. Di per sé, un lungo addestramento scolastico e l’accumulazione di informazioni non hanno propriamente a che fare con la cultura. Lo stesso dicasi per l’uso della parola ‘cultura’ nell’attuale civiltà dello spettacolo, in cui essa viene utilizzata per lo più come sinonimo di ‘intrattenimento’ e occupazione del tempo libero.

Ci sono un sentire e un pensare umano che si formano, si raffinano, si correggono, si integrano e si tramandano nel tempo lento delle generazioni, che riflettono la verità del consenso comune e anche solo per questo testimoniano che nessuno è vissuto invano. Anche questo è cultura. Le esperienze comuni a tutti contribuiscono a formare un patrimonio di sensibilità e conoscenze condivise. E da queste esperienze nasce tanta parte del senso comune che si forma nel tempo e che nel corso del tempo si consolida. Sulle esperienze (precedenti) si fonda ampia parte del sapere della gente, prima di ogni grado di istruzione, ed è un sapere che nasce da un rapporto con il mondo diretto, quotidiano, manuale, sensoriale, emozionale, che parla il linguaggio dell’evidenza: quello che tutte le persone possono facilmente condividere; è un sapere che si forma nel corso degli anni e dei secoli. I gesti e le sensibilità condivise dalla gente hanno in sé un elevato grado di aderenza alla realtà interiore delle cose che non necessita di dimostrazioni. In quei gesti c’è il lascito di un’intera umanità e la compresenza di più mondi. Sono segni, oggetti, comportamenti che animano la metafisica concreta del mondo contadino, una relazione con il tempo e con lo spazio informata dalla circolarità, dalla sincronia, dalla ripetizione appunto, dal ritmo.

Con lo smarrimento della fiducia nei sensi, l’evidenza è stata sostituita da teorie che contraddicono l’esperienza comune a tutti…”Ma io dubito che l’esplorazione dello spazio, la sua militarizzazione e la pervasività delle comunicazioni satellitari abbiano reso il mondo migliore e le persone più felici”.
Angelini conclude con un messaggio positivo: “in fondo, basterebbe ridare a ciò che ci circonda il proprio posto e a noi il nostro…riconoscere che il razionalismo è una forma cinica di superstizione e le ideologie incubatrici di idolatria; che la bellezza esiste e non ha a che fare con ciò che piace. “Orientati al ringraziamento e al bene comune e alla ricomposizione simbolica della realtà, quando siamo allineati alle sensibilità e alle certezze vagliate nel tempo delle generazioni, uniti con i padri dei nostri padri e con i figli dei nostri figli, non abbiamo bisogno di affermare nulla di nuovo”.