Articoli

, ,

Sostenibilità, equità, solidarietà. Tre pilastri per un manifesto politico

 

Nei miei scritti precedenti ho cercato di descrivere e di accennare i fondamentali di un progetto culturale e politico. Le tematiche sono tante e le sto approfondendo in un libro di prossima uscita.

Mi piace donarvi quello che secondo me possono essere tre valori che facciano da base ad un vero programma politico.

Tre valori che non trovano riscontro nei programmi di nessuno dei partiti esistenti, perché costituiscono i pilastri di un paradigma culturale diverso da quello vigente nelle società in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci: la sostenibilità ambientale, un’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, la solidarietà. Si tratta di tre valori che si sostengono reciprocamente e, anche se apparentemente possono sembrare dettati da un idealismo ingenuo, hanno una grande concretezza perché non sono definiti soltanto in termini etici, ma sono sostenuti da argomentazioni scientifiche. Se non si rispettano, non si viola una legge morale o una legge giuridica, che rispondono a criteri di valutazione soggettivi, variabili nello spazio e nel tempo, ma si generano reazioni di causa ed effetto che possono avere conseguenze molto negative sulla specie umana, fino a determinarne l’estinzione.

 

 

 

Sostenibilità.

 

La parola sostenibilità esprime un concetto molto preciso, anche se l’abuso che ne viene fatto, in buona e in cattiva fede, l’ha svuotata del suo significato, rendendola una sorta di giaculatoria necessaria e sufficiente per essere considerati politicamente corretti. Riferita all’insieme delle attività produttive umane, la sostenibilità indica che non consumano una quantità di risorse rinnovabili superiore a quelle che la biosfera è in grado di rigenerare annualmente, non emettono una quantità di scarti biodegradabili superiore a quelli che la biosfera è in grado di metabolizzare annualmente, non utilizzano sostanze di sintesi chimica non metabolizzabili dalla biosfera, non riducono la capacità della biosfera di rigenerare risorse rinnovabili e di metabolizzare scarti biodegradabili (come, per esempio, fanno la deforestazione, l’estensione delle superfici ricoperte da materiali inorganici, la concimazione chimica dei terreni agricoli). Riferita a una singola attività produttiva indica che non produce, né utilizza, sostanze di sintesi chimica non metabolizzabili dalla biosfera, non riduce la sua capacità di rigenerare annualmente risorse rinnovabili, non riduce la sua capacità di metabolizzare annualmente le emissioni di sostanze biodegradabili.

Se l’umanità consuma annualmente più risorse rinnovabili di quelle generate dalla fotosintesi clorofilliana, deve intaccare il patrimonio degli stock accumulati nel corso dei secoli e dei millenni, impoverendoli e riducendo progressivamente la loro capacità di rigenerarsi. Se le sue attività emettono più anidride carbonica di quella che viene assorbita dalla fotosintesi clorofilliana, le quantità eccedenti si accumulano in atmosfera accentuando l’effetto serra e aggravando la crisi climatica. Se producono quantità crescenti di rifiuti non biodegradabili, aumentano le porzioni della superficie terrestre dove la vita soffoca sotto i loro cumuli e l’aria e il ciclo dell’acqua vengono avvelenati dalle loro emissioni. Se consuma una quantità di pesci superiore alla loro capacità di riprodursi, avvia l’estinzione delle specie ittiche che consuma, mettendo in moto un processo che si estende progressivamente anche alle altre. Se si aggravano questi fenomeni e gli altri che hanno superato i limiti della sostenibilità ambientale, i loro effetti si rafforzano vicendevolmente, fino a raggiungere un livello in cui è impossibile arrestarli, e il cammino dell’umanità verso l’autoannientamento diventa inevitabile.

Se si oltrepassa la soglia della sostenibilità, ammesso che non sia già stata oltrepassata, le iniquità sociali aumentano, perché a pagarne le conseguenze – dalla riduzione della disponibilità di cibo e di energia alle alluvioni, dalla salinizzazione dei suoli agricoli alla mancanza di acqua potabile, dalle conseguenze devastanti degli eventi meteorologici estremi alla necessità di migrare  – saranno soprattutto i popoli più poveri e le classi sociali più povere dei popoli ricchi, come sta già accadendo. Non si può perseguire una maggiore equità sociale se non impegnandosi a perseguire la sostenibilità ambientale. E non si può perseguire la sostenibilità ambientale se non impegnandosi per estendere l’equità alle generazioni future e ai viventi non umani.

 

Equità nei confronti delle generazioni future.

 

Per circa mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale, nei Paesi sviluppati le condizioni di vita dei figli sono costantemente migliorate rispetto a quelle dei padri. Questa tendenza si è invertita nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando le condizioni di vita dei figli hanno cominciato a essere peggiori di quelle dei padri. Negli ultimi venti anni il divario tra giovani e anziani è aumentato e attualmente le condizioni di vita dei nipoti sono peggiori di quelle dei nonni. Un recentissimo rapporto della Caritas italiana documenta che il reddito medio delle famiglie con capofamiglia di 18-34 anni è meno della metà di quello del 1995, mentre il reddito delle famiglie con capofamiglia di almeno di 65 anni è aumentato di circa il 60 per cento.[1]

Viene spontaneo domandarsi, ma nessuno lo fa, se il progressivo peggioramento delle prospettive di vita delle giovani generazioni non dipenda dal fatto che si sono trovate sulle spalle i debiti accesi dallo Stato e dalle amministrazioni locali negli anni sessanta e settanta, per pagare:

– le opere pubbliche con cui è stata sostenuta la crescita economica negli anni del boom;

– i costi del welfare state di cui hanno goduto i ventenni / trentenni sopravvissuti agli eccidi della guerra e i loro figli nati nei primi anni del dopoguerra: la generazione dei baby boomers.

