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“Destra e sinistra addio”: Maurizio Pallante e una nuova declinazione dell’uguaglianza

“Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono”.

 

L’ultimo saggio di Maurizio Pallante, Destra e sinistra addio, è in un certo senso il sedimentato culturale di un processo di evoluzione teorica cominciato dall’autore ormai vent’anni fa, con Le tecnologie d’armonia (Bollati Boringhieri, Torino 1994), e proseguito con l’elaborazione della sua «decrescita felice», che si caratterizza per i richiami all’autoproduzione e alla proposta di riduzione selettiva di tutte quelle merci che non sono beni, e che in alcun modo possono diventarlo.

 

Da decenni Pallante critica il modo di produzione industriale della società tecnologico-capitalista, che si sta dirigendo – ormai, forse, senza alcuna possibilità di recupero – verso la catastrofe. Tuttavia in questa sua ultima fatica, non si limita ad osservare gli aspetti critici della razionalità economica occidentale, ma si spinge fino al cuore. Al centro.

 

E spingersi al centro significa mettere in discussione le categorie culturali e politiche che hanno creato le condizioni per considerare positivamente l’attuale modo di produzione industriale, responsabile di una crescita economica – con annesso disastro ambientale – senza precedenti. E le categorie fondamentali di cui si parla sono quelle della destra e della sinistra. Parole, queste, che negli ultimi duecento anni hanno distinto chi riteneva le diseguaglianze tra gli esseri umani costitutive e naturali (destra), e chi al contrario le considerava di origine sociale, e quindi riducibili con accorgimenti politici ed economici adeguati (sinistra).

 

Il saggio Destra e sinistra addio si manifesta al momento opportuno. E non solo, si badi, perché la politica italiana (ma è forse diverso altrove, nel vasto mare occidentale?) palesa una mediocrità costitutiva, ma proprio perché destra e sinistra operano ovunque sulla base di una comune valutazione positiva del modo di produzione industriale, ch’è ormai giunto al capolinea. Entrambe considerano le rivoluzioni industriali un progresso rispetto al passato, salvo poi distinguersi quanto alla modalità di distribuzione dei benefici. Entrambe hanno concorso a spingere masse di persone dalle campagne alle città, trasformando milioni di contadini in milioni di proletari al servizio del grande capitale. La storia ha poi mostrato che le politiche della destra sono più efficaci per far crescere l’economia e la competizione di quelle di sinistra. E i risultati di questa razionalità sventurata sono, ormai, sotto gli occhi di tutti.

 

Ma veniamo al saggio. Per capirne appieno il senso è necessario intanto riflettere sul titolo. Dire Destra e sinistra addio non equivale a sostenere che la destra è uguale alla sinistra. D’altronde lo stesso autore mette più volte in risalto le differenti pulsioni: quelle della destra alla disuguaglianza, e della sinistra all’uguaglianza. Ma la pulsione all’uguaglianza, è questo un nodo cruciale, non è prerogativa assoluta della sinistra. Pallante afferma a ragione, infatti, che la pulsione all’uguaglianza preesiste alla sinistra e le sopravviverà.

 

A partire da questa considerazione, diventa fondamentale allora soffermarsi sul sottotitolo del saggio: Per una nuova declinazione dell’uguaglianza. È appunto qui il segreto: l’uguaglianza. L’uguaglianza oltre la sinistra.

 

Questa impostazione, per essere compresa appieno, richiede una riconsiderazione ontologica del tutto. Necessita di un ripensamento delle relazioni in senso orizzontale non solo fra esseri umani, bensì anche fra esseri umani e contesto naturale (di cui l’essere umano fa parte). L’uomo non è più il signore della terra, ma è un modo d’essere fra altri modi d’essere che compartecipano all’unico essere.

 

Pallante nota, allora, come per ripensare la società in modo ecologicamente sostenibile, sia fondamentale mettere in discussione l’antropocentrismo che caratterizza l’occidente in senso violento.

 

Maurizio Pallante

Maurizio Pallante

 

In queste pagine, mi pare si aprano spazi nuovi, utopie che baluginano all’orizzonte e che – richiamandosi esplicitamente a una spiritualità costitutiva dell’essere – creano le condizioni per un ripensamento cosmocentrico della cultura, della società, della politica e del mercato.

