Articoli

,

Né austerità, né debiti pubblici.

Promuovere lo sviluppo di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse e ammortizzano gli investimenti con i risparmi economici che consentono di ottenere. Senza contributi di denaro pubblico.

 

Crescita e occupazione.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, le industrie non possono non investire sistematicamente in innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo. Altrimenti la produzione non crescerebbe e non si raggiungerebbero le finalità poste all’economia. Le tecnologie che aumentano la produttività aumentano l’apporto delle macchine e riducono l’apporto del lavoro umano al valore aggiunto. Di qui è nata la convinzione che le innovazioni tecnologiche riducano i posti di lavoro. Uno dei primi a sostenere questa tesi è stato John Maynard Keynes, che in un suo breve saggio del 1931, intitolato Possibilità economiche per i nostri nipoti, ha scritto: «Noi abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove».[1]

In realtà l’illustre economista confondeva due fenomeni, uno di carattere tecnico e uno di carattere politico, perché la riduzione dell’apporto del lavoro umano al valore aggiunto causata dallo sviluppo tecnologico può essere gestita in due maniere. Se si decide di mantenere intatta la durata dell’orario giornaliero di lavoro si riduce l’occupazione, ma se si decide di ridurre la durata dell’orario giornaliero di lavoro si può mantenere intatta l’occupazione. Queste decisioni rispondono a valutazioni di carattere politico. La concorrenza ha imposto l’adozione della prima scelta, per cui le innovazioni dei processi produttivi hanno comportato riduzioni dell’occupazione. In controtendenza con questo processo agiscono le innovazioni tecnologiche di prodotto, ovvero l’immissione sui mercati di modelli innovativi dei prodotti in uso, o di prodotti innovativi – si pensi alla telefonia mobile – che mantengono alta la propensione al consumo e offrono nuove possibilità di occupazione. Ma, come ha scritto Keynes, le innovazioni tecnologiche di processo si sono susseguite troppo velocemente, anche nei settori produttivi innovativi, per consentire alle innovazioni tecnologiche di prodotto di assorbire tutta la forza lavoro che espellevano. La riduzione del numero degli occupati fa diminuire il numero delle persone con un reddito in grado di acquistare merci. Pertanto, se le innovazioni tecnologiche di processo non vengono accompagnate da riduzioni dell’orario di lavoro, accrescono l’offerta e contribuiscono a ridurre la domanda. Per evitare che questo squilibrio venga compensato da una riduzione della produzione che innescherebbe una crisi  – la riduzione della produzione comporta una diminuzione dell’occupazione che a sua volta determina una riduzione della domanda, per cui occorre ridurre ulteriormente la produzione – la domanda viene sostenuta politicamente aumentando i debiti pubblici e incentivando i debiti privati con opportune agevolazioni fiscali e monetarie. La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci implica la crescita dell’indebitamento.

 

Crescita e debito.

 

Nel breve periodo l’indebitamento può essere una scelta risolutiva, sia per i bilanci pubblici, sia per i bilanci privati. Il finanziamento in deficit di opere pubbliche o di servizi sociali fa crescere la produzione e l’occupazione, per cui aumenta il gettito fiscale e gli enti pubblici possono ripagare i debiti che hanno contratto. La crescita della produzione conseguente all’adozione di tecnologie più performanti acquistate a debito, fa aumentare la produzione, le vendite e i profitti, per cui le aziende possono ripagare i debiti sottoscritti per acquistarle. La crescita della spesa pubblica e degli investimenti produttivi fanno crescere l’occupazione, per cui le famiglie possono saldare i mutui e i crediti al consumo. Ma può succedere che i debiti non possano essere pagati: dalle pubbliche amministrazioni perché i profitti derivanti dall’incremento della produzione non sono sufficienti ad accrescere il gettito fiscale in misura tale da compensare le spese in deficit; dalle aziende perché l’aumento dell’offerta di merci non è assorbito da un’adeguata crescita della domanda, per cui i profitti non consentono di ammortizzare le spese d’investimento; dalle famiglie se s’indebitano più di quanto lo consenta l’aumento dei loro redditi.

 

Quando si verificano delle insolvenze, se i creditori sono d’accordo, i debiti possono essere rateizzati con un aumento degli interessi. In questo caso occorrono quote maggiori del gettito fiscale, dei profitti delle aziende e dei redditi familiari per pagare le nuove rate più onerose, per cui diminuisce la domanda. Se invece i debitori non sono in grado di pagare i creditori nemmeno ristrutturando i debiti, le aziende falliscono e alle famiglie vengono pignorati i beni acquistati a credito, mentre lo Stato può risolvere il problema aumentando la richiesta di prestiti ai privati con l’emissione di Buoni del Tesoro, a tassi d’interesse tanto più alti quanto più alto è il livello raggiunto dal debito pubblico e il rischio che i sottoscrittori non possano essere rimborsati.

Di conseguenza il debito aumenta e, poiché aumenta anche il peso degli interessi, si può raggiungere la soglia oltre la quale l’avanzo primario di un bilancio statale – ovvero il saldo positivo tra le entrate e le spese – non è sufficiente a pagare le rate del debito pubblico, per cui per coprire la differenza occorre ridurre le spese o aumentare le tasse, con un effetto depressivo sulla domanda aggregata. Poiché, generalmente, i governi su cui si scarica l’onere di affrontare questi problemi non sono quelli che li hanno creati, i governi che deliberano le spese in deficit usufruiscono del consenso sociale che ne deriva, mentre i governi successivi ne pagano le rate gravate dagli interessi e ne subiscono le conseguenze negative senza esserne stati responsabili. In termini generazionali, le generazioni presenti non pagano tutti i costi di scelte di cui beneficiano, lasciandone una parte da pagare alle generazioni future, che non ne ricevono alcun vantaggio.

A questa iniquità sociale, si aggiunge un aumento dell’impronta ecologica della specie umana sulla biosfera, perché in conseguenza delle spese in deficit aumenta la domanda di merci, aumenta il fabbisogno di risorse naturali da trasformare in merci e da utilizzare nei processi produttivi, aumentano i rifiuti e le sostanze di scarto emesse dai cicli produttivi in qualche matrice della biosfera. E aumentano le diseguaglianze tra i popoli, perché un incremento dei consumi di risorse da parte dei Paesi industrializzati riduce le quantità di risorse disponibili per i Paesi in cui è ancora significativa l’economia di sussistenza. Chi si propone di promuovere una maggiore equità sociale e una maggiore compatibilità ambientale non può non impegnarsi contro l’aumento dei debiti pubblici e per l’adozione di stili di vita che escludano il ricorso ai debiti per comprare più di quanto non consenta il proprio reddito.

 

I debiti sono l’altra faccia della medaglia della crescita. L’irresponsabilità politica negli anni del boom economico.

 

La settimana Incom 30 novembre 1962: Tutti contenti a Firenze.[2]

La nuova libreria Feltrinelli a Firenze e il deficit dell’amministrazione comunale

Tutti contenti a Firenze. Il boom della cultura non poteva trovare impreparata la città di Dante e i fiorentini tra tanti supermercati hanno ora anche il supermarket della letteratura. Nella nuova libreria Feltrinelli il cliente si serve da sé, come nei grandi magazzini. Il miracolo economico e le riviste di arredamento hanno portato i libri sullo stesso piano dei soprammobili e ne hanno fatto un elemento decorativo. Una macchia di colore per il soggiorno. Molti si lasciano sedurre dall’etichetta e comprano un libro per la sua copertina, come se si trattasse di una scatola di pomidoro pelati. I libri ormai servono a tutto, tranne che ad essere letti. Tra i clienti ce n’è uno particolarmente soddisfatto: il sindaco La Pira. Forse pensa che qualcuno prima o poi dovrà risanare il deficit del Comune e questo pensiero lo diverte. L’assessore alle finanze Mayer ha rivelato che il deficit ammonta a 44 miliardi. La notizia ha suscitato grande scalpore. L’unico tranquillo e imperturbabile è il sindaco.

Intervistatore «Come sta la faccenda dei debiti del Comune?»

La Pira «Debiti? Ma guardi l’unica responsabilità che io ho è di non aver fatto i debiti adeguati per la mia città. Ne vuole una prova? Milano: al primo gennaio 59 sa quanti debiti aveva? 149 miliardi 350 milioni. Ne vuole ancora? Torino, al primo gennaio 62, sa quanti ne aveva? 164 miliardi (negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici, in seguito inutilizzati, e le infrastrutture, subito smantellate, di Italia 61 per celebrare il centenario dell’unità d’Italia ndr.)».

Intervistatore «Allora 44 miliardi…».

La Pira «Aspetta, aspè… aspè… Roma, al primo 62, sa quanti ne aveva? 357 miliardi (negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici, le infrastrutture viarie e gli impianti per le Olimpiadi del 1960, ndr.). Napoli. Sa quanto? 203 miliardi. Palermo, sempre al primo, 62 miliardi, e così via.».

Intervistatore «Certo che lei è molto informato sui debiti degli altri.»

La Pira «Ma io, io sono ragioniere, sa?»

Intervistatore «Come si può rimediare?»

La Pira «A che cosa?»

Intervistatore «Ai debiti.»

La Pira «Ai debiti? Come ai debiti? Rimediare a che cosa? Scusi i debiti, non è che noi facciamo debiti per feste da ballo, eh?»

Intervistatore «Allora i debiti, ci sono o non ci sono?»

La Pira «Ci sono. Purtroppo sono pochi. Perché noi ne abbiamo soltanto 39 miliardi».

Intervistatore «Ah, soltanto…».

La Pira «Se fa il confronto con Milano 149, Torino…».

Intervistatore «E allora sono una sciocchezza».

La Pira «Una sciocchezza. Io sono responsabile di una sola cosa. Di non aver fatto per la mia città i debiti che le altre città hanno fatto per il loro incremento».

Intervistatore «Grazie».

La Pira «Sono un imbecille».

Ossia è imbecille chi risparmia (commento del giornalista che, in realtà, avrebbe dovuto dire: è imbecille chi non fa debiti).

 

La crescita progressiva dell’indebitamento pubblico e privato.

 

Il divario tra la crescita dell’offerta e una crescita inferiore della domanda determinato dagli incrementi della produttività senza riduzioni dell’orario di lavoro, è aumentato progressivamente con l’introduzione dell’informatica e della robotica nelle attività produttive. Per cui è aumentata la tendenza dei governi dei Paesi industrializzati a spendere in deficit per far crescere la domanda, è aumentata la necessità delle industrie di accendere mutui per acquistare le innovazioni tecnologiche che si susseguono a ritmo sempre più serrato, è aumentata la propensione delle famiglie ad acquistare a debito, anche in conseguenza degli incentivi offerti dal sistema bancario: carte di credito, mutui facili, rateizzazioni dei pagamenti.

Dal 2000 al 2016 il rapporto tra debito e prodotto interno lordo nei Paesi dell’Unione Europea è salito dal 60,2 all’83,5 per cento. Dal 1995 al 2016, in Italia è salito dal 116 al 132 per cento, in Francia dal 55,8 al 96 per cento, nel Regno Unito dal 45,2 all’89,3 per cento, in Germania dal 54,8 al 68,3 per cento, in Spagna dal 61,7 al 99,4 per cento, in Grecia dal 99 al 179 per cento. Più forti gli aumenti in Giappone, dove ha raggiunto il 228 per cento, e negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni settanta si attestava intorno al 30 per cento e nel 2016 aveva raggiunto il 104 per cento del prodotto interno lordo, pari a 20.000 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti altri 3.125 miliardi di debiti contratti da singoli Stati e municipalità. Secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale alla fine del 2015 il debito globale ha raggiunto il valore di 152.000 miliardi di dollari, pari al 225 per cento del valore monetario della produzione di merci a livello mondiale, che si è attestato a 77.302 miliardi di dollari. Circa i due terzi del debito complessivo, pari a 100 miliardi di dollari, sono costituiti da debiti privati: delle famiglie, per accrescere i loro consumi, e delle aziende, per effettuare investimenti finalizzati ad aumentare la produttività. I dati differenti forniti dall’Institute for International Finance, riportati dal quotidiano della Confindustria, Il Sole 24 ore, oltre a confermare la scarsa attendibilità dei dati su cui si fondano le scelte economiche, sono ancora più impressionanti: a gennaio 2017 il debito mondiale avrebbe raggiunto 215.000 miliardi di dollari, pari al 325 per cento del valore della produzione di merci, di cui 70 – un terzo – accumulato negli ultimi 10 anni.[3]

In Italia il debito pubblico eccede i valori degli altri Paesi europei ed è secondo solo alla Grecia, in conseguenza della decisione, presa nel 1981 dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, di vietare alla Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti, per evitare il rischio d’inflazione. Il risultato fu un forte innalzamento degli interessi. In dieci anni il debito pubblico raddoppiò, salendo dal 60 per cento del Pil nel 1982 al 120 per cento nel 1993. Nel 2015 il valore del prodotto interno lordo italiano è stato di 1.645 miliardi di euro, il valore del debito pubblico di 2.173 miliardi di euro, pari al 132,3 per cento del Pil; la somma degli interessi pagati sul debito pubblico è stata di 70 miliardi di euro, pari al 4,3 per cento del Pil (dati della Banca d’Italia).

 

La globalizzazione.

 

Il divario tra l’aumento dell’offerta di merci e un più contenuto aumento della domanda è stato accentuato dalla globalizzazione, ovvero dall’estensione dell’economia di mercato a livello planetario, in particolare alla Cina e all’India, dove vivono 2,6  miliardi di persone – il 37 per cento della popolazione mondiale – alla Russia, al Brasile e al Sud Africa. L’apertura di quei mercati vastissimi era indispensabile per ridare slancio alla crescita economica dei Paesi di più antica industrializzazione – Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone – e ha consentito alle società multinazionali di trasferire i loro impianti in Paesi dove i costi della manodopera e le tutele sindacali sono molto inferiori, gli orari di lavoro più lunghi, le legislazioni ambientali molto più permissive. I costi di produzione più bassi e il più intenso sfruttamento dei lavoratori hanno fatto crescere la produzione e i loro profitti, ma l’occupazione nei Paesi di più antica industrializzazione è diminuita, facendo diminuire la domanda, che è aumentata nei Paesi in cui sono state delocalizzate le aziende, ma non in misura tale da assorbire gli incrementi dell’offerta, a causa dei livelli retributivi più bassi.

L’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, nei Paesi europei e la concorrenza esercitata dai costi e dalle tutele sindacali inferiori in Cina e in India, hanno ridotto la forza contrattuale dei lavoratori. Di conseguenza le loro retribuzioni sono diminuite costantemente. Il sociologo del lavoro Luciano Gallino ha scritto che «tra il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento», accentuando la diminuzione della domanda e aumentando le differenze tra una minoranza sempre più ricca e una percentuale sempre più ampia di popolazione sempre più povera.[4]

 

La crisi dei mutui subprime.