Quanti dei servizi sociali che hanno garantito livelli crescenti di benessere materiale a partire dagli anni sessanta sono stati finanziati a debito e pagati dalle generazioni successive, che per di più se li sono visti ridurre per ridurre i loro deficit di gestione? Quante opere pubbliche clamorosamente inutili, rese desiderabili nell’immaginario collettivo dalla propaganda martellante dei mass media, sono state finanziate a debito perché accontentavano le esigenze di tutti i partiti politici e di tutte le classi sociali, offrendo agli imprenditori commesse e profitti che altrimenti non avrebbero avuto, e rispondendo al contempo all’esigenza dei sindacati di creare occupazione? Quanto hanno influito nell’incentivare le migrazioni di massa dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’edilizia e all’industria? Di quanto queste spese in deficit hanno fatto aumentare i consumi di risorse e di energia, di quanto ne hanno ridotto le disponibilità e aumentato i costi a carico delle generazioni future? Si pensi alla prima crisi energetica, scoppiata improvvisamente nel 1973, dopo un quarto di secolo di consumi crescenti e di sprechi di fonti fossili, incentivati dai prezzi irrisori. Di quanto le spese in deficit fatte nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale hanno fatto aumentare le emissioni metabolizzabili e le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera, lasciando in eredità a chi doveva ancora nascere varie forme d’inquinamento e un mondo meno ospitale? Si pensi all’Italsider di Taranto, alla diossina fuoriuscita dall’Icmesa a Seveso, alle aziende più inquinanti in assoluto su cui si è fondato lo sviluppo del mezzogiorno, alle piogge acide, al buco dell’ozono, all’effetto serra.

Quella delle opere pubbliche, spesso inutili, finanziate in deficit è una storia in più puntate, che si sono ripetute sempre uguali a se stesse, dalle Olimpiadi di Roma del 1960 alle opere realizzate a Torino per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia nel 1961 e lasciate in abbandono subito dopo, dagli stadi costruiti per i mondiali di calcio del 1990 (lo stadio Delle Alpi a Torino fu demolito dopo appena 18 anni), agli impianti per i mondiali di nuoto a Roma nel 1994 e nel 2009 (in parte non finiti), alle strutture realizzate per Olimpiadi invernali del 2006 a Torino, che hanno fatto salire il debito della città a una cifra pari al 228 per cento delle sue entrate annuali. Il solo pagamento degli interessi nel 2016 ha assorbito il 22 per cento del bilancio comunale. Per saldarlo il Comune dovrà pagare ogni anno 24 milioni di euro fino al 2040. Coloro che non avevano ancora 18 anni quando sono iniziate le opere, e quindi non hanno votato alle elezioni amministrative, i bambini nati successivamente e quelli che nasceranno entro il 2040, ammesso che la scadenza venga rispettata, ringraziano.

Queste oggettive iniquità nei confronti delle generazioni future, derivanti da scelte finalizzate ad accrescere il benessere materiale delle generazioni presenti, si sono verificate in tutti i Paesi sviluppati, facendo crescere la domanda di merci più di quanto non avrebbe potuto fare il reddito disponibile. Hanno comportato pertanto un incremento dei consumi di risorse e delle emissioni, fornendo un contributo decisivo all’insostenibilità che caratterizza i rapporti attuali tra le attività umane e la biosfera. Smettere di fare debiti per accrescere i consumi delle generazioni presenti è indispensabile non solo per estendere l’obbiettivo politico dell’equità alle generazioni future e ridurre la forma d’iniquità più odiosa, perché penalizza chi non può difendersi, ma anche per ricondurre il prelievo delle risorse e le emissioni entro i limiti della sostenibilità ambientale. Come si potrebbe però superare la chiusura egoistica nei propri interessi immediati, che caratterizza le società in cui il benessere è stato identificato col possesso di cose, se la solidarietà non tornasse a essere il fondamento dei legami sociali? Se questo obbiettivo politico non fosse sostenuto da una profonda motivazione etica? Se non si tornasse a provare per le più giovani delle generazioni viventi e per le generazioni future quel senso di protezione e di cura che la specie instilla negli individui per garantirsi la continuità nel tempo?

 

Equità nei confronti dei viventi non umani.