Destra e sinistra, conservatori e progressisti sono figure della contrapposizione, figlie della scissione ontologica, dell’opposizione tra la tesi e l’antitesi in vista di una sintesi, che in qualunque modo la si metta, è sempre violenta. Pallante, invece, invita a ripensare il mondo, e le parole che lo costituiscono, ripartendo dal singolo che non si pone più su un piedistallo rispetto al contesto. E quel singolo-in-relazione è il medesimo a cui si rivolge anche Papa Francesco nella sua Laudato si’: «bisogna operare il bene, dal momento che il male esercitato sul mondo è male fatto a se stessi». Tutto è in relazione. Perché l’essere è tutto, e niente è fuori dall’essere.

 

Questa nuova visione del mondo è troppo grande e complessa per poter essere espressa e compresa politicamente dalle categorie di destra e di sinistra. Qui c’è di più. C’è quella visione del mondo che si sottrae alla volontà di sopraffazione per lasciarsi dire ancora, ancora e ancora da una parola polisemica, che spalanca spazi di poesia. Quella poesia del vivere in comunione col creato e con la natura a cui tutti noi afferiamo, senza distinzione.

 

In questo senso – e per molti altri, che ognuno di voi saprà indicare – Destra e sinistra addio è un libro che si manifesta in un tempo opportuno. Perché se ci sarà ancora la possibilità di un domani, destra e sinistra dovranno appartenere necessariamente a un dolorosissimo passato.

Alessandro Pertosa

Fonte: Italiachecambia.org

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DALL’ATTUALITÀ ALLA PROSPETTIVA DEL FUTURO:

Pubblico di seguito l’intervento che l’amoco Paolo Farinella ha tenuto lo scorso 3 marzo a Genova durante la presentazione del mio ultimo libro.

Ringrazio Paolo per l’attenzione che rivolge a me e ai miei scritti e prima ancora per l’impegno che mette nel cambiamento quotidiano verso una società migliore per tutti. Dove nel tutti è contemplato anche il Creato.

Maurizio Pallante

 

 

Presentare Maurizio Pallante è diventato difficile perché c’è il rischio di cadere nell’agiografico o nella derisione dei circoli liberal-conservative che considerano la crescita come il vangelo del loro futuro perché non corrono mai il rischio d’interrogarsi sul presente. Parlare, quindi di «decrescita» nell’accezione filosofico morale in cui ne parla Pallante – perché non è semplicemente un «crescere meno, ma un crescere giusto e meglio –, è antimoderno, spesso bucolico e forse anche infantile. Roba da non addetti ai lavori. Voglio correre questo rischio perché conosco Maurizio Pallante di cui orgogliosamente mi considero amico.

Ascoltandolo privo di superiorità saccente, ma con il cuore dell’apprendimento, ho maturato la mia anima e il mio pensiero e gli sono grato per avermi spalancato le porte e l’interesse a un mondo che è rimasto – a mio modesto avviso – l’unico possibile. Devo essere grato a Manuela Cappello e al marito Giacomo Grappiolo che per primi me lo hanno presentato, invitandolo a Genova. Se nei tempi iniziali della globalizzazione, si gridava lo slogan «Un altro mondo è possibile» per opporsi a un selvaggio assalto alla diligenza dei diritti, della terra, dell’energia, dell’acqua e delle risorse, oggi, anche con l’aiuto di Maurizio Pallante, siamo obbligati a prendere coscienza che «l’unico mondo possibile» è quello proposto da lui.

Oggi egli ha il conforto di avere avuto anche l’imprimatur ufficiale di Papa Francesco che nell’enciclica «Laudato si’» fa sue, in modo ufficiale, le prospettive della decrescita, capovolgendo il punto di vista: non più partendo dalla crescita «cieca e sorda», ma dai bisogni reali delle persone e dalla finitezza della terra che quindi, come tutte le cose finite, non può crescere all’infinito, ma deve essere accudita, custodita e protetta. In sostanza sia il Papa sia Maurizio mettono in guardia dal rischio, ormai in fase avanzata di pericolo, di fare saltare il tappo, dando origine a una deflagrazione – un Big Ben – alla rovescia che ha già messo in cantiere la distruzione totale non solo del Pil, ma della terra stessa.