 

La dinamica costituita da una crescita della produzione di merci che comporta una crescita dell’offerta sistematicamente superiore alla crescita della domanda, creando un divario che si cerca di ridurre aumentando progressivamente l’indebitamento pubblico e privato per sostenere la domanda, prima o poi è destinata a innescare una crisi da sovrapproduzione. Così è avvenuto con i mutui subprime, a febbraio del 2007 negli Stati Uniti. Le banche americane concedevano mutui per l’acquisto di case a clienti che esse stesse avevano classificato nella categoria dei subprime, i meno affidabili, perché erano falliti, o erano stati pignorati, o non pagavano con regolarità bollette e rate di prestiti. Per il fatto di essere ad alto rischio, i mutui subprime erano gravati da tassi d’interesse superiori a quelli di mercato. Con quei finanziamenti le banche contribuivano a tenere alti i prezzi e la domanda nel settore dell’edilizia, evitando che entrasse in crisi. A metà degli anni novanta il 25 per cento dei mutui fondiari erano subprime.

Quando ha iniziato a crescere il numero dei mutui non pagati, le case che le banche pignoravano e mettevano in vendita hanno fatto crescere l’offerta più della domanda, per cui i prezzi del settore edile sono crollati. Sapendo che questo sarebbe stato l’esito inevitabile della vicenda, gli istituti di credito si erano tutelati trasformando i loro crediti nei confronti dei clienti subprime in obbligazioni subordinate, che avevano rendimenti molto elevati proprio perché quei mutui erano stati concessi a tassi d’interesse superiori a quelli di mercato, ma erano molto rischiose perché garantite – si fa per dire – dai mutui stessi e non dall’istituto di credito. Questi titoli d’investimento, che vengono definiti derivati, non pagano l’interesse se le rate del mutuo non vengono pagate e, in caso d’insolvenza, non possono essere ceduti. La conseguenza è la perdita dei capitali investiti dai risparmiatori che li hanno acquistati convinti di vederli fruttare senza fare nulla, come Pinocchio nel Campo dei Miracoli.[5]

Secondo il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, la crisi scoppiata nei primi mesi del 2007 e culminata a settembre del 2008 con la bancarotta di una delle principali banche del Paese, la Lehman Brothers, è costata quasi 9 milioni di posti di lavoro e poco meno di 19.200 miliardi alle famiglie. La crisi dell’edilizia che ne è seguita si è propagata rapidamente a tutti gli altri comparti produttivi, provocando una recessione più grave, più estesa e più duratura di quella del 1929. Per fronteggiarla ed evitare il crollo del sistema creditizio, che avrebbe avuto pesantissime ripercussioni sulle attività economiche e produttive, gli Stati hanno sostenuto le banche con enormi contributi di denaro pubblico. Negli Stati Uniti, in seguito al fallimento della Lehman Brothers il presidente Barak Obama ha fatto ricorso a un prolungato quantitative easing, che ha fatto crescere il debito pubblico di 9.300 miliardi di dollari e il rapporto tra debito e prodotto interno lordo dal 65 per cento a più del 100 per cento. Una conferma del fatto che la finalizzazione dell’economia alla crescita richiede un incremento costante dei debiti pubblici.

 

Distinguere l’austerità dal buongoverno.

 

A dieci anni dal suo inizio la crisi economica non è ancora stata superata del tutto, anche se non incide su tutti i Paesi industrializzati con la stessa intensità. I modi di affrontarla sono stati due, opposti nelle scelte, ma accomunati dalla stessa finalità di far ripartire la crescita: l’austerità e l’incremento della spesa pubblica in deficit. L’austerità è stata scelta dalla destra e si fonda sull’assunto che per far ripartire la crescita occorre prima di tutto ridurre i debiti pubblici, tagliando le spese e/o aumentando le entrate, in modo da ridurre l’entità degli interessi da pagare e recuperare denaro per gli investimenti. In linea di principio non si capisce per quale ragione una scelta di questo genere debba rientrare nella categoria concettuale dell’austerità, mentre sembra più attinente a quella del buongoverno. Eliminare dall’agenda politica la realizzazione di grandi opere pubbliche che le aziende private, sulla base di accurati studi di mercato eviterebbero di fare, non è una rinuncia, ma una scelta ispirata a criteri di saggezza.[6] Risponde a criteri di saggezza anche la riduzione delle spese militari, che invece non viene nemmeno presa in considerazione. Basta pensare che solo il costo del casco del pilota di un aereo da combattimento F35 costa 2 milioni di dollari, quanto occorre per ristrutturare energeticamente due grandi edifici scolastici, riducendo del 70 per cento i loro consumi di combustibili fossili, la spesa di denaro pubblico necessaria a pagarli e le emissioni di anidride carbonica. Sempre nella categoria del buongoverno rientra la riduzione degli sprechi che si può ottenere utilizzando tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse, mentre la riduzione degli enormi privilegi retributivi di alcune categorie sociali ha anche le connotazioni dell’equità sociale. Queste scelte non rendono austera la vita a nessuno.

Si può definire correttamente austerità la scelta di ridurre il debito pubblico solo se le spese pubbliche che vengono ridotte comportano peggioramenti nelle condizioni di vita di categorie sociali che già hanno poco. Sostanzialmente, se si tagliano le spese dello Stato per i servizi sociali, se ne aumentano i costi per gli utenti riducendo al contempo le prestazioni, si privatizzano i servizi pubblici. A maggior ragione se questa austerità mirata va a colpire famiglie in cui vivono persone che non trovano lavoro, o lo hanno perso a causa della globalizzazione, o fanno lavori precari, dequalificati e poco pagati.

In Italia questo compito è stato affidato a Mario Monti, un economista accademico inserito con ruoli di alta responsabilità nelle istituzioni finanziarie internazionali e nelle strutture associative imprenditoriali, più volte commissario europeo, nominato il 9 novembre 2011 senatore a vita dal Presidente della Repubblica e incaricato il 13 di formare un governo tecnico che il 16 novembre aveva già prestato giuramento. Impossibile non pensare che non fosse un disegno preordinato. E dal momento che non ebbe una gestazione istituzionale, è facile immaginare dove l’abbia avuta.[7]

Presentato dai mass media come colui che avrebbe salvato il Paese dalla gravissima crisi economica e finanziaria che lo attanagliava, il 4 dicembre Mario Monti predispose in un decreto, denominato in coerenza con la sua fama, «Salva Italia», una manovra finanziaria anticrisi che prevedeva un aumento delle tasse, una riduzione delle spese statali per i servizi pubblici, una forte riduzione della spesa pensionistica. Nel decreto venne reintrodotta la tassa sulla prima casa, con un’aliquota più alta di quella precedente e con un aumento delle rendite catastali. Fu aumentata la tassa rifiuti confermandone la parametrazione sulla superficie delle abitazioni, per cui in realtà si configurava come un’integrazione della tassa sulla casa. Venne aumentata l’IVA ed eliminata la riduzione dell’aliquota sui generi alimentari. Furono ridotti i trasferimenti dallo Stato agli Enti locali, che erano autorizzati a introdurre delle addizionali ad alcune tasse statali per compensare la diminuzione dei loro introiti.[8]

La misura che scaricò più pesantemente sulle classi popolari il costo della riduzione del debito pubblico fu la riforma delle pensioni. Dall’anno successivo sarebbe stata innalzata progressivamente l’età pensionabile, fino a raggiungere i 67 anni entro il 2022, e riparametrata al ribasso l’entità delle pensioni col passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo.[9] A 5,5 milioni di titolari di pensioni superiori a 920 euro mensili venne bloccata l’indicizzazione al costo della vita. Nessuna limitazione fu invece applicata alle pensioni privilegiate di parlamentari, consiglieri regionali, dirigenti statali e delle aziende partecipate dallo Stato. Dalle misure finalizzate a risanare il bilancio pubblico furono escluse le imprese, cui venne ridotto il carico fiscale diminuendo le tasse sul costo del lavoro e l’imposta regionale sulle attività produttive. E vennero escluse le grandi opere, per le quali il governo s’impegnava a trovare 40 miliardi di euro tra risorse pubbliche e private. Appena le misure di risanamento del bilancio statale a spese delle classi sociali subordinate furono applicate, le destre tolsero il loro appoggio al governo e il Presidente della Repubblica sciolse anticipatamente le Camere.

Alle elezioni politiche che si svolsero nel febbraio del 2013, la percentuale più alta dei voti – il 25,56 per cento – fu raccolta dal Movimento 5 Stelle, un raggruppamento politico che si presentava per la prima volta, caratterizzandosi come alternativo a tutti i partiti esistenti. Il partito fondato dall’ex-presidente del Consiglio per continuare la sua opera di salvezza del Paese, ottenne appena il 9,1 per cento dei voti e cominciò subito a sbriciolarsi. La sua opera di salvezza non portò frutti né in termini di rilancio dell’economia, né in termini di crescita dell’occupazione, che anzi continuò a diminuire, né in termini di riduzione del debito pubblico. In compenso lasciò il retaggio di una diffusa e profonda sofferenza sociale. Nel 2012 il prodotto interno lordo diminuì del 2,4 per cento rispetto al 2011 e nel 2013 di un ulteriore 1 per cento rispetto al 2012. Il tasso di disoccupazione, che nel 2011 era stato dell’8,4 per cento, nel 2012 salì al 10,7 per cento. Tra i giovani (15-24 anni) crebbe di 6,2 punti percentuali, arrivando al 35,3%, con un picco del 49,9% per le giovani donne del Mezzogiorno. Il tasso di occupazione scese di due decimi di punto rispetto all’anno precedente e ai minimi dal 2000, attestandosi al 56,8%. Nel 2013 il tasso di disoccupazione aumentò ulteriormente, raggiungendo il 12,2 per cento. Tra i giovani arrivò al 42,24 per cento. In valori assoluti il numero dei disoccupati fu di circa 3,3 milioni di persone.

Nel Regno Unito il primo ministro conservatore David Cameron nei cinque anni del suo primo incarico, dal 2010 al 2015, tagliò la spesa sociale dal 23 al 21 per cento del prodotto interno lordo, creando uno scontento sociale che pagò nel 2006 con la sconfitta al Referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Un Referendum che aveva promosso egli stesso, convinto di vincerlo e di rafforzare col sostegno del consenso popolare la sua scelta di restare, mentre gli strati sociali penalizzati dalla riduzione delle spese sociali, dalla disoccupazione e dalla precarietà sul lavoro, videro nella scelta di restare una continuità con le scelte di politica economica e sociale che avevano peggiorato le loro condizioni di vita. Il primo ministro subentrato in seguito alle sue dimissioni, Theresa May, esponente dello stesso Partito Conservatore, nel discorso d’insediamento dimostrò di aver capito la lezione impegnandosi a cambiare strada rispetto al suo precedessore: «Il Referendum ha fatto emergere una nazione spaccata in due, in cui vi sono i ricchi e i poveri, gli ignoranti e gli istruiti, gli avvantaggiati e gli svantaggiati dalla globalizzazione […] Chi nasce povero vive in media nove anni di meno, le donne guadagnano meno degli uomini, chi frequenta la scuola pubblica ha meno possibilità di chi studia in una scuola privata. […] Sotto la mia guida il Partito Conservatore si metterà al servizio della gente comune, dell’ordinary working people». Non deve essere stata molto persuasiva se undici mesi dopo, alle elezioni politiche anticipate che aveva voluto nella convinzione di rendere più ampia la maggioranza risicata del suo partito in Parlamento, invece di rafforzarla l’ha persa perdendo 12 seggi, mentre il Partito Laburista, tornato a sinistra sotto la guida di Jeremy Corbin dopo la svolta a destra di Tony Blair, ne ha guadagnati 30 presentando un programma politico contrario all’austerità, che ha fatto presa soprattutto tra i giovani.

 

Le iniquità sociali e l’incompatibilità ambientale dei debiti pubblici.

 

Per superare la crisi, la sinistra non geneticamente modificata ha scelto di seguire la strada indicata da John Maynard Keynes, il più importante economista del novecento, che non era di sinistra, ma un liberale scettico sulle capacità autoregolatrici del mercato nelle fasi in cui il suo normale funzionamento s’inceppa. Nelle società pre-industriali le crisi erano causate dalla scarsità della produzione agricola che poteva verificarsi di tanto in tanto in conseguenza di eventi meteorologici eccezionali. Nelle società industriali sono causate invece dalla sovrabbondanza dell’offerta di merci. Se l’offerta di merci eccede la domanda espressa dal mercato e rimane in parte invenduta, le aziende devono ridurre la produzione e licenziare una parte dei loro dipendenti. I dipendenti licenziati rimangono senza reddito, per cui la domanda diminuisce, le aziende devono ridurre ulteriormente la produzione e licenziare altri dipendenti. Per arrestare questa spirale, Keynes, infrangendo il caposaldo del liberismo, sostenne che gli Stati dovevano aumentare la spesa pubblica indebitandosi. Non sarebbe bastato che spendessero di più aumentando il prelievo fiscale, perché in questo modo sarebbe aumentata la domanda pubblica, ma sarebbe diminuita quella privata. Per far crescere la domanda aggregata occorreva che gli Stati commissionassero opere pubbliche e potenziassero i servizi sociali oltre le capacità di spesa consentite dalle loro entrate. L’aumento della domanda statale in deficit avrebbe rimesso in moto le attività produttive e avrebbe fatto crescere il numero degli occupati, che con i loro redditi avrebbero fatto crescere ulteriormente la domanda, le attività produttive e gli occupati. L’aumento dei profitti e dei redditi avrebbe aumentato il gettito fiscale e gli Stati avrebbero potuto pagare le rate dei prestiti contratti per rimettere in moto l’economia. Perché aspettare la riduzione dei debiti pubblici per recuperare il denaro necessario a effettuare gli investimenti, come sostiene la destra, mentre l’aumento dei debiti pubblici consente non solo di riavviare molto più in fretta il ciclo economico, ma anche di ridurre la sofferenza sociale invece di acuirla, di migliorare le condizioni di vita degli strati sociali più poveri invece di peggiorarle? Anche da un punto di vista economico è più vantaggioso ridurre il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo aumentando il prodotto interno lordo invece di ridurre il debito.

La maggiore equità di questa strategia sostenuta dalla sinistra rispetto a quella dell’austerità sostenuta dalla destra è comunque finalizzata, come quella della destra, a rilanciare la crescita economica e i suoi effetti si limitano alle generazioni attuali dei Paesi sviluppati e di quelli che si stanno sviluppando sul loro modello. Ma se aumenta la produzione di merci grazie alla spinta che il sistema produttivo riceve dai debiti pubblici e privati, aumenta il fabbisogno di risorse e di energia, aumentano le emissioni di anidride carbonica e l’effetto serra, aumentano le sostanze di scarto che si accumulano nella biosfera, aumenta il consumo di concimi di sintesi che riducono la fertilità dei suoli, si accelera la diminuzione della fauna ittica negli oceani. Si aggravano tutti i fattori della crisi ambientale, si lascia alle generazioni future un mondo impoverito di risorse e inquinato, aumentano le sofferenze che la specie umana infligge alle altre specie viventi e che, in conseguenza dei legami che connettono tra loro tutte le forme di vita, ritornano come sofferenze sulla specie umana. Specialmente sui popoli poveri e sulle classi sociali più povere dei popoli ricchi. La ricerca di una maggiore equità limitata alle generazioni attuali della specie umana, a scapito delle generazioni future e delle altre specie viventi finisce paradossalmente con aumentare le iniquità che si propone di ridurre.