 

La causa principale dell’effetto serra sono gli allevamenti industriali, dove gli animali destinati all’alimentazione dei popoli ricchi vengono riprodotti meccanicamente, richiusi in spazi dove non possono nemmeno girarsi dal momento della nascita al momento in cui vengono uccisi, nutriti con pastoni che ne accelerano la crescita in tempi molto più brevi di quelli naturali. Per coltivare il foraggio, i cereali e la soia con cui vengono alimentati, si abbattono le foreste e si riduce la fotosintesi clorofilliana. Le fermentazioni enteriche dei ruminanti emettono metano, un gas 26 volte più opaco dell’anidride carbonica alla radiazione infrarossa, in quantità che contribuiscono a incrementare l’effetto serra più delle emissioni generate dalla combustione delle fonti fossili. Per ridurre questi fattori d’insostenibilità ambientale occorre ridurre l’iniquità con cui la specie umana tratta gli animali d’allevamento come se fossero machinae animatae, per riprendere la definizione di Cartesio. Ma come si può riuscire in questo intento, superando le resistenze di coloro che traggono profitto dagli allevamenti industriali, se non cresce il numero degli esseri umani che riducono il consumo di carne nella loro alimentazione, non solo per contribuire a ridurre il surriscaldamento globale, ma anche per alleviare la sofferenza di questi esseri viventi e senzienti?

Anche se la consapevolezza dell’insostenibilità degli allevamenti lager sta crescendo, e sta crescendo l’impegno a livello sociale per ridurre le iniquità esercitate dalla specie umana nei confronti degli animali che vi sono rinchiusi, aumenta il numero delle specie animali allevate industrialmente, in modi che non stravolgono soltanto la loro vita, ma anche la vita di altre specie viventi, vegetali e animali, compresi gli esseri umani, a cui sono connesse negli ecosistemi in cui vivono. Particolarmente estesi e gravi sono i problemi ambientali causati dall’allevamento dei gamberetti in acquacoltura. Oltre a provocare pesanti forme d’inquinamento localizzato – accumuli di cibo non consumato in putrefazione, escrementi, batteri, ammoniaca, fosforo, antibiotici, disinfettanti, pesticidi, fertilizzanti – per ricavare i bacini d’allevamento vengono abbattute lungo le coste tropicali ampie zone di foreste di mangrovie, impoverendo la ricchissima biodiversità vegetale e animale che custodiscono, riducendo la fotosintesi clorofilliana, provocando l’erosione dei suoli costieri, distruggendo la barriera di protezione che esse costituiscono contro gli uragani, i maremoti e la penetrazione dell’acqua salata nelle falde idriche e nei terreni agricoli vicini alla costa. La desertificazione che ne consegue costringe i contadini a emigrare in massa verso l’interno. Anche in questo caso la scelta di escludere i gamberetti dalla propria dieta è il modo più efficace di contrastare non solo l’iniquità con cui viene costretta a vivere in maniera del tutto innaturale una specie vivente non umana, ma anche il contributo all’insostenibilità ambientale che ne deriva e il peggioramento delle condizioni di vita di uno degli strati sociali più poveri dell’umanità. È una scelta etica con una forte connotazione politica. Non è motivata soltanto da un senso di giustizia, ma anche dalla solidarietà, dal coinvolgimento empatico nei confronti di chi paga più duramente le conseguenze di una scelta produttiva che accresce l’insostenibilità ambientale, senza nemmeno offrire in cambio qualche vantaggio irrinunciabile.

 

Non si può mettere vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo fa scoppiare gli otri, il vino si spande, e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo va messo in otri nuovi (Luca 5,37-38).

 

I valori della sostenibilità ambientale, della solidarietà, dell’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, sono incompatibili con la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. La solidarietà favorisce gli scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità riducendo la necessità di acquistare sotto forma di merci tutto ciò che è necessario per vivere. L’equità nei confronti delle generazioni future non consente di ampliare con i debiti pubblici la domanda espressa fisiologicamente dal mercato. L’equità nei confronti dei viventi non umani riduce i profitti derivanti dal loro sfruttamento. La crescita della produzione di merci non può non arrivare, prima o poi, a superare i limiti della sostenibilità ambientale.

Nessuno dei partiti politici presenti nelle istituzioni democratiche dei Paesi sviluppati ha un programma incardinato su quei valori. Pertanto, chi è convinto della loro importanza decisiva per il futuro dell’umanità e si propone non solo di metterli a fondamento delle proprie scelte esistenziali, ma anche di dedurne proposte di legge finalizzate a bloccare i processi che incrementano l’insostenibilità ambientale e a sviluppare processi che la riducano, non può non pensare di costituire un soggetto politico che li ponga al centro del suo programma. Questa connotazione sarebbe sufficiente di per sé a marcare la sua totale diversità dai partiti esistenti, ma a definirne ancor più nettamente i contorni è il fatto che la sua attività non potrebbe esaurirsi all’interno delle istituzioni, perché un nuovo sistema di valori non si può formare per via legislativa o deliberativa. Le leggi e le delibere sono strumenti indispensabili per orientare la politica economica, ambientale e sociale, ma non possono cambiare l’immaginario collettivo. L’identificazione del benessere col tantovere, del concetto di nuovo col concetto di migliore, della modernità con la fase più avanzata raggiunta provvisoriamente dalla storia, della ricchezza col denaro, la valorizzazione della concorrenza contro la collaborazione, non sono diventati per legge i valori che nei Paesi sviluppati orientano le scelte esistenziali delle persone. Lo sono diventati in conseguenza dell’azione sistematica di persuasione di massa svolta da una serie di agenzie a cui è stato affidato questo compito: i mass media, la scuola, la chiesa, i sindacati, i partiti politici, la pubblicità, l’industria culturale.