Paradossalmente, il libro che presentiamo, «Destra e sinistra, addio», non ha come obiettivo la decrescita o i meccanismi per raddrizzare il mondo distorto dai comportamenti umani, ma è un libro che oserei definire il più spirituale di quelli che Maurizio ha scritto. Puntuale nei dati, cifre, numeri, fonti e storia, è un libro diverso. Penso che i suoi libri precedenti, compreso «Monasteri per il terzo Millennio», fossero funzionali a questo che – vedi il titolo! – sembra occuparsi di politica quotidiana, «Destra e sinistra Addio», ma occorre stare attenti a non cadere nel tranello. Sono convinto che l’editore l’abbia fatto apposta: chi si sente ancora di sinistra e chi persiste ancora a considerarsi di destra sono toccati da questa perentoria affermazione di «addio», dichiaratamente esequiale. Come «addio»?

Nel sec. XI, parlando de suo tempo, Bernardo di Chiaravalle, riferendosi alla Roma antica e quindi alla civiltà del suo tempo, disse in un celebre verso, reso famoso, modificato, da Umberto Eco: «Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus – Roma antica esiste solo per il nome (è un ricordo): noi conserviamo, infatti, soltanto i nudi nomi» (Bernardo di Chiaravalle, De contemptu mundi, lib. 1, v. 952). Se vogliamo uscire dal nominalismo senza sussistenza, occorre fare ricorso al «pensiero» e questo libro è un opera di pensiero e di memoria.

Di pensiero perché è alta filosofia non perché s’interroga «si Deus sit», ma perché ci riporta al centro della questione esistenziale, attraverso un linguaggio avvolgente, un discorrere piano e accattivante: siamo sicuri di essere vivente e non già avviati a morte certa? Cosa vuol dire esistere, vivere e progettare? Il libro, pur a questo livello, si legge bene, senza fatica, ma con riposo interiore, misto a sofferenza per non essere stato, in quanto lettore, consapevole per tempo del potere di modificare le condizioni. Pensare è l’arte difficile per oggi e lo sarà ancora di più domani e per questo urge porsi la domanda filosofica e spirituale insieme del «Dove ci troviamo in questo momento?», o se volete «Qual è il senso della nostra esistenza adesso e quale prospettiva di vita ciascuno di noi ha della propria e della storia collettiva?».

Non siamo giunti a questo punto dell’economia sociale perché siamo caduti dal pero, ma perché siamo arrivati ai nodi che sono conseguenza di scelte storiche. Il libro fa anche questo: ci restituisce la memoria perché ci riporta a vivere le premesse storiche, politiche, economiche e sociali che hanno generato le conseguenze che ci stanno condannando in modo irreversibile. Memoria non come ricordo di un passato da rimpiangere, ma come assunzione di un compito che si estende nel tempo, ieri, oggi, domani, passando di generazione in generazione. In questa prospettiva diventa «memoriale», cioè sentirsi fisicamente parte viva e protagonista, responsabile nel bene e colpevole nel male di tutto ciò che accade qui o all’emisfero sud o al polo nord o all’equatore, luoghi cioè che non abbiamo mai visto prima.

Già alle pp. 10-17, cioè nel «Prologo» poche pennellate sono sufficienti per capire il senso storico della caduta del muro di Berlino, di cui sentiamo la polvere addosso ancora oggi; segue il cambio del nome del PCI; alla nota 1 di p. 13 troviamo la notizia di due e-mail segrete spedite da Tony Blair a Bush, in cui un anno prima della decisione, il liberale di S. M. Britannica si dichiarava pronto ad entrare in guerra a fianco degli Usa. Oggi lo stesso Blair sostiene di avere sbagliato e che la guerra contro l’Iraq era illegittima perché basata su false prove costruite a tavolino.

La parte caratteristica del libro sono i riquadri, vere perle a se stanti, che allargano l’orizzonte: nel primo alle pp. 18-20 si parla dello scenario della Germania vista con gli occhi della Volkswagen e di quello della Cina: tutti e due questi giganti dell’economia di crescita sono condannati a diminuire i posti di lavori umani, sapendo che questa scelta inciderà sulla domanda, per cui devono a tutti i costi crescere, ma potranno farlo solo con i robot. Se però diminuiscono i posti di lavori, ci sarà meno ricchezza e quindi caleranno i compratori con la conseguenza che i robot aumenteranno la produzione, ma Germania e Cina non sapranno a chi vendere quello che producono.