Ciò di cui i keynesiani di oggi sembra non si rendano conto è che rispetto agli anni trenta del secolo scorso il rapporto tra tecnosfera e biosfera è completamente cambiato: la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è passata dal valore di 270 parti per milione, in cui si era stabilizzata da 800 mila anni fino all’inizio del secolo scorso, alle 410 parti per milione registrate all’inizio di questo secolo, innescando una mutazione climatica di cui si stanno appena sperimentando le prime conseguenze; l’overshoot day, il giorno in cui l’umanità arriva a consumare tutte le risorse rinnovabili che la biosfera genera in un anno, è sceso al 2 di agosto; negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica vaste come continenti; i ghiacci dell’Artico si sono ridotti del 38 per cento dal 1979 a oggi, la popolazione mondiale è passata da 2 a 7 miliardi; la fertilità dei suoli agricoli è diminuita; la fauna ittica è stata dimezzata. I margini di espansione dell’economia che c’erano negli anni in cui Keynes ha elaborato la sua teoria non ci sono più. E non ci sono nemmeno i margini per una stabilizzazione nella situazione attuale. Per non andare incontro al collasso, l’umanità deve ridurre la sua impronta ecologica.

 

Per una riconversione economica dell’ecologia.

 

Chi pone come obbiettivi al suo impegno politico la compatibilità ambientale e un’equità sociale estesa alle generazioni future e alle altre specie viventi, non può non valutare positivamente la scelta dell’Unione europea di porre dei limiti ai debiti e ai deficit pubblici degli Stati aderenti, deliberata a  Maastricht nel 1992. Senza entrare in una valutazione di merito sui valori stabiliti, rispettivamente il 60 e il 3 per cento dei prodotti interni lordi, né sulle successive misure adottate per renderli vincolanti, perché richiederebbero una trattazione specialistica che esula da queste riflessioni, la riduzione dei debiti pubblici, che alcuni economisti ritengono controproducente per superare la crisi economica, è indispensabile per contrastare l’aggravamento della crisi ecologica.[10] Può darsi che i valori fissati a Maastricht non siano stati calcolati col dovuto rigore scientifico, può darsi che le procedure d’infrazione per gli Stati che non li rispettano implichino un cedimento di parte della sovranità nazionale, può darsi che l’inserimento in Costituzione del pareggio in bilancio sia inopportuno, ma se gli Stati  spendono ogni anno più di quanto incassano col prelievo fiscale attivano un surplus di domanda che consente al sistema produttivo di continuare a produrre quantità crescenti di merci, per cui tutti i fattori della crisi ecologica continueranno ad aggravarsi: le emissioni di anidride carbonica e le loro concentrazioni in atmosfera continueranno a crescere, il consumo delle risorse rinnovabili continuerà ad eccedere la capacità di rigenerazione annua della biosfera e l’overshoot day ad anticipare progressivamente, la fertilità dei suoli e la biodiversità continueranno a ridursi, le masse di poltiglie di plastica che fluttuano in tutti gli oceani continueranno ad estendersi e le popolazioni ittiche continueranno a diminuire, le quantità di rifiuti e le malattie mortali causate dall’inquinamento continueranno ad aumentare, l’acqua scarseggerà sempre di più, le tensioni internazionali e le guerre per il controllo delle materie prime necessarie alla crescita si accentueranno.

Nell’attuale epoca storica il problema fondamentale che i Paesi industrializzati devono risolvere è l’elaborazione di una politica economica e industriale in grado di conciliare due esigenze apparentemente antitetiche: la riduzione dell’impronta ecologica dell’umanità e l’aumento dell’occupazione in attività utili, non finalizzate alla crescita economica. La strada da percorrere è lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che riducono gli sprechi e aumentano l’efficienza nei processi di trasformazione delle risorse in beni, perché, se si riduce il consumo di risorse per unità di prodotto, non solo si riduce l’impatto ambientale, ma si risparmia del denaro con cui si possono pagare i costi d’investimento di queste tecnologie. Si mette in moto un circolo virtuoso che fa crescere la domanda e l’occupazione senza aggravare i debiti pubblici e i debiti privati delle aziende e delle famiglie. L’occupazione che si crea in questo modo non solo aumenta l’equità tra gli esseri umani viventi, ma riduce l’impatto ambientale delle loro attività e rende il mondo più bello e ospitale anche per le generazioni a venire. Le potenzialità di queste tecnologie sono molto più ampie di quanto generalmente si crede. Per svilupparle appieno occorre uno slancio progettuale di portata non inferiore a quello che ha dato avvio alla prima rivoluzione industriale.

L’impegno principale deve essere rivolto alla riduzione degli sprechi e all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione energetica, che nei Paesi tecnologicamente avanzati può consentire di ridurre del 70 per cento i consumi di energia alla fonte senza comportare una diminuzione dei servizi finali. Ne deriverebbero: una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e dell’effetto serra; una drastica riduzione delle tensioni internazionali e delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili; una drastica riduzione delle spese energetiche dei consumatori finali – famiglie, aziende, pubbliche amministrazioni.[11] E se si spende di meno per avere gli stessi servizi energetici, si può lavorare di meno e dedicare più tempo alle relazioni umane, alla creatività, allo studio disinteressato, alla contemplazione della bellezza.

In Svizzera sono stati realizzati i primi quartieri di abitazioni e servizi in cui le tecniche costruttive e l’efficienza degli impianti consentono di soddisfare i consumi energetici degli abitanti con una potenza continua pro-capite di 2.000 watt, che corrisponde, grosso modo, alla media degli anni sessanta. Attualmente si superano i 5.000 watt, meno della metà della potenza pro-capite negli Stati Uniti, ma ben più della media africana, che è di 500 watt. L’obbiettivo di una società a 2.000 watt, elaborato da alcuni ricercatori del Politecnico di Zurigo, è stato assunto dall’Ufficio federale dell’energia. 2.000 watt corrispondono a un consumo annuo di circa 17.500 kilowattora di elettricità o di 1.700 litri di petrolio. Oggi, la media mondiale è di circa 2.500 watt.

In Italia per riscaldare gli edifici nei mesi invernali si consumano mediamente 200 kilowattora al metro quadrato all’anno (circa 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano). In Germania non è consentito superare un consumo di 70 chilowattora al metro quadrato all’anno, un terzo della media italiana, ma gli edifici più efficienti, quelli che rientrano nello standard delle «case passive» non devono superare i 15 chilowattora al metro quadrato all’anno e devono essere coibentati in modo così efficiente da non avere bisogno di un impianto di riscaldamento. Se al centro della politica economica e industriale del nostro Paese si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze al livello dei peggiori edifici tedeschi, i consumi per il riscaldamento si ridurrebbero dei due terzi. Poiché gli edifici assorbono per il solo riscaldamento invernale un terzo dei consumi totali di energia alla fonte, quanta ne brucia tutto l’autotrasporto nel corso di un anno, si ridurrebbero del 20 per cento sia le importazioni di fonti fossili, sia le emissioni di anidride carbonica. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.

Un incentivo all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza contributi di denaro pubblico, può essere costituito dall’uso delle forme contrattuali che dovrebbero caratterizzare le energy service companiesesco -: società energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici e degli impianti ristrutturati si impegnano a pagare per i loro consumi energetici la stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione, per un numero di anni fissato al momento del contratto. Per la durata del contratto le esco incassano i risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici che riescono a ottenere. Al termine del contratto il risparmio economico va a beneficio del cliente. La durata degli anni necessari a recuperare gli investimenti è inversamente proporzionale all’efficienza ottenuta. La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché, essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici inferiore a quella che ha calcolato, incassa meno denaro di quello che ha previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.

Il circolo economico virtuoso descritto può trovare un volano decisivo in una sorta di patrimoniale energetica sugli immobili, che può essere gestita in due modi. O il proprietario dell’immobile paga la patrimoniale e lo Stato la utilizza per ristrutturarlo energeticamente, restituendo ogni anno al proprietario l’equivalente del risparmio economico conseguente al risparmio energetico fino all’estinzione della tassa pagata, oppure il proprietario dell’immobile, invece di pagare la tassa fa eseguire in proprio la ristrutturazione energetica e incassa direttamente i risparmi, fornendo allo Stato la documentazione delle spese sostenute e dei risparmi annuali ottenuti.

Un altro settore strategico dove l’ammortamento degli investimenti necessari a ridurre gli sprechi si può pagare con i risparmi economici che ne conseguono, senza contributi di denaro pubblico, è la gestione dell’acqua potabile. In Italia le reti idriche perdono mediamente il 65 per cento dell’acqua pompata dal sottosuolo e depurata. I cambiamenti climatici in corso sono caratterizzati dall’alternanza di periodi sempre più lunghi di siccità in estate e di piogge torrenziali in autunno. Di conseguenza, nei periodi estivi di siccità le perdite degli acquedotti stanno creando problemi alla fornitura di acqua nelle aree urbane. La sostituzione delle tubazioni delle reti idriche costituisce pertanto una misura indispensabile non solo per ridurre uno spreco di energia e denaro senza senso, ma anche per continuare a fornire un servizio indispensabile per il benessere e l’igiene di decine di milioni di persone. Invece, pur essendo conosciuta da anni la gravità di questo problema, non si è fatto nulla per risolverlo, mentre si è preferito, incomprensibilmente, finanziare opere di utilità quanto meno dubbia e certamente dannose per gli ambienti, che non consentiranno mai di recuperare gli investimenti effettuati per realizzarle: dal treno ad alta velocità in Valdisusa, agli inceneritori, a strade e autostrade su cui transita un numero irrisorio di autoveicoli, ai gasdotti per aumentare la fornitura di energia che si spreca invece di realizzare le opere edili necessarie a ridurre gli sprechi di energia, alle spese per sistemi d’arma che non hanno una funzione difensiva, ma chiaramente offensiva, sebbene la nostra costituzione ripudi le guerre di aggressione, al pretesto ricorrente di manifestazioni sportive internazionali per realizzare grandi opere che non verranno più utilizzate in seguito. Se si pensa alle spese aggiuntive che si sostengono per occupare militarmente la Valle di Susa allo scopo di imporre la realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità non giustificata dalle analisi dei flussi di traffico nei prossimi decenni, anche la persona più razionale non può non pensare a un’influenza di forze oscure che incombono sul futuro dell’umanità.

Le stesse dinamiche si verificano nella gestione degli oggetti dismessi. Il recupero e la riutilizzazione dei materiali che contengono è certamente più conveniente economicamente e meno dannosa ambientalmente delle metodologie che vengono utilizzate per renderli definitivamente inutilizzabili: l’interramento e l’incenerimento. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso degli oggetti conferiti alle discariche o agli inceneritori, meno se ne portano e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi occorre venderle. Più se ne vendono e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri occorre effettuarne una raccolta differenziata molto accurata che ne consenta il riciclaggio e il riutilizzo. La vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi consente pertanto di creare un’occupazione utile; di pagarne i costi con i risparmi conseguiti nello smaltimento e con i guadagni ottenuti dalla vendita, senza contributi di denaro pubblico; per non parlare della riduzione dell’impatto ambientale dei rifiuti, attraverso la riduzione di uno spreco inammissibile tecnologicamente.

La decrescita selettiva degli sprechi è l’unica via d’uscita da una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime. L’assurdità della situazione che stiamo vivendo è dimostrata dal fatto che, mentre il numero dei disoccupati ha raggiunto livelli inaccettabili, non si fanno una serie di lavori che sarebbe indispensabile fare per ridurre la crisi economica, ridurre la crisi ambientale e migliorare la qualità della vita. Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e contemporaneamente non commissiona i lavori più necessari, che pagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del prodotto interno lordo. Prima ce ne libereremo e meglio sarà.

Maurizio Pallante

 

 

 

[1]    John Maynard Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, Adelphi, Milano 2009, pag. 19 (ed. or. 1931)

[2]          https://www.youtube.com/watch?v=ruTQUwmctqI&index=19&list=PL2jwhVT1STUQymyWo1RAWAJjayj2hWenf

[3]             Vito Lops, La bolla del debito globale. In 10 anni è esploso a 215mila miliardi. Si rischia l’effetto supernova?, Il Sole 24 ore on line, 12 aprile 2017. In questo articolo si cita un intervento di Francis Scotland, director of global macro research di Brandywine Global (Gruppo Legg Mason): «Il debito globale è cresciuto, principalmente sulla scorta degli stimoli anti-ciclici sia automatici che discrezionali, che avevano l’obiettivo di stabilizzare l’economia mondiale dopo la grande crisi finanziaria. Nel mondo sviluppato, le politiche fiscali sono tendenzialmente finalizzate a sostenere i consumi e ridurre la disoccupazione nei momenti di recessione. Così, quando l’economia globale è crollata nel 2009, i deficit di budget si sono gonfiati ed il tasso di crescita del debito pubblico ha avuto un’impennata. In senso letterale, l’economia mondiale per gran parte degli ultimi nove anni si è poggiata sulla finanza pubblica. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto se il debito non fosse cresciuto, ma probabilmente ha evitato o perlomeno rinviato un’altra grande  depressione».

[4]             Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi Torino 2015, p. 110.

[5]      In questo campo, situato nei pressi della città Acchiappa-citrulli (nel Paese dei Barbagianni), Pinocchio viene invitato dal Gatto e dalla Volpe a piantare i suoi 5 zecchini d’oro perché la miracolosa natura del terreno avrebbe fatto crescere in brevissimo tempo un albero capace di fruttare monete.

[6]             Il 90 per cento dei Grandi progetti che le Regioni italiane hanno presentato alla Commissione Ue nel periodo 2007-2013 chiedendo che fossero finanziati con fondi europei aveva «un’insufficiente analisi costi-benefici». Il 70 per cento scontava «problemi sulla valutazione del mercato interno o nell’impianto progettuale». E il 50 per cento era lacunoso nella valutazione ambientale. È quello che emerge da un focus del neonato Ufficio valutazione impatto (Uvi) del Senato, presieduto da Pietro Grasso, sulla capacità progettuale dell’Italia in termini di qualità. Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2017.

[7]               Il governo Monti ottenne la fiducia al Senato con 281 voti a favore e 25 contrari, alla Camera con 556 voti a favore e 61 contrari: la maggioranza più ampia di tutta la storia repubblicana, in cui confluirono le destre e le sinistre rafforzando i sospetti, già ampiamente diffusi, sulla labilità delle differenze tra i due schieramenti politici. L’unico partito a votare contro fu la Lega Nord, cui in seguito si unì l’Italia dei Valori.

[8]               Da uno studio effettuato da Ugo Arrigo, docente alla Bicocca di Milano, risulta che nel periodo 2009 – 2015 la riduzione dei trasferimenti statali agli EELL, i vincoli posti al loro bilancio e il patto di stabilità hanno ridimensionato di 39 miliardi le loro capacità di spesa, senza diminuire le loro funzioni. Queste manovre hanno dato un contributo del 95 per cento al miglioramento dei conti pubblici. Inevitabilmente gli EELL sono stati costretti a innalzare i tributi di loro competenza e le tariffe dei servizi. Cfr. Carlo Di Foggia, Come si uccidono gli Enti Locali: 5 anni di austerità ed errori, Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2017.