Le attività di un soggetto politico che incardini il suo programma sui valori della sostenibilità, della solidarietà, dell’equità estesa alle generazioni future e ai viventi non umani, non possono che essere la proiezione a livello istituzionale di un patrimonio di idee maturate nel confronto tra una pluralità di associazioni collegate tra loro non da vincoli organizzativi, ma da una comune volontà di costruire un paradigma culturale incentrato su quei valori: associazioni di volontariato sociale, associazioni culturali, gruppi religiosi e di ricerca spirituale, imprenditori e professionisti che operano per reindirizzare le innovazioni tecnologiche dall’incremento della produttività all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni, agricoltori che hanno abbandonato l’agricoltura chimica e sono tornati all’agricoltura organica implementandola con le conoscenze scientifiche che i contadini tradizionali non avevano, gruppi d’acquisto solidale, associazioni di artigiani che recuperano gli aspetti più interessanti delle corporazioni medievali, come il rifiuto della concorrenza reciproca e la trasmissione generazionale delle conoscenze attraverso l’apprendistato, insegnanti che valorizzano nella loro attività didattica la manualità e la collaborazione al posto della competizione, operatori della sanità che spostano il baricentro della medicina dalla cura delle malattie alla prevenzione primaria. Eccetera.

Entrando nelle assemblee elettive, un soggetto politico ignaro del loro funzionamento ed estraneo alla logica del potere corre il rischio non solo di commettere errori, ma soprattutto di assumere, anche senza accorgersene, le connotazioni negative insite nella forma partito lucidamente descritte da Simone Weil nel 1943, in un saggio che sarebbe stato pubblicato solo nel 1957, a 14 anni dalla sua morte, intitolato: Manifesto per la soppressione dei partiti politici.[2]

 

Un partito politico – scrive la Weil –  […] è un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte. Il fine primo e, in ultima analisi, l’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite. […] Un uomo che aderisce a un partito ha verosimilmente visto nell’azione e nella propaganda di quel partito cose che gli sono parse giuste e buone. Ma non ha mai studiato la posizione del partito relativamente a tutti i problemi della vita pubblica. Entrando a far parte del partito, accetta posizioni che ignora. Sottomette così il suo pensiero all’autorità del partito. Quando, poco a poco, conoscerà le posizioni che oggi ignora, le accetterà senza esaminarle.

 

Un iscritto a un partito, un candidato alle elezioni, un deputato non possono dire  pubblicamente:

 

«Ogniqualvolta esaminerò un qualunque problema politico o sociale, mi impegno a scordare completamente il fatto che sono membro del mio gruppo di appartenenza, e a preoccuparmi esclusivamente di discernere il bene pubblico e la giustizia».

 

Se lo facesse,

 

i meno ostili direbbero: «Perché, allora, ha aderito a un partito?». […] Quell’uomo sarebbe escluso dal suo partito, o per lo meno ne perderebbe l’investitura, non sarebbe certamente eletto. […] Ogni partito è una piccola Chiesa profana armata della minaccia della scomunica.

 

Un’associazione che si presenta alle elezioni non è un partito perché dichiara di non esserlo, ma se si organizza in maniera diversa dai partiti e agisce in maniera diversa da come agiscono. È un’ovvietà, ma vale la pena ribadirla perché a volte capita che la pratica vada in senso contrario alla teoria. La consapevolezza del rischio di diventare un partito è la massima precauzione che si può prendere per evitare di diventarlo, ma non una garanzia che consenta di evitarlo. Il problema da valutare è se valga la pena correrlo. La decisione va presa tenendo in considerazione il fatto che l’insostenibilità ambientale ha raggiunto il livello oltre il quale si autoalimenta e diventa impossibile tornare indietro. Basti pensare che l’anidride carbonica permane per secoli nell’atmosfera e ancora più lungo negli oceani. Anche si smettesse completamente di utilizzare le fonti fossili  – cosa assolutamente impossibile perché oggi soddisfano l’86 per cento del fabbisogno energetico mondiale – ci vorrebbe più di un secolo per scendere sotto la soglia delle 400 parti per milione, raggiunta stabilmente nel 2016. L’ultima volta che la Terra ha conosciuto un livello simile di anidride carbonica è stato tra i 3 e i 5 milioni di anni fa: la temperatura allora era tra i 2 e i 3 °C superiore a quella odierna e i livelli del mare da 10 a 20 volte più alti di quelli attuali.[3] Si può perseguire con la massima efficacia la sostenibilità ambientale rinunciando alla possibilità di usare uno strumento potente come quello legislativo per indirizzare la politica economica e industriale verso la decarbonizzazione? Per difendere i diritti delle generazioni future e degli animali negli allevamenti industriali?

Non bisogna inoltre dimenticare che in Italia, analogamente a quanto succede in tutti i Paesi sviluppati, la percentuale di votanti alle elezioni è scesa al di sotto del 50 per cento. La maggioranza degli aventi diritto al voto non si riconosce in nessun partito. Per i partiti esistenti non è un problema. L’importante per loro è conquistare il consenso della maggior parte dei votanti, perché è quello che consente di vincere le elezioni e governare. Chi non vota non influisce nella distribuzione dei seggi. Nelle loro valutazioni dei risultati elettorali i partiti fanno riferimento solo alle percentuali dei voti ricevuti sui voti espressi, non sulla totalità degli elettori. Per fare un esempio, il 40 per cento dei voti espressi sembra un successo da sbandierare ripetutamente, ma se si rapporta a una percentuale di votanti del 60 per cento, rappresenta in realtà il 24 per cento del corpo elettorale. Non tutti, però, sottovalutano il significato politico dell’astensionismo. Alcuni non pensano che possa essere considerato un dato politicamente ininfluente, ma ritengono che almeno in parte esprima una sfiducia crescente nei confronti di tutti i partiti e del loro modo di fare politica, per cui si propongono di costituire un nuovo partito alternativo a quelli esistenti, nella convinzione che ciò sia sufficiente a trasformare almeno una percentuale delle astensioni in voti a loro favore.