Nel riquadro delle pp. 158-160 si descrive il passaggio «dalla Democrazia Cristiana a Forza Italia», attraverso meccanismi e processi che ci fanno capire noi stessi e le ragioni delle nostre scelte anche partitiche, anche di voto, e, io aggiungo, anche stupide e superficiali. Alle pp. 80-81 facciamo la scoperta di cosa sia accaduto in Sardegna nel secolo scorso: cosa è stato distrutto e per quali ragioni. L’ultimo riquadro, il più lungo, alle pp. 208-221 ci offre un sintetico ed efficace riassunto con chiave di lettura dell’enciclica «Laudato si’» di Papa Francesco.

Il sottotitolo del libro è la chiave di esso: «Per una nuova declinazione dell’uguaglianza». La declinazione è la struttura grammaticale delle lingue più importante dopo il verbo, perché riguarda il soggetto e la sua funzione all’interno della frase, del periodo, del discorso, di un testo. In greco, in latino, in tedesco, in polacco, in russo soccorrono i casi, nelle lingue neolatine, invece, la declinazione è segnata dall’uso diversificato dell’articolo.

In un tempo in cui la disuguaglianza è diventata la norma dell’economia di crescita e la conseguenza del mercato e delle politiche capitaliste e neocapitaliste, parlare di declinazione dell’uguaglianza significa centrare la prospettiva sui bisogni reali delle persone che vivono all’interno di un tessuto relazionale comunitario come misura e controllo delle disponibilità delle risorse della terra.

Persona e creato portano nel loro DNA l’uguaglianza perché l’uno e l’altro possono esistere solo in funzione reciproca nel rispetto e non nella sopraffazione, nella mutua reciprocità e non nella supremazia di uno sull’altra. Uguaglianza non è un mito ideologico di stampo comunista, ma il metodo economico che si basa su un substrato spirituale perché ciascuno prende coscienza di essere parte di un tutto vivo e mai padrone senza confini d’ingordigia e voracità. Uguaglianza intesa come dimensione della giustizia che è fondamento della democrazia basata sui diritti e sui doveri (Cost. it., artt. 2 e 3), cioè sul senso di responsabilità politica che il singolo vive e assume nei confronti della propria comunità umana dove vive e realizza il proprio progetto di vita e il proprio sogno di futuro.

L’uguaglianza è sinonimo di proporzione tra individuo, comunità di persone, umanità e cosmo. Se ci deve essere un vantaggio, questo deve appartenere al cosmo che è affidato alla nostra cura e al nostro discernimento, memori del mandato biblico – per i credenti – di Gen 2,15 che nel testo ebraico ha questo tenore: «Dio pose Àdam nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse/sorvegliasse/preservasse». Il primo verbo ebraico «‘abad» è applicato a chi presta servizio a Dio o all’ambasciatore del sovrano nel senso di «servo», titolo onorifico; il secondo verbo «shamàr» è usato nella Bibbia per «custodire/osservare» i comandamenti di Dio, quindi assenso religioso.

In questa prospettiva – è il compito filosofico che Maurizio Pallante svolge egregiamente – occorre ripensare il rapporto tra religione ed economia (cap. 7, pp. 145-157) su «Religione oppio dei popoli?», che può instaurare un rapporto perverso fino alla sudditanza della prima dalla seconda, se accetta compromessi come la storia dimostra. Oppure sul rapporto tra «povertà e ricchezza» (cap. 6, pp. 127-144) dove si dimostra la superiorità delle «relazioni umani solidali [che] sono più importanti del denaro per la felicità delle persone» (p. 127, nota 1); la scoperta del dono come fondamento di una economia «altra» che è il modo per porre un rimedio alla pazzia della crescita senza fine che è l’irrazionale che rende impossibile ogni possibilità umana.

Grazie Maurizio Pallante per questo bel «dono» che ci obbliga, sì!, a declinare l’importanza che ciascuno di noi può essere, se vuole, per il mondo intero.

Paolo Farinella, prete.

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La visione del mondo espressa nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco.

L’Enciclica Laudato si’ (=LS) analizza le cause e gli effetti dei più gravi problemi ambientali con un’accuratezza scientifica che non trova riscontri in nessun altro documento firmato da un leader politico o religioso. Tuttavia è riduttivo considerarla un testo ecologista, perché la crisi ecologica viene analizzata come la manifestazione più grave di una crisi di civiltà che sta causando sofferenze sempre maggiori non solo alla specie umana, ma a tutte le specie viventi. «Ciò che sta accadendo – scrive Papa Francesco – ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale».[1] E, citando la Carta della Terra, approvata all’Aja nel 2000, afferma: «Come mai prima d’ora nella storia il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio» (n. 207). In tutta l’Enciclica questo concetto viene ribadito più volte: siamo alla fine di un’epoca storica ed è necessario costruire su fondamenta culturali completamente diverse una nuova fase della storia umana. Nella premessa vengono indicati gli assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica:

 

«L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (n. 16).