[9]               Col metodo retributivo l’importo della pensione viene calcolato sulla media dei redditi degli ultimi anni di lavoro, i più alti. Col metodo contributivo viene calcolato sui contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa. Poiché nei primi anni di lavoro le retribuzioni sono più basse, l’importo della pensione è inferiore.

[10]            Per rendere vincolante il rispetto dei limiti stabiliti col Trattato di Maastricht, nel 1997 l’Unione deliberò il Patto di stabilità e crescita, in cui erano previsti alcuni strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che li avessero superati. Veniva inoltre stabilito che ogni Stato inserisse il pareggio di bilancio in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale». In Italia questa norma è stata inserita in Costituzione con una modifica dell’articolo 81, approvata nell’aprile del 2012 (governo Monti). Questi impegni sono stati ribaditi nel 2012, dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, più conosciuto con la definizione di fiscal compact (letteralmente «patto di bilancio»), in cui è anche stato stabilito l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di ridurre ogni anno l’eccedenza di un ventesimo.

[11]             Per approfondire questo tema mi permetto di rimandare a questi libri: Mario Palazzetti e Maurizio Pallante, L’uso razionale dell’energia. Teoria e pratica del negawattora, Bollati Boringhieri, Torino 1997; Maurizio Pallante, Un futuro senza luce?, Editori Riuniti, Roma 2007

, , , ,

Migrazioni: l’insopportabile ipocrisia dell’accoglienza

La situazione attuale

Le migrazioni costituiscono, insieme all’effetto serra e alla crisi economica iniziata nel 2007, i problemi più gravi di questo periodo della storia umana. Nei Paesi di partenza sono causate da sconvolgimenti profondi della struttura produttiva, dei rapporti sociali e delle condizioni ambientali che impediscono alle popolazioni di continuare a ricavare il necessario da vivere nei luoghi in cui vivono, come hanno fatto per millenni i loro antenati. Nei Paesi d’arrivo generano tre tipi di reazioni: una di rifiuto, che si concretizza nel sostegno ai partiti xenofobi; una di accoglienza interessata per i contributi che i migranti possono dare alla crescita economica e alla ricchezza monetaria dei nativi; una di accoglienza disinteressata e generosa, basata sulla solidarietà nei confronti delle persone più provate dalla vita e sulla pulsione a una maggiore giustizia sociale. I partiti xenofobi enfatizzano i problemi creati dall’arrivo di un numero sempre maggiore di migranti senza risorse professionali ed economiche, mettendo in evidenza l’insicurezza e il degrado che inevitabilmente si genera nei luoghi in cui in qualche modo si accampano e si arrangiano per sopravvivere. I sostenitori dell’accoglienza interessata li minimizzano, insistendo sui vantaggi economici che deriverebbero dalla loro regolarizzazione: crescita del prodotto interno lordo, aumento del gettito fiscale, pagamento delle pensioni. I sostenitori dell’accoglienza disinteressata fanno leva sui sentimenti di fraternità che, persistono nell’animo umano nonostante i decenni di consumismo, materialismo ed egoismo che hanno caratterizzato le società industriali. E dedicano le loro energie, la loro intelligenza, la loro creatività a cercare soluzioni per aiutare i migranti con cui entrano in contatto a trovare un alloggio e un lavoro dignitosi. Nascosti nei coni d’ombra tra queste dinamiche, agiscono due categorie di approfittatori: quelli che speculano sulla disperazione dei più deboli, sfruttando la loro forza lavoro in maniere ignobili, fino a farli morire; e quelli che, agendo nei meandri nascosti della politica, riescono a impadronirsi dei fondi stanziati per le strutture d’accoglienza, lasciando solo le briciole ai disperati cui erano destinati.[1]

L’aspetto di queste dinamiche su cui si dovrebbe maggiormente puntare l’attenzione e passa invece pressoché inosservato, è il fatto che tutti gli attori in campo si limitano a prendere in considerazione, ciascuno dal proprio punto di vista, le conseguenze dei flussi migratori nei Paesi d’arrivo, ma nessuno si domanda per quale motivo negli ultimi trent’anni le migrazioni abbiano coinvolto numeri sempre maggiori di persone in tutto il mondo. Una domanda che in relazione ai viaggi dall’Africa e dal Medio-oriente verso l’Europa è resa ancora più drammatica dal fatto che sono gestiti da bande di trafficanti di esseri umani, sono contrassegnati da violenze, spesso finiscono con naufragi nel canale di Sicilia e, anche se si concludono in qualche porto italiano, non c’è nessuna certezza che chi arriva possa iniziare una nuova vita più soddisfacente di quella che ha lasciato. C’è chi con una superficialità pari alla supponenza ha scritto: «Una è la visione del futuro, che è bene avere ma non puoi inventare. L’altra è lo spostamento dei popoli, che è come la terra che gira o l’eclissi di luna. Non riconoscere eventi immensi mentre stanno accadendo è una penosa cecità selettiva». (Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2017, p. 10). Si può modificare la rotazione terrestre? Si possono modificare le eclissi della luna? Si possono eliminare le cause che inducono masse crescenti di disperati a sottoporsi a viaggi infernali pur di lasciare i luoghi in cui i loro antenati hanno ricavato da vivere per millenni? Si può mettere fine a una sofferenza che i loro antenati non hanno dovuto patire? Non c’è davvero nessuna causa dipendente da scelte umane che possa essere rimossa?

 

Le migrazioni sono un fenomeno intrinseco al modo di produzione industriale

 

     Nel modo di produzione pre-industriale – ancora vigente in alcuni Paesi del mondo che, per questa ragione, vengono definiti sottosviluppati – l’economia è finalizzata a produrre beni con un valore d’uso. L’attività principale è l’agricoltura per autoconsumo. Gli scambi mercantili si limitano alle eccedenze della produzione agricola rispetto al fabbisogno delle famiglie contadine e agli oggetti prodotti dagli artigiani per rispondere alla domanda di clienti che li ordinano. Il denaro è il mezzo attraverso cui avvengono gli scambi tra i produttori e gli acquirenti dei beni. Nel modo di produzione industriale l’introduzione di macchine azionate da motori che trasformano l’energia termica in energia meccanica accresce la produzione e ne muta la finalità. I prodotti industriali non sono fatti su richiesta di chi ne ha bisogno, ma per essere venduti e ricavare dalla loro vendita più denaro di quanto ne è stato investito per produrli. Non vengono prodotti per il loro valore d’uso, ma per il loro valore di scambio. Pertanto, più se ne producono, più se ne possono vendere e più alti possono essere i profitti di chi li produce. Il denaro si trasforma da mezzo di scambio a fine delle attività produttive.

Per accrescere la produzione industriale non basta introdurre macchine sempre più efficienti nei cicli produttivi. Deve anche aumentare il numero delle persone che lavorano in fabbrica e il numero delle persone con un reddito monetario che consenta di acquistare i prodotti industriali. Chi lavora in fabbrica non ha la possibilità di autoprodurre i beni di cui ha bisogno per vivere, ma può comprarli sotto forma di merci col salario che riceve in cambio del lavoro che svolge. I due serbatoi da cui possono essere attinti i lavoratori di cui le fabbriche hanno bisogno per accrescere la produzione industriale sono i contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza e gli artigiani. Ma bisogna convincerli, o costringerli, ad accettare questo cambiamento. All’inizio della rivoluzione industriale, in Inghilterra nella seconda metà del Settecento, furono emanate una serie di leggi che imponevano la recinzione delle terre agricole per favorirne l’accorpamento e consentire l’introduzione di tecniche agrarie che aumentavano la produttività, con l’obbiettivo di trasformare l’agricoltura da attività prevalentemente per autoconsumo in attività finalizzata alla vendita dei prodotti agricoli. Gli accorpamenti dei terreni furono effettuati in modo da favorire i grandi proprietari terrieri e danneggiarono i contadini, a cui furono assegnati gli appezzamenti meno fertili. Furono inoltre privatizzate le terre comuni, impedendo ai contadini di continuare a esercitare il diritto, che avevano da secoli, di portarvi al pascolo gli animali, di cacciare la selvaggina, di raccogliere la legna da ardere, le erbe e i frutti selvatici. Gli effetti combinati di queste due misure resero impossibile sopravvivere con l’agricoltura di sussistenza e i contadini furono costretti a emigrare nelle aree industriali, dove non avevano altra scelta che lavorare come operai. Del resto, se non l’avessero fatta spontaneamente, un’apposita legislazione puniva l’accattonaggio con la condanna alla reclusione da scontare lavorando in apposite fabbriche-prigioni. Contestualmente, lo sviluppo dell’industria tessile metteva fuori mercato le stoffe tessute in casa con telai a mano da artigiani, che reagirono distruggendo i telai meccanici azionati dalle macchine a vapore, ma la loro rivolta, passata alla storia col nome di luddismo, fu sconfitta militarmente dalle truppe governative inviate in soccorso degli industriali. Da allora i sistemi coercitivi utilizzati per costringere i contadini e gli artigiani a trasferirsi dalla produzione di valori d’uso alla produzione di valori di scambio, dalle campagne alle città, sono stati integrati instillando nell’immaginario collettivo l’idea che questo passaggio costituisse un progresso indispensabile per accrescere il benessere e migliorare le condizioni di vita.

Questo processo è avvenuto, seppure in tempi sfalsati, in tutti i Paesi in cui nel corso dell’Ottocento si è sviluppata l’industrializzazione. A parte gli Stati Uniti, dove i flussi migratori di cui il Paese aveva bisogno per sostenere il suo sviluppo industriale furono alimentati, sin dall’inizio, da masse di disperati privi di tutto provenienti da molti Paesi europei, nei Paesi europei, in una prima fase durata grosso modo fino alla prima metà del Novecento, le migrazioni dalle campagne alle città non hanno generalmente superato gli ambiti regionali e hanno assunto dimensioni nazionali solo nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, che sono stati caratterizzati da una crescita economica senza precedenti. Quella crescita non sarebbe stata possibile se i flussi migratori non avessero fatto aumentare il numero degli occupati nel settore industriale, e se l’aumento dell’occupazione non avesse fatto aumentare il numero dei percettori di reddito in grado di acquistare i prodotti industriali immessi sul mercato. In Italia le migrazioni assunsero in quegli anni le connotazioni di un esodo dal sud al nord, alimentato non solo dai braccianti e dai lavoratori agricoli giornalieri che vedevano nella possibilità di lavorare in fabbrica e di avere un reddito monetario alla fine di ogni mese il superamento della povertà e della precarietà in cui vivevano, ma anche dall’attrazione esercitata dalla vita nelle città, di cui i mezzi di comunicazione di massa presentavano solo gli aspetti positivi, la vivacità culturale, l’abbondanza dell’offerta di merci, le opportunità di lavoro e di guadagno, mentre della vita in campagna enfatizzavano soltanto gli aspetti negativi, la fatica, la monotonia, l’arretratezza. I flussi migratori all’interno di ogni Paese europeo vennero integrati da flussi migratori dai Paesi in cui l’industrializzazione era iniziata più tardi e aveva avuto uno sviluppo più lento, verso i Paesi in cui era iniziata prima e si era sviluppata più rapidamente. Per esempio, dall’Italia alla Germania, al Belgio e alla Francia.

       

Le migrazioni attuali sono una conseguenza della globalizzazione

 

     Dopo l’abbattimento del muro di Berlino (ottobre 1989) e il crollo dell’Unione Sovietica, la variante liberista del modo di produzione industriale non ha più avuto ostacoli che le impedissero di espandersi in tutto il mondo. Del resto le economie dei Paesi capitalisti non avrebbero potuto continuare a crescere se non fosse cresciuta la produzione industriale e la domanda di prodotti industriali in Paesi come la Cina e l’India, dove vivono 3 miliardi di persone, il 40 per cento della popolazione mondiale. Ma la domanda di merci può crescere solo se cresce il numero delle persone provviste di reddito, cioè se cresce il numero degli occupati che ricevono un salario in cambio del loro lavoro, il numero degli imprenditori e il numero delle persone che lavorano nei servizi necessari al funzionamento di una società complessa. In quei Paesi, in cui aveva ancora un peso rilevante l’agricoltura di sussistenza, il trasferimento di decine di milioni di lavoratori dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria e ai servizi, dall’agricoltura per autoconsumo alla produzione agricola per il mercato è stato attuato con deportazioni di massa. Altre deportazioni di decine di milioni di contadini sono avvenute in seguito agli allagamenti dei terreni e dei villaggi agricoli, provocati dalla costruzione di dighe gigantesche per soddisfare il crescente fabbisogno di energia elettrica richiesto dalla crescita della produzione industriale, dall’urbanizzazione e dall’innalzamento dei livelli di vita. In pochissimi anni sono state costruite città di decine di milioni di abitanti.[2]

Nei Paesi africani non è stato lo sviluppo industriale a costringere i contadini a lasciare le campagne da cui ricavavano il necessario per vivere, ma sono state le guerre tra le etnie e gli Stati fomentate dai Paesi occidentali, e quelle combattute direttamente da loro per tenere sotto controllo i territori in cui insistono le miniere e i giacimenti di fonti fossili necessari a sostenere la loro crescita economica. Sono state la riduzione della fertilità dei suoli e la perdita dell’autosufficienza alimentare causate dagli aiuti allo sviluppo, cioè alla mercificazione dell’agricoltura, che li hanno indotti ad abbandonare la biodiversità e l’agricoltura di sussistenza per dedicarsi alla monocoltura di prodotti esotici richiesti dal mercato mondiale. Sono stati gli acquisti di enormi estensioni di terreni agricoli non accatastati effettuati da cinesi e coreani per un tozzo di pane con la complicità di governanti corrotti. Non essendosi sviluppate in questi Paesi attività industriali in cui trasferirsi, l’unica prospettiva per le popolazioni costrette a lasciare le loro terre è trovare qualche forma di lavoro nei Paesi europei.