A fronte dell’arroganza di chi ignora il messaggio politico inviato dai non votanti perché non influiscono nella distribuzione dei seggi, l’attenzione rivolta a quel messaggio, per quanto espresso in forma negativa, è un segno di sensibilità democratica che merita apprezzamento. Tuttavia la convinzione che il problema si possa risolvere costituendo un nuovo partito contiene due errori di valutazione. Il primo consiste nel non tener conto che l’astensionismo molto probabilmente travalica la sfiducia nei partiti esistenti ed è rivolto alla forma partito proprio per i motivi indicati da Simone Weil. Lo prova il fatto che mentre il numero degli iscritti ai partiti si è drasticamente ridotto e nelle sezioni che sono rimaste aperte non si svolge più quel confronto sistematico tra eletti ed elettori che ne caratterizzava la vita, le persone che desiderano dare un contributo al bene comune hanno indirizzato il loro impegno nelle associazioni del volontariato.

Il secondo errore consiste nel credere che la crescita dell’astensionismo sia causata sostanzialmente dalla riduzione delle differenze tra la destra e la sinistra: i due poli della contrapposizione che  ha caratterizzato le dinamiche politiche nell’ottocento e nel novecento. Secondo questa chiave di lettura, la reazione di una parte dell’elettorato sarebbe stata: se tutti i partiti fanno proposte più o meno analoghe per risolvere i problemi sociali, economici e ambientali, senza peraltro risolverli perché in realtà pensano solo a mantenere i loro privilegi e i privilegi dei loro clientes, a che serve votare? Dal momento che la riduzione delle differenze tra la destra e la sinistra non è stata la conseguenza di un reciproco avvicinamento delle due parti, ma di un progressivo spostamento della sinistra verso destra, una parte significativa di coloro che non vanno a votare è costituita da ex elettori di sinistra delusi. Per recuperare quel voto gli esponenti della sinistra rimasta a sinistra si sono proposti di ricostituire un partito che ponga al centro del suo programma la tutela della democrazia, dei diritti dei lavoratori, del welfare state, della gestione pubblica dei servizi sociali, dei beni comuni.

I sostenitori di questa proposta non tengono conto del fatto che, in questa fase storica, l’impegno per una più equa redistribuzione tra le classi sociali del reddito generato dal lavoro non può essere disgiunto dall’impegno per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, per cui non può essere riproposto come è stato fatto dalla sinistra nei decenni passati. E l’impegno per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale non può essere considerato un obbiettivo settoriale di un programma politico, alla stregua della politica scolastica, della politica per la casa o della politica per la salute, ma è la cornice in cui collocare tutti gli obbiettivi settoriali, il fine ultimo a cui tutti devono essere indirizzati, perché nessuno di essi ha un senso se oltre a ridurre un’iniquità non contribuisce a evitare l’autoannientamento della specie umana.

Un soggetto politico che incardina il suo programma sulla sostenibilità, la solidarietà e l’equità estesa alla generazioni future e ai viventi non umani non si preoccupa d’intercettare i voti di coloro che attualmente si astengono o annullano la scheda, perché, non proponendosi di essere un partito, non pone a fondamento della sua attività la crescita dei suoi consensi elettorali. Il suo obbiettivo politico è favorire la traduzione delle astensioni consapevoli in impegno nei movimenti di resistenza ai progetti ecologicamente devastanti e nelle associazioni culturali, professionali e ambientaliste dove matura la consapevolezza dei rischi che l’umanità sta correndo e si formulano proposte per allontanarli. Saranno queste aggregazioni sociali, impegnate, ciascuna a suo modo, a perseguire l’obbiettivo della sostenibilità ambientale che le accomuna, a proporsi di raccogliere il voto di chi non si riconosce in nessuno dei partiti esistenti, per dare più forza al proprio impegno nella società con l’accesso al potere legislativo.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1]             Cfr. Futuro anteriore, Rapporto Caritas 2017 su povertà giovanili ed esclusione sociale in Italia.

[2]               Titolo originale: Note sur la supression générale des parties politiques, Éditions Gallimard, Paris 1957; I edizione italiana: Alberto Castelvecchi Editore, Roma 2008.

[3]               Cfr. il rapporto presentato a Ginevra il 30 ottobre 2017 dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo).