 

Il secondo di questi assi, «la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso», che ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella fitta rete di relazioni in cui tutte sono inserite, ha il suo fondamento nell’ecologia, la disciplina scientifica che studia le interazioni degli organismi viventi tra loro e con gli ambienti in cui vivono, fondata nella seconda metà del diciannovesimo secolo dal biologo e zoologo tedesco Ernst Haeckel. Da questa concezione fondata scientificamente deriva una conseguenza di carattere filosofico, da cui il papa deduce anche un’indicazione etica e comportamentale

 

«Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna deve essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ogni territorio ha una responsabilità nella cura di questa famiglia, per cui dovrebbe fare un accurato inventario delle specie che ospita, in vista di sviluppare programmi e strategie di protezione, curando con particolare attenzione le specie in via d’estinzione». (n. 42)

 

Nell’Enciclica il valore in sé di ogni specie vivente non viene riconosciuto soltanto filosoficamente sulla base delle acquisizioni scientifiche dell’ecologia, ma riceve una connotazione spirituale, derivante dalla concezione del mondo come creato e dei viventi come creature, a cui il Creatore ha assegnato una collocazione specifica nel suo disegno divino. Non è necessario credere nella visione religiosa di Papa Francesco per capire che in questo contesto tutti i viventi ricevono una valorizzazione ulteriore:

 

«Dunque, si capisce meglio l’importanza e il significato di qualsiasi creatura, se la si contempla nell’insieme del piano di Dio. Questo insegna il catechismo: «L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e diseguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre». (n. 86)

 

Se ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella rete delle relazioni che la interconnettono a tutte le altre, il male subito da ognuna di esse si ripercuote su tutte, anche su chi lo commette:

 

«… essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge a un rispetto sacro, amorevole e umile. Voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione». (n. 89 che cita Francesco, Esort. Ap. Evangeli gaudium, (24-11-2013), n. 215).

 

La consapevolezza della pari dignità di ogni specie vivente e della necessità di ognuna di esse nella fitta trama delle relazioni che le connettono tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, non consente di considerarle risorse al servizio della specie umana, come è stato fino ad ora nelle società industriali.

 

«Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in se stesse e noi potessimo disporne a piacimento. Così i Vescovi della Germania hanno spiegato che per le altre creature “si potrebbe parlare di priorità dell’essere sull’essere utili”». (n. 69).

 

La convinzione che tutte le specie viventi siano al servizio della specie umana, non è soltanto la causa di fondo della crisi ecologica, ma genera anche gravi conseguenze sociali, perché induce gli esseri umani a competere per impadronirsene e favorisce i più forti a danno dei più deboli.

 

«Sarebbe […] sbagliato pensare che gli altri viventi debbano essere considerati come meri oggetti sottoposti all’arbitrario dominio dell’essere umano. Quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse, ciò comporta anche gravi conseguenze per la società. La visione che rinforza l’arbitrio del più forte ha favorito immense diseguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità, perché le risorse diventano proprietà del primo arrivato, o di quello che ha più potere: il vincitore prende tutto. L’ideale di armonia, di giustizia, di fraternità e di pace che Gesù propone è agli antipodi di tale modello, e così Egli lo esprimeva ai poteri del suo tempo: «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt, 20, 25-26). (n. 82)

 

La visione del mondo e dei rapporti tra la specie umana e le altre specie viventi delineata da questi passaggi dell’Enciclica capovolge i due capisaldi, strettamente interconnessi tra loro, su cui si è fondata la cultura europea a partire dal diciassettesimo secolo e si è successivamente sviluppata la rivoluzione industriale:

  • una concezione dell’antropocentrismo come superiorità ontologica della specie umana su tutte le altre specie viventi, da cui deriverebbe il suo diritto di utilizzarle ai suoi fini, che trovò la sua formulazione filosofica più compiuta nel pensiero del filosofo francese René Descartes (Discorso sul metodo, 1637);
  • una concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi, che fu formulata dal filosofo inglese Francis Bacon qualche anno prima (Novum Organum, 1620).