 

Liberi di dover partire

 

     Naturalmente nessuno è obbligato a emigrare. E chiunque ha diritto di andar via dai luoghi in cui non vuole più a vivere, o perché sono devastati da una guerra, o perché non riesce più a ricavarne il necessario per rispondere ai bisogni vitali della propria famiglia, o perché pensa di poter vivere meglio in un altro luogo del mondo. Chi sceglie di emigrare lo fa liberamente, anche se tutta la storia delle migrazioni è contrassegnata dalla sofferenza. La sofferenza di dover lasciare i luoghi in cui si è nati e i propri affetti familiari, la sofferenza di dover accettare lavori faticosi, pericolosi e poco pagati nei luoghi in cui si trasferisce, la sofferenza di vivere in abitazioni malsane in quartieri ghetto, la sofferenza per l’ostilità delle popolazioni tra cui s’inserisce. Una descrizione molto vivida delle condizioni di vita degli operai nel 1936 in Inghilterra è stata fatta da George Orwell nei resoconti di viaggio in un distretto minerario del Nord, raccolti nel libro La strada di Wigan Pier. In relazione alla storia dell’emigrazione italiana all’estero basta ricordare il linciaggio di 17 italiani ad opera di contadini e vagabondi francesi che lavoravano con loro nelle saline di Aigues Mortes il 16 e 17 agosto 1893. O i 136 minatori intrappolati da un’esplosione nella miniera belga di Marcinelle l’8 agosto 1956. Se avessero potuto ricavare il necessario per vivere dove erano nati, sarebbero andati a lavorare nelle saline francesi o nelle miniere del Belgio? Libers… de scigní lâ (Liberi… di dover partire), ha intitolato una sua raccolta di poesie in friulano, Leonardo Zanier, un sindacalista poeta che ha dedicato la vita a tutelare i diritti dei lavoratori italiani emigrati in Svizzera. Possibile che i sostenitori dell’accoglienza per ragioni umanitarie e di giustizia sociale sappiano solo dire che emigrare è un diritto che va tutelato e agevolato, ma non riescano nemmeno a immaginare che se degli esseri umani sono costretti a fare una scelta che nasce dal bisogno di fuggire da una sofferenza e nella maggior parte dei casi conduce ad altra sofferenza, l’umanità, il diritto, la condivisione impongono che ci si domandi quali siano le cause della sofferenza che li costringe a emigrare e della sofferenza che incontreranno nei luoghi d’arrivo? Che ci si impegni a renderne consapevole l’opinione pubblica e a cercar di capire come possano essere rimosse? Se ci si limita ad agevolare l’accoglienza dei migranti si rafforzano le cause che li inducono a emigrare. E, poiché le migrazioni sono causate da sofferenza e comportano sofferenza, si contribuisce ad accrescerla, oltre a fare inconsapevolmente il gioco dei sepolcri imbiancati dell’accoglienza interessata.

 

L’accoglienza dei sepolcri imbiancati (piccolo florilegio)

 

Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione, alla scienza, Dichiarazione all’emittente francese Europe 1, 11 maggio 2015:

Bisogna avere più migranti in Europa. L’immigrazione è essenziale alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte.

 

Caritas e Migrantes, XXIV Rapporto Immigrazione, Migranti attori di sviluppo, Expo di Milano, 4 giugno 2015:

I migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 per cento del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942 (ndr: cosa si può volere di più?, per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno, fino a quando ce n’è bisogno).

 

Maurizio Ricci, Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l’Europa, la Repubblica on line, 8 settembre 2015:

Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060.

(ndr: «rifugiati», cioè profughi di guerra, non semplici migranti economici, ammesso che la distinzione abbia un senso).

 

Secondo un rapporto del Credit Suisse, reso pubblico il 23 settembre 2015, le spese per i migranti sono destinate a ripagarsi sotto forma di benefici alla crescita e quindi di aumenti delle entrate fiscali. La gestione dei migranti non è un costo ma un buon investimento. Entro il 2020 l’Europa avrà bisogno di 42 milioni di occupati in più per sostenere il suo sistema di welfare. La proiezione al 2060 è di 250 milioni. Le alternative, secondo lo studio della banca svizzera, sono pura questione di logica: o aumenta il tasso di natalità o arrivano più immigrati o si riducono le prestazioni.

(ndr: non hanno visto i 3 milioni di disoccupati in Italia, dove la disoccupazione giovanile oscilla da anni intorno al 40 per cento)

 

Tito Boeri, presidente dell’Inps, intervistato da Francesco Manacorda, Repubblica delle Idee, Bologna, Centro San Domenico, 15 giugno 2017:

Se chiudessimo le frontiere ai migranti non saremmo in grado di pagare le pensioni. Ogni anno gli stranieri versano otto miliardi di euro in contributi e ne prelevano tre. È vero, un giorno avranno la pensione pure loro, però molti torneranno al loro Paese d’origine. I loro versamenti saranno a fondo perduto.

(ndr: oltre ad arricchirci legalmente, si fanno pure fregare…)

 

Ancora Tito Boeri, nella Relazione Annuale dell’INPS, presentata il 4 luglio 2017 a Montecitorio ha scritto:

Chiudere loro le porte ci costerebbe la perdita secca di 38 miliardi per i prossimi 22 anni, una manovra aggiuntiva annuale. […] Chiudendo le frontiere agli immigrati rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale. I lavoratori che arrivano in Italia sono sempre più giovani, la quota degli under 25 è passata dal 27,5 per cento del 1996 al 35 per cento del 2015, e pertanto si tratta di 150.000 contribuenti in più l’anno, che bilanciano in parte il calo delle nascite. […] sino ad ora gli immigrati ci hanno regalato circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni.

(ndr: «ci hanno regalato circa 1 punto di pil»: nonostante la loro povertà, sono proprio generosi)

 

Fondo Monetario Internazionale, L’impatto della migrazione sui livelli di reddito delle economie avanzate, 5 luglio 2017:

Nelle economie avanzate a un aumento di lavoratori immigrati dell’1 per cento corrisponde una crescita del Prodotto interno lordo di 2 punti, nel lungo periodo.

(ndr: di quanto fa diminuire la ricchezza nei Paesi di provenienza?)

 

Sempre Tito Boeri, 20 luglio 2017, audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti:

Gli immigrati regolari versano ogni anno 8 miliardi in contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps.

 

Evitare di essere utilizzati come inconsapevoli cavalli di Troia

 

I sepolcri imbiancati sanno perfettamente che nei Paesi sviluppati la produzione e la vendita di merci non possono continuare a crescere se non aumenta la percentuale della popolazione mondiale che abbandona l’economia di sussistenza e s’inserisce nell’economia di mercato. Sostengono quindi a ragion veduta che bisogna accogliere i migranti perché ne abbiamo bisogno: per continuare a far crescere il nostro prodotto interno lordo, per mantenere i nostri stili di vita, per pagare le nostre pensioni, per svolgere i lavori che gli italiani non vogliono più fare, per dare assistenza ai nostri vecchi. Sono invece disinteressate e dettate dalla solidarietà le motivazioni con cui la Chiesa cattolica nonostante gli scivoloni della Caritas, alcune associazioni non governative e i movimenti politici della sinistra non geneticamente modificata operano per favorire l’ingresso e l’accoglienza dei migranti dal Medio-oriente, dall’Africa e dai Paesi dell’Europa dell’est. Per costoro i richiedenti asilo e i migranti economici sono esseri umani che non hanno avuto la nostra fortuna di nascere dalla parte giusta del mondo, costretti a intraprendere drammatici viaggi della speranza alla ricerca di una vita migliore, accettando di subire violenze d’ogni tipo da trafficanti di esseri umani senza scrupoli e di rischiare la vita per raggiungere la terra promessa dei nostri Paesi, dove i livelli di benessere sono più alti di quelli dei loro Paesi d’origine.

     Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere etico da compiere tempestivamente senza se e senza ma, capire le cause che la provocano è un dovere intellettuale a cui consegue l’impegno politico di provare a rimuoverle. Sicuramente una parte dei migranti che tentano disperatamente di trasferirsi dall’Africa e dal Medio-Oriente nei Paesi dell’Europa occidentale sono attirati dall’abbondanza dei beni materiali. Chi li produce utilizza spregiudicatamente internet e le televisioni satellitari per suscitare in loro il desiderio di averli, sapendo di incidere soprattutto tra i giovani, che sono la fascia d’età più interessante dal punto di vista lavorativo.[3] Tuttavia la maggioranza è costretta a emigrare perché i Paesi industrializzati, per sostenere i loro interessi hanno reso impossibile ai popoli che li abitano di continuare ad abitarli e a trarne il necessario per vivere. La distinzione tra migranti economici e rifugiati politici, che molti ripetono come un’ovvietà, è concettualmente pretestuosa. Che differenza c’è tra chi è costretto ad abbandonare la propria terra perché sconvolta da guerre istigate, o combattute direttamente dai Paesi sviluppati per tenere sotto controllo i giacimenti di una risorsa necessaria alla loro crescita economica, chi è costretto ad abbandonarla perché la sua fertilità è stata impoverita dall’agricoltura chimica finanziata dagli aiuti allo sviluppo per potenziare l’offerta sul mercato mondiale di un prodotto agricolo di cui c’era temporaneamente una domanda inevasa, e chi è costretto ad abbandonarla perché vi è stato insediato un campo petrolifero, o una discarica di rifiuti inquinanti, o perché se ne sono impadroniti i cinesi? Nessuno di loro può continuare a vivere sulla terra in cui è nato e in cui sono nati i suoi avi.

Chi ritiene che le società industriali costituiscano il livello più alto raggiunto dalla storia perché hanno consentito ai loro abitanti di avere un’abbondanza di beni materiali mai conosciuta in passato, di sconfiggere la fame, di curare malattie prima incurabili e di allungare la durata della vita, è convinto che i migranti dall’Africa e dal Medio-oriente non possano non desiderare di venire a viverci, «per donare a se stessi e ai propri cari un futuro migliore», come ha sostenuto mellifluamente Silvio Berlusconi parlando in un rete televisiva tunisina quando era presidente del Consiglio. E se è sensibile alle motivazioni umanitarie e ritiene che l’equità sia un valore, non può non essere disponibile ad aiutarli affinché possano condividere il nostro stile di vita. Non coglie la venatura di razzismo che offusca questa idea di accoglienza. Non pensa che sia il nostro stile di vita consumistico a impedire che i migranti possano continuare a vivere sulle terre dei loro padri, perché li priva del necessario per alimentare il nostro superfluo. Crede che l’unica alternativa ai limiti del loro modo di vivere sia il nostro modo di vivere, che è meno compatibile del loro con la biosfera. Non immagina che ce ne possa essere un altro diverso dal nostro e dal loro, da inventare e costruire insieme, perché il nostro non ha futuro e il loro è contrassegnato da privazioni. Non pensa che nel loro stile di vita possano esserci vantaggi che il nostro stile di vita ci ha tolto (la spiritualità, la solidarietà, la collaborazione) e che si possano superare i loro limiti (conoscenza scientifica molto scarsa, problemi igienici e sanitari, carenza di beni materiali) senza necessariamente assumere i nostri. Insomma, solo chi ha un modo di pensare molto schematico e forti limiti mentali può pensare che l’unica alternativa possibile ai problemi della loro società sia la nostra, e che l’unica alternativa possibile ai difetti della nostra sia tornare indietro, alla nostra società contadina dell’anteguerra, che era simile alla loro. Non immagina nemmeno che si possa andare avanti, ciascuno per la sua strada, in una direzione diversa. Per esempio, verso società in cui la tecnologia sia finalizzata a ridurre l’impronta ecologica e non ad aumentare la produttività; in cui il benessere non si confonda col tantoavere, ma s’identifichi con la possibilità di garantire a tutti di far fruttare i propri talenti. Se non si pongono queste domande, i sostenitori limpidi dell’accoglienza rischiano di diventare i cavalli di Troia dei sepolcri imbiancati, che si fanno paladini dell’accoglienza per trasferire al servizio delle società opulente coloro ai quali le società opulente hanno già tolto il necessario per vivere a casa loro.

Se, in conseguenza dell’inserimento di un numero sempre maggiore di migranti nel sistema economico e produttivo dei Paesi sviluppati, il nostro prodotto interno lordo tornerà a crescere più intensamente, come documentano gli studi dei sepolcri imbiancati, cresceranno i nostri bisogni di materie prime e di energia. Aumenterà pertanto la nostra necessità di tenere sotto controllo politico e militare le zone del mondo in cui si trovano. Aumenteranno i consumi di fonti fossili, le emissioni di anidride carbonica e l’effetto serra. Aumenterà la quantità di rifiuti che produciamo e la nostra esigenza di trovare qualche posto nel mondo in cui scaricarli. Si aggraveranno tutti i fattori della crisi ambientale. Diminuiranno le risorse disponibili per i popoli impoveriti dall’avidità dei popoli che hanno più del necessario e aumenterà la loro propensione a emigrare. Secondo uno studio redatto da 13 agenzie federali statunitensi che si occupano di cambiamento climatico per il National Climate Assessment (la valutazione sul clima richiesta dal Congresso ogni 4 anni), pubblicato l’8 agosto 2017, i cambiamenti climatici faranno sentire i loro effetti soprattutto nei Paesi di provenienza dei migranti e accentueranno i loro flussi. L’innalzamento del livello degli oceani conseguente allo scioglimento dei ghiacci polari provocato dall’effetto serra sommergerà il Bangladesh, costringendo i suoi 165 milioni di abitanti a emigrare in cerca di altri posti in cui vivere. E non saranno i soli a doversene andare dalla loro terra.

L’accoglienza generosa e disinteressata è indispensabile per alleviare le sofferenze causate dalle migrazioni, ma se non si inserisce in un progetto di rimozione delle cause che le generano, può contribuire a rafforzarle. La scelta fondamentale per ridurre le sofferenze delle migrazioni non è fluidificarne i flussi senza impegnarsi a limitarne le cause – come fanno, per ragioni diverse, la pseudosinistra dei sepolcri imbiancati, la sinistra non modificata geneticamente, i movimenti d’ispirazione religiosa – ma proporsi di ridurli – non bloccandoli militarmente, come propongono le destre xenofobe e sovraniste – ma riducendo le cause che li provocano. Ovvero riducendo le iniquità tra i popoli.

 

Per ridurre le sofferenze delle migrazioni occorre perseguire una maggiore equità tra i popoli.

 

     C’è chi crede che una maggiore equità tra i popoli si possa realizzare diminuendo i consumi dei Paesi sviluppati per consentire di far crescere i consumi dei Paesi sottosviluppati. Se così fosse, il consumo globale di risorse da parte dell’umanità non diminuirebbe. Poiché ha già superato i limiti della compatibilità ambientale, l’umanità continuerebbe ad andare verso il collasso, ma in maniera più equa. Non è una prospettiva consolante, soprattutto per le ultime e per le prossime generazioni. E poi, come si fa a pensare che possano accettare una riduzione dei consumi le popolazioni di Paesi in cui l’economia continua ad essere finalizzata alla crescita; la ricchezza e la povertà sono misurate col potere d’acquisto; i processi formativi sono improntati sull’identificazione della realizzazione umana col lavoro che si svolge, il reddito che se ne ricava, la quantità e il valore monetario delle merci che consente di comprare? Non si può perseguire una maggiore equità tra i popoli estendendo ai Paesi sottosviluppati il modello economico dei Paesi sviluppati, nemmeno se ci si propone di ridurre i consumi di risorse dei Paesi sviluppati per consentire ai Paesi sottosviluppati di averne a disposizione di più. Una maggiore equità tra i popoli si può ottenere soltanto se si abbandona la convinzione che il fine dell’economia sia la crescita della produzione di merci.