, ,

Pesca eccessiva e distribuzione incontrollata. Fao: “Uso responsabile delle risorse ittiche”

L’ultimo rapporto sullo Stato della pesca e dell’acquacoltura dell’agenzia dell’Onu segnala la preoccupante crescita del commercio e del consumo, che mette a repentaglio la biosostenibilità

di GIAMPAOLO CADALANU

 

Il miracolo di moltiplicare i pani, alla Fao lo sanno bene, è tutt’altro che facile. Ma ora serve anche qualcuno che sappia moltiplicare i pesci, perché la generosità degli oceani sta per raggiungere il limite. Le abitudini alimentari stanno cambiando in tutto il pianeta, l’attenzione ai prodotti della pesca aumenta, e secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia Onu sullo Stato della pesca e dell’acquacoltura ormai il consumo pro capite è arrivato a 20 chilogrammi l’anno, pari a circa il 6,7 per cento delle proteine totali. Il consumo è a livelli doppi rispetto agli anni Settanta, e cresce a ritmi molto superiori alla crescita della popolazione. Come dire che la passione per il pesce aumenta proprio mentre il patrimonio sottomarino dà evidenti segni di esaurimento. Ma più che un allarme, quello della Fao è un invito all’utilizzo responsabile, tanto più che l’allevamento è ormai in grado di fornire quasi la metà del pesce che finisce in tavola.

Secondo il rapporto dell’agenzia, “quasi un terzo degli stock di pesce sono prelevati a ritmi biologicamente insostenibili”, cioè a livelli triplicati rispetto a quarant’anni fa, con una velocità che non permette il ricambio. La situazione è ancora più preoccupante per il Mediterraneo e per il mar Nero: nelle acque di quest’ultimo il pesce pescato a livelli insostenibili raggiunge il 59 per cento. A rischio sono i pesci sui piatti di tutti i giorni: orate, merluzzi, muggini, sogliole. “Ormai i margini per aumentare le catture sono molto ridotti”, dice il biologo Alessandro Lovatelli, tecnico della Fao, “ci sono invece spazi di miglioramento nel sistema di distribuzione, è un’area in cui si può fare molto per evitare gli sprechi”.

Nel 2014 il prelievo ha raggiunto 93,4 milioni di tonnellate: in testa il merluzzo d’Alaska, definito “la più grande riserva di pesce commestibile nel mondo”, ha superato l’acciuga del Cile, ma è andata bena anche la pesca di tonno, gamberi, crostacei e cefalopodi. A inseguire il tesoro sommerso sono 4,6 milioni di barche da pesca, il 90 per cento attive nelle acque di Asia e Africa. E in gran parte si parla di attività di piccola scala: secondo il rapporto Fao solo 64 mila sono lunghe 24 metri o più.

L’esportazione del pesce “vale”, stando ai dati del 2014, attorno ai 148 miliardi di dollari: ma è fondamentale soprattutto per i paesi in via di sviluppo, che ne ottengono ricavi superiori all’esportazione di carne, tabacco, zucchero e riso messi insieme. Ma più che la pesca, la carta vincente è l’acquacoltura, attualmente in grado di produrre 73,8 milioni di tonnellate di pesce, crostacei e molluschi per l’alimentazione umana. E metà di questa produzione viene da specie non alimentate dall’uomo, e dunque non comporta il sacrificio di altre proteine sottraendole all’uso umano. “E bisogna smentire il mito della minore qualità del pesce allevato: in genere il prodotto dell’acquacoltura è più controllato, perché si può scegliere l’alimentazione e monitorare la fase di produzione primaria. Prendiamo il salmone: nonostante sia per la maggior parte di allevamento, è di fatto un pesce di qualità. Ha un prezzo elevato perché l’offerta non basta a soddisfare la domanda”, spiega Audun Lem, vice direttore della Divisione Politiche Ittiche e Acquacoltura della Fao: “Quello che conta è che il lavoro sia fatto bene e che si rispettino le buone pratiche. L’acquacoltura è un lavoro che non si può improvvisare, l’allevatore che sbaglia va fuori mercato”. Meno ottimista Serena Maso, della campagna Mare di Greenpeace, secondo cui “al momento l’acquacoltura comporta ancora problemi di inquinamento che ci fanno considerare più sostenibile il consumo di pesce pescato”.

A guidare il boom nell’allevamento subacqueo non sono in genere i Paesi sviluppati, a parte la Norvegia, che è il secondo esportatore mondiale: in testa c’è la Cina, ma anche Vietnam, Cile, Indonesia e tante nazioni africane stanno facendo la loro parte, tanto che la Nigeria ha moltiplicato per venti la sua produzione negli ultimi vent’anni.
Gli esperti però sanno che il contributo dell’acquacoltura non compensa i danni della pesca illegale, con prelievi sproporzionati, spesso non autorizzati dai paesi costieri oppure concordati da regimi autoritari, a danno dei piccoli pescatori. Adesso però qualche motivo di ottimismo c’è: nei giorni scorsi è entrato in vigore l’Accordo internazionale sulle misure per gli stati di approdo, che impone controlli ai pescherecci nei paesi dove vanno a scaricare il pescato. “E’ una novità positiva, ma solo un primo passo”, chiarisce Serena Maso, “i controlli riguardano le barche straniere, ma servirebbero anche per le flotte nazionali”. E resta il problema dello sfruttamento eccessivo, delle monster-boat, navi immense che svuotano i mari, stivando anche 3700 metri cubi di pesce e di fatto rendendo impossibile la concorrenza impossibile dei pescatori artigianali. “Ma è la pesca tradizionale, con mezzi non industriali, ad avere effetti economici positivi sulle comunità costiere. E invece ormai i pescatori non trovano mercato per i loro pesci, troppo cari. E finisce che nelle mense scolastiche anziché prodotti del Mediterraneo per risparmiare si serve il pangasio del Mekong, pescato in uno dei fiumi più inquinati del mondo”.