 

Questa concezione dell’antropocentrismo, che papa Francesco definisce deviato, è stata dedotta da un’interpretazione di due passi del libro della Genesi in cui viene descritta la creazione dell’uomo. Nel primo racconto più recente (sec. VI-V a.C.) si legge che Dio, dopo averlo creato a sua immagine e somiglianza, gli affidò il compito «di dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». (Gen 1,26)

Nel secondo racconto (più antico, sec. IX-X a.C.) è scritto che «il Signore rapì l’uomo e lo depose nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». (Gen 2,15) Commentando questi passaggi, Papa Francesco respinge l’interpretazione che attribuiscano agli esseri umani il compito, e quindi il diritto, di dominare e utilizzare ai propri fini gli altri viventi, come è stato sostenuto in passato dalla Chiesa stessa, ma sostiene che il potere derivante dal fatto di essere gli unici viventi ad essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio, un Dio che agisce per amore («l’amor che move il sole e l’altre stelle», scrive il papa citando (cfr n. 77) La Divina Commedia di Dante (Par. XXX, 145), conferisca ad essi la responsabilità di proteggere e avere cura di tutti gli altri:

 

«Dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. […] Mentre coltivare significa arare o coltivare un terreno, «custodire» vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e di garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, «del Signore è la terra» (Sal 24,1), a Lui appartiene «la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti (Lv 25,23)». (n. 67)

 

Non solo Papa Francesco respinge la lettura antropocentrica di questi passaggi biblici, ma ne ricava due indicazioni che conferiscono una connotazione spirituale alle scelte comportamentali e politiche rispettose confronti della terra. La prima: «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future», definisce la differenza tra l’agricoltura organica, che potenzia e regolarizza la naturale fertilità dei suoli arricchendone il contenuto humico, e l’agricoltura chimica, che per estrarne la maggiore produzione possibile li impoverisce mineralizzandoli.

La seconda: «Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25, 23)», conferisce un valore universale a scelte storiche e giuridiche come l’articolo 42, comma 2, della Costituzione italiana, che recita: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Per capire la rivoluzione culturale insita nella lettura fatta da Papa Francesco di questi passaggi della Bibbia, occorre leggere l’interpretazione che ne è stata, data appena cinquant’anni prima, da un altro Papa, Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio.

 

«“Riempite la terra e assoggettatela”, (Gen 1, 28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla a valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. […] Il recente concilio l’ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, di modo che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità. (Const. past. Gaudium et spes, n. 69)». (Pop. Pro., n. 1)

 

Paolo VI era indotto a scrivere queste righe nel 1967 dalla constatazione delle profonde diseguaglianze esistenti tra una minoranza dell’umanità, i popoli ricchi, che disponeva di una quantità sovrabbondante di beni, e la maggioranza dei popoli, a cui mancava il necessario per vivere dignitosamente, o semplicemente per vivere. Attraverso l’Enciclica chiedeva ai popoli ricchi, che dal 1949, a partire dal discorso d’insediamento alla Casa Bianca del presidente americano Harry Truman, venivano definiti sviluppati, di aiutare i popoli poveri a superare la miseria in cui vivevano, di favorire il loro sviluppo, fornendo ad essi l’assistenza tecnologica necessaria per ricavare dalla natura le risorse necessarie ad aumentare la quantità di beni a loro disposizione.

Paolo VI ha esercitato i suoi mandati al vertice della Chiesa cattolica, come pro-segretario di Stato dal 1944 al 1954, come arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963 e come papa dal 1963 al 1978: nei trent’anni dal 1945 al 1975 che gli economisti francesi chiamano gloriosi, in cui nei paesi europei e negli Stati Uniti si è realizzata una crescita economica straordinaria, priva di corrispettivo negli altri Paesi del mondo. La cultura progressista di quel periodo riteneva che il modello economico e produttivo dei paesi ricchi fosse buono, anzi il migliore mai apparso nella storia, perché creava ricchezza, ma che fosse ingiusto perché non la distribuiva equamente.

A partire da queste premesse Paolo VI sollecitava i Paesi sviluppati a sostenere con l’apporto delle loro tecnologie i Paesi sottosviluppati, affinché potessero aumentare la loro capacità di sfruttare le risorse della terra e trasformarle in beni. Le componenti progressiste della cultura industriale pensavano che l’obbiettivo etico di una maggiore equità tra gli esseri umani si potesse ottenere aumentando il dominio della specie umana sulle altre specie viventi, perché la percezione che questo dominio fosse una iniquità era stata cancellata dalla convinzione che esse nell’ordine divino fossero state poste al suo servizio.