Creando un notevole sconcerto tra i paladini del pensiero unico, nell’Enciclica Laudato si’, papa Francesco ha scritto: «… è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo, procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». (193) Evidentemente le parti del mondo in cui «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita» sono i Paesi sviluppati, che però non sono molto propensi ad accettarla, perché la concepiscono istintivamente come una diminuzione dei consumi di beni materiali – che pure, nonostante l’opinione comune, sarebbe necessaria per migliorare il benessere. In realtà risultati molto più significativi si possono ottenere focalizzando l’impegno sulla riduzione dei consumi di risorse, che si può ottenere sviluppando innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si utilizzano e riducendo gli sprechi. Nel solo settore energetico, un grande slancio progettuale e innovativo, paragonabile a quello che ha avviato la rivoluzione industriale, può ridurre di almeno i due terzi i consumi di energia alla fonte a parità di servizi finali. In questo modo non solo può aumentare la quantità di risorse disponibili per i popoli che ne hanno meno di quanto è necessario per soddisfare i bisogni fondamentali degli esseri umani, ma si può offrire ad essi la possibilità di «crescere in modo sano», perché le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre i consumi di risorse dei Paesi sviluppati più dei loro consumi finali, consentono anche di aumentare i consumi finali dei Paesi sottosviluppati più dei consumi di risorse necessari a sostenerli. In ogni caso, il risultato dei due processi deve comportare una riduzione complessiva dei consumi di risorse della terra, delle emissioni metabolizzabili e delle emissioni non metabolizzabili dalla biosfera, ma ciò può avvenire solo se l’immaginario collettivo dei Paesi sviluppati saprà liberarsi dal grande inganno dell’identificazione del benessere col consumismo e del valore dell’innovazione in quanto tale. Solo se si crede che il senso della vita s’identifichi col possesso di cose e che il nuovo sia sempre migliore del vecchio, ogni volta che viene immesso un prodotto nuovo sul mercato si può sentire il bisogno di comprarlo. Ma la soddisfazione che se ne ricava viene continuamente frustrata dall’immissione sul mercato di prodotti più nuovi che fanno diventare vecchi i prodotti nuovi appena comprati. La propensione al consumo rimane intatta proprio in conseguenza della frustrazione a cui è inevitabilmente soggetta. Solo persone incapaci di dare un senso alla propria vita come successione di scoperte, conoscenze, incantamenti, possono rimanere vittime di questo inganno. Ma è questo inganno a consentire che si possa continuare a produrre sempre di più, a consumare quantità sempre maggiori di risorse, a immettere quantità sempre maggiori di sostanze di scarto in qualche matrice della biosfera.

Il cambiamento dei fini della tecnologia, dall’incremento della produttività alla riduzione dell’impatto ambientale, insieme a un cambiamento dei valori e dei modelli di comportamento che rivaluti l’importanza della dimensione spirituale e smonti l’identificazione del concetto di nuovo col concetto di migliore, sono l’unico modo per riuscire a coniugare la compatibilità ambientale con l’equità. Un’equità non limitata alle generazioni viventi della specie umana, ma estesa alle generazioni future, né limitata alla specie umana, ma estesa a tutte le specie viventi, perché solo questa equità estesa può consentire di raggiungere la compatibilità ambientale e solo la compatibilità ambientale può consentire di realizzare questo tipo di equità, l’unica in grado di garantire una maggiore equità tra i popoli. Qualsiasi persona che conosca la storia umana, le sofferenze e le violenze di cui è intessuta, non può non pensare che questa sia un’utopia irrealizzabile, ma non ci sono alternative se si vuole evitare che i flussi migratori aumentino e continuino a causare sofferenze tra i più poveri della terra, ad arricchire i mercanti di esseri umani e coloro che, approfittando della loro debolezza, li riducono in stato di schiavitù sul lavoro, a creare nei Paesi d’arrivo tensioni sociali che accrescono il consenso politico ai partiti xenofobi. E se si vuole fermare il tragitto verso l’autodistruzione della specie umana, che procede di pari passo, tragedia dopo tragedia, coi tragitti dei migranti dall’Africa e dal Medio Oriente verso i Paesi dell’Europa occidentale.

In relazione a un contesto diverso Ivan Illich ha scritto parole che si possono applicare anche a questo: «Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi lo si troverà ben presto di un realismo estremo».[4]

 

 

 

[1]             Secondo il report Modern Slavery Index 2017, a cura del centro studi britannico Verisk Maplecroft, in conseguenza dell’elevato numero di sbarchi di migranti sulle coste italiane nel 2016, è aumentato il numero delle persone vulnerabili, che hanno alimentato il lavoro nero e lo sfruttamento. Attualmente in Italia sarebbero 100 mila le persone in condizione di schiavitù e para schiavitù in agricoltura. L’80 per cento sono stranieri, il restante 20 per cento italiani. Le violazioni delle leggi contro lo sfruttamento di esseri umani mostrano un aumento in 20 Paesi membri dell’Unione Europea su 28. In Italia il problema dello sfruttamento e riduzione in schiavitù non si limita solo al settore agricolo, ma si manifesta anche nelle costruzioni e nei servizi. E poi c’è lo sfruttamento della prostituzione, dove a dominare il mercato sono le mafie dell’est e quelle nigeriane. Un mercato che, secondo l’Istat, vale 90 milioni di euro al mese, 1,1 miliardi all’anno, alimentato da circa 9 milioni di clienti che hanno a disposizione tra le 75 mila e le 120 mila ragazze sparse per il Paese. (Gianni Rosini, il Fatto Quotidiano on line, 14 agosto 2017)

[2]             In Cina la costruzione della Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro, terminata nel 2009, a pieno regime allagherà una estensione territoriale in cui vivono 5 milioni di persone. In India dal 1980 è in corso di realizzazione un progetto che prevede la costruzione di 3165 dighe sul fiume Narmada. Migliaia di ettari di terreno fertile sono già stati allagati e altre migliaia lo saranno, sconvolgendo completamente la valle del Gujarat, dove vivono 25 milioni di contadini.

[3]             Il 23 agosto 2009 Berlusconi si è recato in Tunisia negli studi di Nessma TV, un canale commerciale diffuso nei Paesi del Maghreb mediterraneo, di cui Mediaset ha il 25 per cento, per partecipare alla trasmissione Ness Nessma. Ecco la trascrizione di una parte dell’intervista, di cui si può vedere il filmato originale in sul sito dell’emittente www.nessma.tv Conduttore: «Dall’attrattiva che esercita l’Italia sui maghrebini, si può passare all’immigrazione, soprattutto a quella clandestina che purtroppo fa migliaia di morti».
Berlusconi: «La cosa più terribile sono le organizzazioni criminali, che sono moltissime. Ben Ali oggi mi ha detto di 300 organizzazioni scoperte dalla polizia del vostro Paese. Sono persone che approfittano della speranza degli altri, delle persone che sono nella miseria e che vogliono donare a se stessi e ai propri cari un futuro migliore. E allora si affidano a persone che con imbarcazioni non sicure si mettono in mare e questo porta a tragedie ad ogni istante. Occorre combattere tutto ciò. È necessario incrementare le possibilità per la gente che vuole tentare nuove opportunità di vita e di lavoro, occorre aumentare le possibilità di entrare legalmente in Italia e negli altri Paesi europei. Questo è ciò che voglio sia fatto, non solo in Italia, ma in tutta Europa. E poi bisogna dire che gli italiani sono stati un popolo che ha lasciato l’Italia e che è emigrato in altri Paesi, soprattutto in quelli americani. E allora questo ci impone il dovere di guardare a quanti vogliono venire in Italia con una apertura totale di cuore. E di donare a coloro che vengono in Italia la possibilità di un lavoro, di una casa, di una scuola per i figli, e la possibilità di un benessere che significa anche la salute e l’apertura di tutti i nostri ospedali alle loro necessità e questa è la politica del mio governo».
Conduttrice: «Siete incredibile presidente, non posso trattenermi dall’applaudire».

[4]               Ivan Illich, La convivialità, Boroli, Milano 2005, pag. 130, ed. orig. 1973

, ,

Liberare l’economia dall’abbraccio mortale con lo sviluppo

    Il concetto di sviluppo indica la liberazione da uno sviluppo che impedisce l’esplicazione di una potenzialità. In biologia descrive la successione delle fasi in cui ogni essere vivente, a partire dal concepimento, matura progressivamente nel periodo della crescita le capacità insite nel patrimonio genetico della propria specie d’appartenenza.

Nella fotografia analogica descrive il procedimento che rende visibile un’immagine latente in un supporto fotosensibile. In geometria la distensione su una superficie piana di una figura geometrica solida. Tutti i processi di sviluppo sono caratterizzati dall’uniformità. Se non si completano rigorosamente tutte le loro fasi nelle successioni e nei tempi previsti, lo sviluppo non arriva a buon fine: gli esseri viventi subiscono delle limitazioni, la fotografia non rispecchia la realtà che il fotografo si proponeva di rappresentare, il disegno non riporta fedelmente le misure e le proporzioni del solido geometrico a cui si riferisce.

In economia il concetto di sviluppo è stato utilizzato per la prima volta dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 1949. In quel discorso lo sviluppo economico veniva presentato come un processo di liberazione delle potenzialità della tecnologia dal viluppo delle limitazioni che le pone la finalizzazione dell’economia alla sussistenza. Nei Paesi in cui questo processo era avvenuto, i progressi della tecnologia avevano consentito di accrescere il potere degli esseri umani sulla natura, la produzione di merci e il benessere delle popolazioni. Per questo motivo il neo-Presidente degli Stati Uniti li definiva sviluppati, mentre definiva sottosviluppati i Paesi ancora prevalentemente caratterizzati da un’economia di sussistenza e da un modesto sviluppo tecnologico. La differenza dei livelli di benessere tra gli uni e gli altri era oggettivamente misurabile in termini di divario del reddito pro-capite (il valore monetario del prodotto interno lordo diviso per il numero degli abitanti). In realtà il reddito fornisce la misura del potere d’acquisto, cioè della possibilità di comprare sotto forma di merci la maggior parte dei beni di cui si ha bisogno o si desiderano. Non può prendere in considerazione i beni che si autoproducono, o vengono scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari, perché non si ottengono comprandoli e, quindi, non hanno un prezzo. Nelle società in cui il saper fare è un elemento significativo del patrimonio culturale condiviso, le persone sono in grado di autoprodurre una parte dei beni di cui hanno bisogno, gli orti familiari sono diffusi e i rapporti di solidarietà non sono stati totalmente sostituiti da rapporti commerciali, il reddito pro-capite è inferiore a quello delle società in cui le persone non sanno fare nulla e devono comprare tutto, la maggior parte della popolazione vive in aree urbane e non può coltivare nulla, i rapporti di solidarietà sono stati sostituiti da rapporti commerciali e dalla competizione, o dall’indifferenza nei confronti degli altri, il lavoro è stato appiattito sull’occupazione, cioè sullo svolgimento di attività che non hanno alcuna attinenza con la soddisfazione dei bisogni esistenziali di chi le compie, ma offrono in cambio un reddito monetario con cui si può comprare tutto ciò che serve per vivere. Utilizzando il criterio di valutazione introdotto dal neo-presidente americano Truman e ormai generalizzato, le società del primo tipo sono sottosviluppate, ma non per questo se ne può dedurre che il loro livello di benessere sia inferiore a quello del secondo tipo di società che, invece, sono sviluppate. Nonostante costituisca da allora un caposaldo dell’immaginario collettivo, sia dei sostenitori del pensiero dominante, sia dei suoi avversari, non è detto che il benessere sia direttamente proporzionale all’entità del reddito pro-capite e cresca in proporzione con la sua crescita. Ciò non vuol dire che non ci sia nessuna attinenza tra il benessere e il reddito, né che il benessere diminuisca, o quanto meno non cresca, col crescere del reddito. Il contrario di una proposizione non vera non è necessariamente vero.

La produzione di merci è indispensabile per migliorare il benessere, perché nessun individuo e nessuna comunità in cui il legame sociale sia costituito dalla solidarietà, o dall’economia del dono, come è stata definita da Marcel Mauss, sono in grado di produrre autonomamente e di scambiare senza l’intermediazione del denaro tutto ciò che è necessario per vivere, o rende piacevole la vita. Le economie di sussistenza non hanno mai fatto a meno della produzione di merci e del mercato. Il benessere sociale cresce al crescere della quantità e della varietà delle merci che si possono acquistare, a integrazione dei beni che si autoproducono o si scambiano sotto forma di dono reciproco del tempo. La compravendita delle eccedenze della produzione agricola per autoconsumo, dei beni prodotti dagli artigiani e dei servizi forniti da personale specializzato (dai medici ai professionisti, agli insegnanti) danno un contributo insostituibile al miglioramento della qualità della vita. La produzione di merci e il mercato sono elementi costitutivi delle attività economiche, tanto quanto l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Se però lo sviluppo, cioè l’aumento del reddito monetario pro-capite, diventa il criterio di valutazione  del benessere di una società, tutte le attività produttive vengono progressivamente indirizzate alla crescita della produzione di merci. L’economia diventa economia di mercato non quando ci sia un mercato in cui si scambiano merci con denaro, ma quando si produce tutto per il mercato. Di conseguenza tutte le forme di autoproduzione e di scambi non mercantili basati sulla solidarietà diventano freni allo sviluppo della mercificazione, per cui vengono ostacolati e repressi in vari modi: con apposite misure legislative, con la loro svalutazione nel sistema dei valori condivisi, con la cancellazione delle conoscenze necessarie al saper fare dall’ambito della cultura, con l’esaltazione della concorrenza come fattore di progresso, con l’identificazione del benessere col tantoavere. Le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate all’aumento della produttività e i danni ambientali che spesso vengono causati per accrescerla, non vengono nemmeno presi in considerazione. Le risorse ambientali vengono considerate infinite o infinitamente riproducibili. I beni comuni vengono privatizzati. L’unica forma di lavoro socialmente riconosciuta è l’occupazione. Chi lavora per produrre beni per autoconsumo e non per produrre merci in cambio di un reddito che consenta di comprarle, viene inserito nella categoria delle non forze di lavoro. La povertà e la ricchezza vengono misurate con il livello del reddito monetario.

L’introduzione del concetto di sviluppo in economia è avvenuta nella fase storica in cui gli Stati Uniti avevano completato la trasformazione della loro economia in economia di mercato, riducendo al minimo l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Affinché la loro economia e il loro reddito pro-capite potessero continuare a crescere, avevano bisogno di estendere la possibilità di vendere le loro merci al di fuori dei loro confini e di acquisire al di fuori dei loro confini le materie prime necessarie a sostenere la loro crescita economica. Dovevano fare in modo che i Paesi sottosviluppati si inserissero nel circuito economico e produttivo dei Paesi sviluppati. Pertanto, era necessario che, nei Paesi in cui gran parte delle attività produttive erano ancora finalizzate alla sussistenza, aumentasse il numero dei consumatori di merci e di conseguenza il numero dei produttori di merci, perché soltanto chi lavora in cambio di un reddito monetario, e non per produrre ciò che gli serve per vivere, è in grado di, e non può far altro che, acquistare sotto forma di merci tutto ciò di cui ha bisogno. Per questo motivo il neo-presidente Truman proponeva agli Stati Uniti di fornire ai popoli che definiva sottosviluppati, perché non erano stati capaci di sviluppare le potenzialità che nella sua visione del mondo caratterizzano il patrimonio genetico di tutte le società, l’assistenza tecnologica necessaria a diventare Paesi in via di sviluppo. In questo modo, non solo estendeva l’egemonia culturale del modello americano sui popoli del terzo mondo, presentandosi come il ricco filantropo che aiuta il povero a superare le sue difficoltà, ma si accattivava il consenso delle grandi compagnie industriali americane, aprendo ad esse grandi spazi di mercato in cui vendere le loro tecnologie, o in cui utilizzarle per estrarre le materie prime, in particolare le energie fossili, di cui i Paesi industrializzati avevano bisogno per continuare a crescere. Inoltre contava di contrastare efficacemente la politica internazionale dell’Unione Sovietica, che si proponeva di guidare verso la costituzione di Stati socialisti le lotte di liberazione di quei popoli dal colonialismo.