Fonte: Repubblica.it

,

La febbre del Pianeta è salita ancora nel 2015

Il rapporto “Lo Stato del Clima nel 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi evidenzia le allarmanti prospettive che si presenteranno a livello globale a seguito degli impressionanti record raggiunti da una serie di indicatori climatici.

 

Il 2015 è stato inequivocabilmente l’anno più caldo mai registrato per la Terra con 1,0 °C in più rispetto all’era preindustriale, le concentrazioni dei 3 principali gas a effetto serra (diossido di carbonio, metano e protossido di azoto) hanno raggiunto livelli record, l’innalzamento delle acque dei mari ha toccato il suo livello più alto con un incremento di 3,3 mm e la quantità di precipitazioni è aumentata di 70 mm rispetto alla media degli anni ’90, ma al contempo il Pianeta ha anche sofferto di severe siccità su una superficie complessiva doppia rispetto al 2014: dall’8% al 14%.

Questi ed altri impressionanti risultati dei 50 diversi indicatori climatici dell’anno trascorso che continuano a riflettere le tendenze coerenti con la febbre della Terra che aumenta, sono contenuti nel Rapporto “State of the Climate in 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi, coordinati dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e publicato il 2 agosto 2016 nel Supplemento speciale del Bollettino della Società Meteorologica Americana.
Credo che il tempo di chiamare il medico sia stato nei decenni trascorsi – ha dichiarato Deke Arndt, a capo della Divisione il monitoraggio del clima della NOAA  e tra i principali autori del Rapporto – Ora siamo di fronte ha una molteplicità di sintomi“.

Ecco in sintesi i 10 risultati più eclatanti contenuti nel Rapporto 2015.
1. La temperatura globale della superficie terrestre è stata la più alta mai registrata. Nel 2015 il record stabilito appena l’anno prima è stato battuto con un +0,1 °C, superando per la prima volta di 1 °C i livelli di temperatura media globale dei livelli preindustriali.
2. Le temperature superficiali dei mari sono risultate egualmente le più alte mai registrate. La temperatura media marina è stata di 0,33-0,39 °C sopra la media, superando la media precedente di 0,10-0,12 °C. La più alta temperatura rispetto alla media si è verificata nella parte nord-est del Pacifico e nel Pacifico equatoriale orientale, mentre il nord Atlantico e il sud-est della Groenlandia sono rimasti più freddi rispetto alla media. Queste acque molto più calde hanno notevolmente aumentato l’attività dei cicloni tropicali.
3. La quantità di calore immagazzinata dagli oceani è stata la più alta mai registrata. A livello globale il calore accumulato negli strati superiori degli oceani è stato il più alto mai registrato. Gli oceani assorbono circa il 90% del calore in eccesso della Terra.
4. Il livello globale dei mari è il maggiore mai registrato. Si è raggiunto nel 2015 il nuovo record di 70 mm rispetto alla media del 1993, l’anno che segna l’inizio del record misurato con i satelliti. Nel corso degli ultimi due decenni, il livello del mare è aumentato ad un tasso medio di 3,3 mm all’anno, con i più alti tassi di crescita negli Oceani Pacifico e Indiano occidentale.
5. Il fenomeno di El Niño è stato di eccezionale portata. Oltre ad elevare le temperature globali, l’El Niño ha sollevato il livello del mare, ha intensificato l’attività del ciclone tropicale del Pacifico e provocato siccità nelle parti dei tropici con crescità di incendi e rilascio di anidride carbonica.
6. La concentrazione di gas serra ha raggiunto il livello più alto mai registrato. Il biossido di carbonio (CO2), il metano e il protossido di azoto, sono saliti a valori record durante il 2015. La concentrazione media annua di CO2, secondo l’osservatorio di Mauna Loa (Hawaii), è risultata pari a 400,8 parti per milione (ppm), superando per la prima volta il limite simbolico delle 400 ppm, con 3.1 ppm oltre il 2014, il più grande incremento annuo osservato nel corsi di 58 anni.
7. I cicloni tropicali sono stati ben al di sopra della media generale. Ci sono stati 101 cicloni tropicali in tutti i bacini oceanici nel 2015, ben al di sopra della media 1981-2010 di 82 tempeste. Il Pacifico centrale ha visto succedersi 26 cicloni. Anche la parte occidentale del Nord del Pacifico, e i bacini settentrionali e meridionali dell’Oceano Indiano hanno registrato un’intensa attività. Viceversa, l’attività dei cicloni nel nord Atlantico è stata più debole del 68% del valore medio del periodo 1981-2010, con l’uragano Joaquin che ha coperto quasi la metà di tale valore.
8. Il ghiaccio marino artico ha avuto la sua minima estensione. Nel febbraio 2015, la massima estensione del ghiaccio marino nell’Artico è stato del 7% inferiore della media 1981-2010, il livello più piccolo mai registrato. Le temperature della superficie terrestre artica è stata superiore di 2,8 °C a quella dei primi anni del 20° secolo.
9. I ghiacciai hanno continuato la loro contrazione. L’anno scorso ha segnato il 36° anno consecutivo del contrarsi dei ghiacciai alpini a livello globale. I numeri sono del tutto in linea con quelli rilasciati nello Studio del Politecnico federale di ZurigoContrasting climate change impact on river flows from high-altitude catchments in the Himalayan and Andes Mountains” e pubblicati lo stesso giorno sulla PNAS, secondo cui sull’Himalaya e sulle Ande gli effetti del riscaldamento globale saranno addirittura opposti: il primo nei prossimi decenni sarà soggetto a inondazioni sempre più frequenti, mentre il secondo vedrà acuirsi la siccità.
10. I fenomeni estremi hanno raggiunto la loro maggiore intensità.

schema cambiamenti climatici

Fonte: regioneambiente.it

 

 

, , ,

Destra e sinistra addio.