In meno di cinquant’anni le applicazioni tecnologiche fondate su un antropocentrismo così duro e assoluto hanno sortito l’effetto contrario di impoverire sempre di più i popoli sottosviluppati, a cui i popoli sviluppati hanno sottratto in misura sempre maggiore «i beni della creazione» per alimentare la loro crescita economica, hanno persuaso i popoli sviluppati che il senso della vita consista nell’acquistare quantità sempre maggiori di merci da buttare nei rifiuti sempre più in fretta, hanno causato sofferenze indicibili a un numero sempre più ampio di specie animali, hanno superato la capacità della terra di fornire alla megamacchina industriale le materie prime da trasformare in merci e di metabolizzare gli scarti generati dalla produzione e dall’uso delle merci.

Oltre ad aggravare le ingiustizie nei confronti dei popoli sottosviluppati, le tecnologie finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, hanno provocato alterazioni sempre più gravi degli ecosistemi, in particolare dei fattori climatici, che verranno pagate in misura sempre maggiore dai popoli sottosviluppati, accrescendo ulteriormente le loro sofferenze e la loro povertà. L’iniquità della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi oltre ad essere stata la principale causa della crisi ecologica, ha aumentato anche le iniquità tra gli esseri umani.

A cinquant’anni di distanza, Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ capovolge la visione antropocentrica sostenuta da Paolo VI affermando che tutto nel mondo è intimamente connesso, che le altre specie viventi non sono risorse a disposizione della specie umana, ma hanno la loro necessità e la loro dignità, che il male fatto a ognuna di esse si ripercuote su tutte le altre, esseri umani compresi, in particolare sui più poveri. E ne deduce che la riduzione delle iniquità tra gli esseri umani e la riduzione delle iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi sono intrinsecamente correlate, che non si può perseguire l’una senza perseguire anche l’altra, che l’aggravamento di una aggrava anche l’altra. Nel Cantico delle Creature la percezione dei legami che connettono tutte le specie viventi tra loro, con i fattori abiotici e con i luoghi in cui vivono, è espressa da San Francesco in termini di rapporti fraterni. Dà una valenza ulteriore, empatica ed etica, alla consapevolezza scientifica che ne abbiamo oggi. Scrive il papa che salendo al soglio pontificio ha voluto prendere il nome del poverello di Assisi:

 

«[…] quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone». (n. 92)

 

Il modo di perseguire l’equità indicato da Paolo VI costituisce la variante progressista cattolica della cultura industriale. Il modo indicato da Francesco I è una critica radicale del modo di produzione industriale. Per riprendere le argomentazioni sviluppate da Norberto Bobbio nel suo libro Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica, la destra rappresenta la tendenza culturale e politica che ritiene naturali e immodificabili le diseguaglianze esistenti tra gli esseri umani, mentre la sinistra è la tendenza opposta che si propone a favorire l’eguaglianza.

Pertanto la posizione di Paolo VI, per quanto possa sembrare strano sostenerlo, rientra culturalmente nell’ambito della sinistra. È la componente della sinistra che fonda la pulsione all’eguaglianza sull’idea della fratellanza umana. Non ha niente a che fare con la componente della sinistra che si propone di perseguirla con la lotta di classe, anzi ne è sempre stata l’antagonista vincente. La posizione di Papa Francesco non rientra nella sinistra, anche se è stata interpretata così, sia dalla sinistra, sia dalla destra, perché non si limita a criticare l’iniquità con cui i più forti gestiscono ai danni dei più deboli un modello economico di cui si valuta positivamente la capacità di creare ricchezza e benessere, ma indica esplicitamente nella finalizzazione della produzione al profitto, che caratterizza questo modello, la causa sia dell’iniquità sociale, sia del degrado ambientale che accresce ulteriormente l’iniquità sociale perché le sue conseguenze più gravi vengono pagate dai più poveri.