Bastarono venti anni per rendersi conto che la finalizzazione dell’economia allo sviluppo stava creando problemi sempre più gravi a livello ambientale, sia perché i consumi delle risorse non rinnovabili, in particolare delle fonti fossili, ne rendevano sempre più costoso tecnicamente e più problematico politicamente l’approvvigionamento, sia perché la finalizzazione delle innovazioni tecnologiche all’aumento della produttività causava forme di inquinamento sempre più gravi. Inoltre, gli aiuti allo sviluppo dei popoli sottosviluppati anziché accrescere il loro benessere, accrescevano la ricchezza degli strati sociali più ricchi e la povertà degli strati sociali più poveri. Nei Paesi in via di sviluppo lo spostamento dall’economia di sussistenza all’economia di mercato fu attuato a partire dall’agricoltura, con la cosiddetta rivoluzione verde (così chiamata anche in contrapposizione con la rivoluzione rossa a cui l’Unione Sovietica tentava di indirizzare i movimenti di liberazione di quei popoli). Per accrescere i rendimenti agricoli furono selezionate geneticamente varietà vegetali più produttive, che però richiedevano maggiori quantità d’acqua, l’uso di fertilizzanti chimici, fitofarmaci, macchinari agricoli e carburante. I loro semi erano sterili e dovevano essere acquistati ogni anno dai produttori. L’adozione di queste innovazioni richiedeva investimenti che non potevano essere effettuati dai contadini poveri. Inoltre, i fertilizzanti di sintesi e la monocoltura delle essenze più produttive impoverivano progressivamente il contenuto humico dei suoli e accrescevano la dipendenza dell’agricoltura dalle industrie chimiche dei Paesi nord-occidentali. La rivoluzione verde accentuò la dipendenza dei Paesi sottosviluppati dai Paesi sviluppati, gli aiuti allo sviluppo accrebbero i loro debiti, i contadini poveri persero la possibilità di soddisfare le loro esigenze vitali con l’agricoltura di sussistenza e furono costretti a emigrare nelle baraccopoli che si espandevano ai margini delle città.

Nei primi anni settanta del secolo scorso i problemi ambientali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo non potevano più essere ignorati. Nel 1970 il Club di Roma, un’associazione internazionale promossa da dirigenti industriali, imprenditori e docenti universitari, commissionò a un gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology uno studio previsionale sul futuro dell’umanità se cinque fattori critici avessero continuato a crescere con gli stessi incrementi che avevano avuto dalla fine della seconda guerra mondiale: l’aumento della popolazione, la produzione di alimenti, la produzione industriale, l’esaurimento delle risorse non rinnovabili e l’inquinamento. Dallo studio, pubblicato nel 1972 in italiano col titolo I limiti dello sviluppo (in inglese era Limits to growth) risultò che entro il XXI secolo sarebbero stati superati i limiti della compatibilità ambientale e si sarebbe arrivati al collasso. Nello stesso anno fu convocata a Stoccolma la prima conferenza mondiale sull’Ambiente umano, in cui si cominciò a prendere in considerazione il fatto che la tutela ambientale non era meno importante dello sviluppo economico per la qualità della vita. Nell’autunno del 1973 scoppiò la prima crisi petrolifera e tutti i Paesi sviluppati furono costretti a varare drastiche misure di riduzione dei consumi energetici. Sempre in quegli anni cominciarono a manifestarsi tre forme d’inquinamento globali: le piogge acide, il buco nell’ozono e l’effetto serra, da cui si evinceva che l’apparato tecno-industriale aveva raggiunto una potenza tale da modificare gli equilibri della biosfera in un senso sfavorevole per l’umanità. L’idea che lo sviluppo fosse la realizzazione delle potenzialità insite nel patrimonio genetico delle società umane cominciò a vacillare e nelle conferenze mondiali, convocate per cercare di attenuare i problemi che creava, si cominciò a sostenere che occorreva definirne meglio le connotazioni, perché non ogni tipo di sviluppo può essere considerato positivo. Si cominciò a dire che occorreva un nuovo modello di sviluppo, senza peraltro andare molto oltre la definizione; che lo sviluppo per essere buono doveva essere sostenibile e/o durevole e via aggettivando; che non bisognava confondere lo sviluppo, che ha una valenza qualitativa, con la crescita economica, che ha una connotazione esclusivamente quantitativa. Da questa distinzione sarebbe stato logico far derivare un disaccoppiamento tra i due concetti e, quindi, la possibilità di perseguire uno sviluppo senza crescita, o anche associato a una decrescita. Cosa impossibile da concepire in un sistema economico che continuava e continua a identificare la quantità con la qualità, come è stato ribadito anche da papa Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate (2009), dove, al punto 14, si legge che è «un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere di più». Non è necessario essere teologi per sapere che nella concezione cristiana l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere meglio e basta l’esperienza quotidiana della vita per verificare che non sempre il più coincide col meglio, mentre spesso capita d’imbattersi in situazioni in cui è il meno a costituire un miglioramento. La stessa identificazione tra quantità e qualità è stata implicitamente sostenuta da chi ha affermato che il fine delle attività produttive sia perseguire una crescita qualitativa, senza specificare le ragioni per cui escludeva che anche la decrescita potesse avere connotazioni di qualità. Da questi tentativi di assegnare a un concetto connotazioni incompatibili con il suo significato, la logica è uscita malconcia, ma, quel che è peggio, i problemi causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo sostenibile o alla crescita qualitativa, che dir si voglia, sono rimasti irrisolti e si sono aggravati.

Il tentativo più efficace di ridare al concetto di sviluppo la credibilità che aveva perso quando si cominciò a capire che era la causa determinante della crisi ecologica, fu effettuato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo istituita dall’Onu e presieduta dall’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, che lo sganciò, ma solo concettualmente, dal suo legame simbiotico con la crescita della produzione di merci per agganciarlo alla sostenibilità. Nel rapporto finale della commissione, intitolato Our Common Future, veniva formulato per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, che veniva così definito: «uno sviluppo che soddisfi i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». In questa definizione la sostenibilità non è l’obbiettivo da raggiungere per ridurre l’impatto dello sviluppo sull’ecosistema terrestre, ma una connotazione che le generazioni attuali devono conferire allo sviluppo per consentire che le generazioni future possano continuare a fare altrettanto. Più che di sviluppo sostenibile si sarebbe dovuto parlare di sviluppo durevole, come alcuni hanno fatto. Lo sviluppo non veniva ridefinito in funzione della sua sostenibilità, ma la sostenibilità veniva valorizzata come connotazione indispensabile per dare continuità allo sviluppo. Le applicazioni pratiche di questa impostazione furono i progressi delle tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse non rinnovabili, in modo di consumarne di meno per ogni unità di prodotto, e delle tecnologie meno impattanti sugli ambienti, soprattutto per ridurre l’incidenza dei disastri ambientali che avevano cominciato a instillare nell’opinione pubblica forti dubbi sulla bontà dello sviluppo. Del resto, per quale motivo si sente la necessità di parlare di sviluppo sostenibile se non per prendere le distanze da uno sviluppo che non lo è? Se non per ridare credibilità a un’idea che l’ha persa? L’impegno maggiore venne riservato allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e, in subordine, dell’efficienza energetica. Con una resipiscenza tardiva, dopo aver interrato o bruciato dagli anni cinquanta del secolo scorso quantità crescenti di rifiuti, l’attenzione è stata recentemente rivolta al recupero dei materiali che contengono, facendo diventare di gran moda lo slogan dell’economia circolare e inducendo gli spiriti semplici a credere che si possa attivare una sorta di moto produttivo perpetuo a ridotto impatto ambientale utilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per produrre nuovi oggetti. Le tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse e riducono l’inquinamento dei processi produttivi sono una cosa buona, ma i vantaggi che offrono vengono annullati, come in una gigantesca fatica di Sisifo, se contestualmente continua ad aumentare la quantità della produzione. Se il fine dell’economia resta lo sviluppo, la sostenibilità del sistema economico e produttivo non aumenta anche se aumenta la sostenibilità di alcuni processi produttivi. L’economia finalizzata allo sviluppo non può essere sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro.

Ma cos’è la sostenibilità? Per definire con precisione il concetto di sostenibilità, uscendo dalla genericità con cui viene usato, occorre metterlo in relazione con la fotosintesi clorofilliana, l’unico processo biochimico che produce l’energia di cui hanno bisogno tutte le specie viventi. Ogni giorno il sole invia sulla terra una quantità di energia luminosa, che viene utilizzata dalla vegetazione per sintetizzare molecole di anidride carbonica con molecole d’acqua e ricavarne molecole di uno zucchero semplice, il glucosio, che successivamente concorrono a formare le molecole complesse che costituiscono la struttura dei vegetali (cellulosa e lignina), e quelle che li nutrono e nutrono attraverso le catene alimentari tutte le specie viventi (lipidi, proteine, vitamine, carboidrati). La fotosintesi clorofilliana assorbe l’anidride carbonica emessa dall’espirazione di tutti i viventi, compresi i vegetali, e genera l’ossigeno necessario alla loro respirazione. Per 8.000 secoli questo scambio è rimasto in equilibrio: tanta anidride carbonica emessa dall’espirazione dei viventi veniva metabolizzata dalla vegetazione quanto ossigeno veniva emesso dalle piante e inspirato da tutti i viventi. Dalla seconda metà del XIX secolo e, con intensità crescente nel XX, questo equilibrio si è rotto perché gli esseri umani da una parte hanno accresciuto le emissioni di anidride carbonica bruciando quantità crescenti di fonti fossili per ricavare l’energia necessaria allo svolgimento dei processi produttivi e al sistema dei trasporti, d’altra hanno ridotto la fotosintesi clorofilliana disboscando per fare posto all’agricoltura e alle aree urbane. L’anidride carbonica eccedente le capacità di sintesi della vegetazione si è progressivamente accumulata nell’atmosfera, aumentando la sua concentrazione nel miscuglio di gas che compongono l’aria, dalle 270 parti per milione in cui si era stabilizzata da 8.000 secoli a 380 nel secolo scorso e a 410 nei primi 15 anni di questo secolo. Poiché l’anidride carbonica trattiene all’interno dell’atmosfera una parte della radiazione infrarossa che il sole invia sulla terra e la terra rimbalza verso lo spazio, nel XX secolo la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,8 °C e si è innescato un cambiamento climatico di cui l’umanità ha appena iniziato a subire le conseguenze. In questo contesto la finalizzazione delle attività economiche e produttive alla sostenibilità richiede l’adozione di tecnologie, di misure di politica economica e di stili di vita che consentano di ricondurre le emissioni di anidride carbonica a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana. Questo obbiettivo può essere perseguito agendo in due direzioni: diminuendo i consumi di fonti fossili e aumentando la superficie terrestre ricoperta da boschi e foreste. Entrambe in una prima fase richiedono investimenti che comportano un aumento della produzione e del consumo di merci, ma in prospettiva ne determinano una diminuzione stabile. La scelta più efficace per ridurre i consumi di fonti fossili non è, come si è voluto far credere nell’ottica dello sviluppo sostenibile, lo sviluppo delle fonti rinnovabili, ma una strategia incentrata in primo luogo sulla riduzione di sprechi e inefficienze (circa il 70 per cento dei consumi energetici in Italia), in modo da ridurre al minimo il fabbisogno da soddisfare con le fonti rinnovabili. Poiché il patrimonio edilizio assorbe circa la metà dei consumi energetici totali, occorre limitare drasticamente la costruzione di nuovi edifici e indirizzare l’edilizia alla ristrutturazione energetica di quelli esistenti. Per aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste occorre ripiantumare quelle disboscate per ricavarne terreni agricoli non dedicati all’alimentazione umana, ma all’alimentazione degli animali d’allevamento e alla produzione di biocarburanti. Invece di prendere in considerazione una strategia di questo genere, finalizzata a ridurre le emissioni di anidride carbonica, i governanti di tutto il mondo, nel corso della Cop 21 che si è svolta a Parigi nel dicembre 2015, si sono accordati di contenere l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo tra 1,5 e 2 °C, ovvero da un valore minimo che è il doppio rispetto all’incremento del secolo scorso, a un valore massimo superiore di 2,5 volte. Di sviluppo sostenibile si muore. Più lentamente che di sviluppo, ma si muore.

Nel 2017, secondo il Footprint Institute, il giorno in cui l’umanità è arrivata a consumare tutte le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso di un anno, è stato il 2 agosto. L’anno precedente era stato il 14 agosto. Dieci anni prima intorno alla metà di settembre. Venti anni prima intorno alla metà di ottobre. Quale nuovo modello di sviluppo consente d’invertire questa tendenza? Come si potrebbe riportare gradualmente quel giorno verso il 31 dicembre se non diminuendo il consumo di risorse rinnovabili, che si può raggiungere riducendo innanzitutto gli allevamenti di animali e l’alimentazione carnea? Una diminuzione dei consumi si può definire sviluppo sostenibile? In tutti gli oceani galleggiano ammassi di poltiglie di plastica grandi come continenti e il numero dei pesci è stato dimezzato dalla pesca d’altura. Come si può fare in modo che che i rifiuti non biodegradabili ammassati in mare e sulla superficie terrestre diminuiscano se non se ne riduce drasticamente la produzione? Come si può fare in modo che il numero dei pesci torni ad aumentare se non limitando la pesca? Come si possono ridurre le più gravi forme d’inquinamento se non abolendo la produzione dei veleni di sintesi chimica usati in agricoltura per accrescere i rendimenti e in alcuni cicli industriali che hanno devastato i territori in cui sono stati insediati? Come si può arrestare la perdita della biodiversità, come si può ricostituire la fertilità dei suoli, se non riducendo lo sfruttamento dei terreni agricoli? Come si può garantire la disponibilità di acqua necessaria a tutti gli esseri umani e a tutte le forme di vita, se non riducendo gli sprechi?

Per consentire all’umanità di avere un futuro, la sostenibilità deve sostituire lo sviluppo come riferimento di tutte le scelte produttive. La sostenibilità non può essere considerata un’opzione al servizio dello sviluppo, allo scopo di attenuare le conseguenze negative che genera. Né si può ridurre il suo significato a una generica attenzione nei confronti dei problemi ambientali. La sostenibilità esprime un concetto tanto preciso quanto ignorato: la necessità di evitare che la produzione e il consumo di merci oltrepassino i limiti della compatibilità ambientale. Poiché questi limiti sono già stati ampiamente superati, la sua declinazione attuale impone che le attività economiche e produttive siano indirizzate a:

– diminuire le emissioni di sostanze di scarto biodegradabili (anidride carbonica) alle quantità che possono essere metabolizzate dalla biosfera;

– diminuire i consumi di risorse rinnovabili alle quantità che possono essere rigenerate annualmente dalla fotosintesi clorofilliana;

– ridurre i consumi delle risorse non rinnovabili, utilizzandole con la massima efficienza, riutilizzando quelle che è possibile riciclare, producendo beni durevoli riparabili e aumentando la loro durata di vita;

– abolire la produzione delle sostanze di sintesi che non possono essere metabolizzate dai cicli biochimici.