Il 21 gennaio 2016 esce il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza, Lindau, Torino 2016.

E’ un lavoro a cui tengo molto e su cui desidero confrontarmi seriamente con chiunque desideri farlo in modo costruttivo.

Sarò certamente impegnato in giro per l’Italia per diverse presentazioni già stabilite e c’è ancora spazio per chiunque desideri organizzare una presentazione, una conferenza, un confronto nella città in cui vive.

Per darvi un’idea del lavoro che ho scritto, di seguito trovate la scheda del libro.

 

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione francese nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate. Negli ultimi due secoli il confronto politico tra le concretizzazioni storiche di queste due posizioni si è svolto a partire da una comune valutazione positiva del modo di produzione industriale, che sia la destra, sia la sinistra considerano un progresso rispetto alla precedente fase storica perché, grazie ai progressi  scientifici e tecnologici, ha accresciuto la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca d’abbondanza senza precedenti. La dialettica tra la destra e la sinistra si è articolata su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso la “mano invisibile del mercato”, come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra?

In questo libro si constata innanzitutto che, dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto è cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa definitivamente con la vittoria della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino. Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci la destra è strategicamente vincente. Ma la sconfitta della sinistra è la sconfitta della sua interpretazione storica dell’uguaglianza, non dell’idea di uguaglianza. Tuttavia, negli anni in cui si realizzava la vittoria strategica della destra, la crescita economica  ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle la quantità crescente di risorse di cui ha bisogno per continuare a crescere, ha superato le capacità del pianeta di metabolizzare gli scarti e le emissioni dei processi produttivi, ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo che contengono le riserve di materie prime e di energia, ha iniziato a suscitare nei paesi meno industrializzati ondate migratorie incontenibili, si è bloccata nei paesi industrializzati dal 2008 e sta facendo pagare alle classi lavoratrici i costi dei tentativi di ripresa.

Per attenuare le cause di questi processi distruttivi è necessario in primo luogo sviluppare tecnologie più evolute, finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui si trasformano le materie prime in beni, in modo di ridurne il fabbisogno e di ridurre le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera. Occorre avviare una decrescita selettiva, fondata sulla riduzione degli sprechi e dell’impronta ecologica dell’umanità. Se si abbandona l’ideologia della crescita, che ha accomunato la destra e la sinistra, è anche possibile ridare forza alla tensione etica finalizzata a realizzare una maggiore eguaglianza tra gli esseri umani, liberandola dall’interpretazione perdente che le è stata data dalla sinistra e articolandola in maniera diversa. In secondo luogo è necessario ridurre il ruolo assunto dal denaro riscoprendo la possibilità di autoprodurre una parte dei beni di cui si ha bisogno e forme di economia basate sul dono reciproco del tempo. La riduzione dell’importanza del denaro comporta una rivalutazione della spiritualità, della creatività e del valore delle relazioni basate sulla solidarietà.

Del resto, come ha avuto un inizio storico, non si può escludere la diade “destra-sinistra” abbia fine con la fine della possibilità di continuare a far crescere la produzione di merci. In tutti i capitoli del libro, e in particolare nell’epilogo, vengono fornite indicazioni per intraprendere un percorso culturale e politico che consenta di aprire una nuova fase della storia, in cui un’economia non più vincolata alla distopia della crescita infinita consenta di ridurre le diseguaglianze non solo tra gli esseri umani senza farne pagare i costi alle generazioni future, ma anche tra la specie umana e le altre specie viventi. Ne risulta una critica alla gestione della destra di questa fase storica, ben più radicale di quella che fa la sinistra proprio perché non rientra nelle categorie culturali della sinistra. Un’attenta analisi dell’enciclica “Laudato sì”, posta in appendice all’ultimo capitolo suggerisce che, probabilmente, questo cammino è già iniziato.

 

 

Indice

 

Prologo

 

Capitolo 1. Destra e sinistra: qualche richiamo storico

 

Capitolo 2. La destra, la sinistra e il modo di produzione industriale

 

Capitolo 3. La guerra ai contadini, agli artigiani, ai rapporti comunitari. L’estensione del proletariato                  e le migrazioni.

 

Capitolo 4. La destra, la sinistra e la crescita

 

Capitolo 5. Progresso, cambiamento, innovazione, sviluppo, modernità

 

Capitolo 6. Povertà e ricchezza

 

Capitolo 7. La religione è l’oppio dei popoli?

 

Capitolo 8. Chi non è di destra non può che essere di sinistra? Chi non è di sinistra non può che essere di destra? Il paradigma culturale della decrescita

 

Capitolo 9. Per una nuova declinazione dell’idea di uguaglianza. Scheda: La concezione del mondo espressa nell’Enciclica Laudatosi‘ di Papa Francesco.