 

«Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento». (n. 195)

 

Individuando la causa del degrado ambientale nella finalizzazione dell’economia al profitto, la critica di Papa Francesco non si appunta sul capitalismo, che non viene mai nominato nella Laudato si’ (a differenza della Populorum Progressio, che invece lo chiama in causa), ma si riferisce al modo di produzione industriale, di cui il capitalismo è la variante vincente a livello mondiale, dopo la sconfitta della variante socialista, sancita definitivamente nel 1989 dall’abbattimento del muro di Berlino. La sua critica ha per oggetto la razionalità strumentale, da cui sono accomunate entrambe le varianti del modo di produzione industriale: il capitalismo e il socialismo.

 

«La razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è presente sia quando assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore». (n. 195)

 

L’Enciclica di papa Francesco supera la contrapposizione tra l’ideologia liberista e l’ideologia socialista, che ha caratterizzato la dialettica culturale e politica nell’epoca storica in cui si è sviluppato e si è gradualmente esteso a tutto il mondo il modo di produzione industriale. Indica nella finalizzazione dell’economia al profitto la causa di una crisi ambientale e di una crisi sociale interdipendenti tra loro, che non possono essere risolte all’interno di questo modello economico e produttivo. Propone alcuni cambiamenti radicali, nella tecnologia, negli stili di vita, nella concezione del progresso, nel sistema dei valori, come anticipazioni di un paradigma culturale alternativo da costruire. «Si attende ancora – scrive il papa – lo sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli». (n. 121).

Impossibile non capire che si riferisca alla contrapposizione tra le varianti dell’ideologia liberista e le varianti dell’ideologia socialista. Inevitabile che suscitasse diffuse incomprensioni, per lo più da sinistra, critiche rabbiose, per lo più da destra, interpretazioni distorte. Ma anche un grande interesse in tutti coloro che non sono stati appiattiti dal consumismo sulla dimensione materialistica della vita e hanno mantenuto viva la loro spiritualità. Di coloro che non ritengono che lo scopo della vita sia produrre sempre di più per consumare sempre di più e consumare sempre di più per poter continuare a produrre sempre di più.

La finalizzazione dell’economia alla crescita del profitto richiede l’uso di tecnologie sempre più potenti che aumentano in continuazione la produzione di merci. E di conseguenza il prelievo di risorse da utilizzare nei processi produttivi e le emissioni di sostanze non metabolizzabili dalla biosfera. Se l’economia continuerà ad essere finalizzata alla crescita, la crisi ecologica e la crisi sociale si aggraveranno fino al collasso perché le risorse della terra non sono infinite, né è infinita la sua capacità di metabolizzare le emissioni dei cicli produttivi e dell’uso dei prodotti.

 

«Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». [Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 462]». (n. 106)

 

Anche se non ne è diffusa la consapevolezza, scrive Papa Francesco, la causa di fondo della crisi ecologica è la crescita economica. E, se la crisi ecologica è strettamente interconnessa con la crisi sociale, come viene ripetuto più volte nell’Enciclica, è inevitabile dedurne che è anche la causa delle iniquità tra gli esseri umani e tra i popoli. «Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica». (n. 109)

Non dovrebbe stupire che da queste premesse il pontefice abbia dedotto, suscitando l’indignazione delle vestali della crescita e di chi ne ricava benefici e potere, che sia «[…] arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti» (n. 193). In questa frase i termini crescita e decrescita non vengono usati nel loro significato economico di aumento e diminuzione del valore monetario dei beni finali scambiati con denaro nel corso di un anno, e quindi con l’aumento e la diminuzione del reddito pro-capite, perché, se così fosse, si ricadrebbe nell’interpretazione dell’equità come estensione ai popoli poveri del modello economico dei popoli ricchi, basato sulla crescita dell’iniquità nei confronti di tutti gli altri viventi.

Il concetto è espresso in termini di risorse, cioè di una diminuzione dei consumi di risorse della terra da parte dei popoli che hanno più del necessario, al fine di aumentare la quantità di risorse utilizzabili dai popoli che hanno meno del necessario per sostenere una loro crescita economica sana, cioè diversa da quella non compatibile con i limiti della biosfera dei popoli ricchi.

Anche se sarebbe stato auspicabile un approfondimento di questi concetti, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo.

Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino ad ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa apertura di Papa Francesco indica il nuovo inizio che, secondo la Carta della Terra, approvata all’Aia nel marzo del 2000, il destino comune ci obbliga a cercare.

 

24 novembre 2015

 

 

 

 

[1]             Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato sì’, (24 maggio 2015), n. 114; cfr anche n. 63. D’ora in poi la citazione avverrà nel testo con l’indicazione del numero arabo che accompagna i relativi paragrafi.