Per continuare a utilizzare in economia la parola sviluppo come sinonimo di miglioramento, o se ne capovolge il significato che si è consolidato dal 1949 a oggi, svincolandolo dal legame simbiotico con la crescita e apparentandolo alle parole diminuzione, riduzione, decrescita, o si elimina dall’economia. La prima ipotesi presuppone una deroga alla logica, o quanto meno al senso comune. La seconda è più drastica, ma meno ambigua. In fin dei conti si usa soltanto da 70 anni. Comunque, per superare la crisi economica e invertire la tendenza al peggioramento della crisi ecologica non serve un nuovo modello di sviluppo, ma un nuovo modello di economia senza sviluppo.

Maurizio Pallante

 

 

, ,

L’economia della crescita ha bisogno delle migrazioni

, , ,

Oltre la destra e la sinistra. Firenze, Teatro Verdi, 2 ottobre 2016

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, nel corso della Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate.

 

Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. […] Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».

 

Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che Marx, in un famoso passo del Capitale, definisce come il passaggio da un modo di produzione che può essere descritto con la formula M-D-M a un modo di produzione che può essere descritto dalla formula D-M-D1, dove la lettera M indica le merci e la lettera D indica il denaro. Nel modo di produzione pre-industriale, M-D-M, le attività produttive vengono svolte da artigiani che producono merci per clienti che le richiedono perché ne hanno bisogno, e ricevono in cambio del denaro che utilizzano per produrre altre merci richieste da altri clienti che ne hanno bisogno. Il fine del lavoro è la produzione di merci che hanno un valore d’uso e il denaro è il mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale,  D-M-D1, i capitalisti investono del denaro, accumulato originariamente con varie forme di sopraffazione – colonialismo, schiavismo, privatizzazione delle terre comuni ed espulsione dei contadini dalle campagne per costringerli a diventare operai – per produrre con l’uso di macchine sempre più efficienti azionate da motori, quantità crescenti di merci che non sono state richieste da nessuno, allo scopo di venderle per ricavare più denaro di quello che hanno investito per produrle. Il valore di D1 deve pertanto essere superiore al valore di D, altrimenti il processo non avrebbe senso, e la differenza tra i due valori costituisce il profitto. Nel modo di produzione industriale si producono valori di scambio e il denaro diventa il fine della produzione.

 

La destra e la sinistra hanno valutato che il modo di produzione industriale costituisse un progresso rispetto al modo di produzione pre-industriale perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca di abbondanza senza precedenti. A partire da questa comune valutazione culturale, lo scontro tra i due schieramenti è stato politico e si è articolato su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso «la mano invisibile del mercato», come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra? La storia ha dimostrato che dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto sia cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa con la vittoria definitiva della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dai flussi interminabili di Trabant che portavano i tedeschi dell’est ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi stracarichi di merci tecnologicamente avanzate nella Germania dell’ovest.

 

Il mercato fa crescere la produzione di merci più della programmazione e dei piani quinquennali. L’economia che distribuisce in maniera più iniqua il profitto (la differenza tra D1 e D) riduce la quota destinata ai consumi e accresce la quota destinabile agli investimenti, per cui fa crescere la produzione di merci più di un’economia che, distribuendo in modi più equi il profitto, fa crescere di più la quota destinata ai consumi e riduce la quota destinabile agli investimenti. Se la sinistra condivide con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è strategicamente perdente. E ha perso. Ma la sua sconfitta non è la sconfitta della pulsione all’eguaglianza, che la sinistra ha incarnato per appena due secoli e mezzo. È la sconfitta dell’interpretazione storica che ne ha dato. Pertanto i sostenitori dell’eguaglianza non possono non domandarsi come il loro ideale possa trovare una nuova concretizzazione storica, liberandosi dai limiti, dagli errori e dai vincoli di quella interpretazione.

 

L’errore di fondo della sinistra è stato di credere che si potesse realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani distribuendo in maniera più equa il profitto generato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ovvero governando in maniera diversa dalla destra un sistema economico e produttivo che, come la destra, considerava un progresso perché attraverso i progressi della scienza e della tecnologia accresceva sempre di più il potere della specie umana sulla natura, consentendole di ricavare quantità sempre maggiori di risorse e di produrre quantità sempre maggiori di beni. Questa concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio, è stata teorizzata dal filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà seicento. Pochi anni dopo il filosofo francese René Descartes avrebbe sostenuto che gli esseri umani sono ontologicamente diversi da tutti gli altri esseri viventi, a cui li accomuna il corpo, la res extensa, ma da cui li distingue la capacità di pensare e la coscienza, la res cogitans, per cui non fanno parte della natura, ma vi agiscono come attori sulla scena di un teatro. La res cogitans, che condividono con Dio, li rende superiori a tutti gli altri viventi e li autorizza a considerare che tutti i viventi non umani siano stati creati per soddisfare le loro esigenze, per cui hanno il diritto di utilizzarli ai propri fini. Su questa concezione antropocentrica si è fondato lo sfruttamento crescente delle risorse naturali che ha consentito di finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e che, in poco più di due secoli, ha progressivamente aggravato la crisi ecologica fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana. Sulla base di questa concezione, che accresce le iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi, vegetali e animali, la sinistra ha ritenuto che la crescita delle merci prodotte di anno in anno costituisse la premessa per realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani.

 

Le conseguenze di questa concezione antropocentrica sono sotto gli occhi di tutti, a eccezione dei politici di destra e di sinistra, degli economisti, degli imprenditori e dei sindacati. La crescita della produzione di merci ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili, in particolare quelli di fonti fossili, accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, in particolare le emissioni di anidride carbonica, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica tossiche e non tossiche (le plastiche) non metabolizzabili dalla biosfera. La riduzione delle disponibilità delle risorse non rinnovabili ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo dove insistono i giacimenti più ricchi. I consumi delle risorse rinnovabili hanno superato la loro capacità di rigenerazione annua e per sostenere la loro crescita economica i popoli ricchi ne accaparrano quantità crescenti per sostenere i loro sprechi, sottraendo ai popoli poveri il necessario per vivere. Dal 2008 la globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale, che è indispensabile per continuare a far crescere l’economia in questa fase storica, ha strozzato la crescita economica e i costi dei tentativi di ripresa, sino ad ora fallimentari, sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri continuano ad essere privati del necessario per vivere, per cui sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre e a sottoporsi a sofferenze inenarrabili nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.

 

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un’estensione della sopraffazione della specie umana sulla terra in quanto organismo vivente e su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente, in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani. Le conseguenze più gravi della crisi ecologica e della crisi economica vengono pagate e saranno pagate in misura sempre maggiore dai più poveri tra gli esseri umani. Solo una maggiore equità tra la specie umana e le altre specie viventi consente di accrescere l’equità tra gli esseri umani. Una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani si può realizzare soltanto abbandonando l’antropocentrismo che caratterizza la concezione occidentale del mondo e sviluppando una concezione del mondo biocentrica. Questo è il primo elemento di una nuova declinazione dell’uguaglianza rispetto all’interpretazione che ne ha dato storicamente, per 250 anni, la sinistra.

 

Un secondo elemento che caratterizza l’iniquità insita nella concezione dell’eguaglianza sviluppata dalla sinistra può essere riassunto con questa formulazione: non si può fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi sull’iniquità nei confronti delle generazioni a venire. I debiti pubblici accumulati dalla seconda metà del novecento per sostenere lo stato sociale sono il frutto di un patto non scritto, ma condiviso dalla destra e dalla sinistra, per accrescere il benessere materiale delle classi subalterne senza intaccare i profitti delle classi dominanti. Hanno garantito la crescita economica e la pace sociale a spese di chi non era ancora nato. Le politiche keynesiane, che ne sono state il suggello, hanno cancellato la consapevolezza che i debiti monetari contratti per continuare a far crescere la produzione e la domanda di merci nelle fasi in cui si inceppa, sono gli epifenomeni di debiti contratti nei confronti della natura e delle generazioni future. Se la spesa pubblica in deficit ha svolto questa funzione in passato, nella fase attuale crea più problemi di quanti ne risolva. A livello ambientale perché la produzione di merci a livello mondiale eccede già le capacità del pianeta di fornirle le risorse di cui ha bisogno e di metabolizzare i suoi scarti, per cui spingerla ulteriormente non può che aggravare la crisi ecologica fino al collasso. A livello sociale perché il sovraconsumo delle risorse che ha indotto, ha creato per le giovani generazioni prospettive di vita peggiori di quelle dei loro padri e dei loro nonni. Una nuova declinazione dell’uguaglianza, che consenta di superare questi problemi, richiede lo sviluppo delle tecnologie che riducono il consumo di risorse per unità di prodotto, ovvero una decrescita selettiva e guidata degli sprechi. Questo non è soltanto l’unico modo di creare occupazione, e quindi di restituire un futuro desiderabile ai giovani, ma l’occupazione che si crea in questo modo è utile perché riduce il consumo di risorse e paga i suoi costi d’investimento con i risparmi che consente di ottenere. Fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi senza prendere in considerazione le conseguenze negative che può scaricare sulle generazioni future, come ha fatto la sinistra, è una scelta della massima iniquità. Per superarla occorre riscoprire uno dei fondamenti della cultura contadina. I vecchi contadini piantavano, come lascito ai loro nipoti, alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti e lo facevano perché da bambini avevano mangiato frutti di alberi che erano stati piantati per loro dai loro nonni.

 

Un terzo elemento generatore d’iniquità che occorre rimuovere dall’interpretazione storica data dalla sinistra all’eguaglianza, è la convinzione che le diseguaglianze tra le classi sociali nei Paesi ricchi e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si misurino sostanzialmente con le differenze di reddito monetario. Tutte le statistiche sulla crescita della povertà su cui gli intellettuali di sinistra fondano le loro critiche alla concezione economica oggi dominante, che definiscono neo-liberismo, si fondano su dati monetari. In realtà il reddito monetario può essere considerato una misura adeguata della ricchezza soltanto nelle società che hanno finalizzato l’economia alla produzione di merci, cioè di oggetti e servizi fatti per essere venduti allo scopo di far crescere il profitto di chi li ha prodotti. Soltanto nelle società che finalizzano il lavoro umano non alla soddisfazione dei bisogni della vita, ma alla crescita del profitto, e fondano i rapporti sociali sulla competizione. In queste società l’autoproduzione di beni e i rapporti fondati sulla solidarietà e la collaborazione sono disprezzati e banditi, perché riducono la necessità di comprare e quindi fanno crescere di meno i profitti. Solo se si accetta questo sistema di valori e si pensa che tutto ciò che serve si può solo comprare, si può ritenere che le diseguaglianze si misurino con le differenze di reddito. Le merci sono indispensabili perché nessuno può autoprodurre tutto ciò di cui ha bisogno e nessuna comunità può essere totalmente autosufficiente. Ma le merci non possono soddisfare tutte le esigenze umane e, se tutto ciò che risponde a un bisogno si deve comprare, accrescono la dipendenza dal mercato, riducono l’autonomia delle persone e delle comunità, inducono a identificare il benessere col consumismo, lacerano i rapporti sociali fondati sulla solidarietà. Un sistema economico che si proponga di migliorare il benessere degli esseri umani e a ridurre le diseguaglianze non si lascia ingabbiare nella dimensione monetaria. Non trascura l’importanza del benessere materiale e si propone di creare le condizioni per cui tutti possano accedervi, ma sa che il benessere dipende in misura ancora maggiore dalla tutela dei beni comuni, dei più deboli, della bellezza dei luoghi in cui si vive, della sovranità alimentare, dell’autosufficienza energetica, del sapere tradizionale, delle possibilità di coltivare la propria creatività e di soddisfare le proprie esigenze di conoscenza disinteressata. In una parola di tutto ciò che non si può comprare col denaro e dà un senso alla vita molto più di ciò che si può comprare.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani devono comprare le quantità crescenti di merci che vengono prodotte, altrimenti non si potrebbe continuare a produrne, per cui devono identificare il benessere con il consumismo. Il consumismo deve diventare l’asse portante del sistema dei valori. La realizzazione umana degli individui deve identificarsi con la loro capacità di spesa, con la quantità e la qualità degli oggetti e dei servizi che possono comprare. Coloro che hanno di più diventano il modello di coloro che hanno di meno. Ciò genera uno stato di insoddisfazione permanente anche in chi ha molto più della media, perché c’è sempre qualcuno che ha di più. Il consumismo ha operato, per riprendere le parole di Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica, appiattendo gli esseri umani sulla dimensione materialistica e cancellando dal loro orizzonte mentale la spiritualità. Il recupero della dimensione spirituale è indispensabile per percepire l’intreccio delle relazioni che legano tutte le specie viventi tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, come insegna la scienza dell’ecologia. Per sentire come una sofferenza propria la sofferenza di chi non ha il necessario per vivere, dei giovani che non trovano un’occupazione, di coloro che non sono ancora nati per le condizioni in cui troveranno ridotto il mondo, degli animali negli allevamenti industriali, il taglio di un bosco, l’annullamento della fotosintesi clorofilliana sotto i sudari d’asfalto e di cemento, il sacrificio della bellezza al profitto. La spiritualità non è la fede, anche se non ci può essere fede senza spiritualità. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. Fede è sustanza di cose sperate è argomento delle non parventi, ha scritto Dante. Non tutti hanno la fede, ma la spiritualità è un elemento costitutivo della natura umana. Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica, la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile che consente di recuperare la dimensione della solidarietà non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi, e di conferire alla pulsione all’eguaglianza una connotazione non solo politica, ma esistenziale.

 

,

Il cemento mangia 8 chilometri di costa all’anno

I dati del rapporto Ambiente Italia di Legambiente, che intanto con Goletta Verde sta verificando lo stato delle acque

roberto giovannini

In Italia ci sono oltre 7mila km di coste con bellezze storiche, ambientali, geomorfologiche. Ma oggi il 51% dei litorali italiani è stato trasformato da case e palazzi e la cifra, senza un cambio delle politiche, è destinata a crescere: negli ultimi decenni al ritmo di 8 km all’anno, più della metà dei paesaggi costieri sono stati letteralmente `mangiati´ da palazzi, alberghi e ville. Non solo cemento: un terzo delle spiagge è interessato da fenomeni erosivi in espansione; 14.542 sono le infrazioni accertate nel corso del 2014 tra reati inerenti al mare e alla costa in Italia, 40 al giorno, 2 ogni km. L’habitat marino è costantemente messo alla prova dall’inquinamento, con il 25% degli scarichi cittadini ancora non depurati (40% in alcune località) e ben 1.022 agglomerati in procedura di infrazione europea. Il 45% dei prelievi realizzati da Goletta Verde nel 2015 è risultato inquinato, mentre la plastica continua a invadere spiagge e fondali marini. Solo il 19% della costa (1.235 km) è sottoposta a vincoli di tutela. Questa la fotografia della nostra costa scattata dal rapporto Ambiente Italia 2016, a cura di Legambiente e edito da Edizioni Ambiente, presentato oggi a Roma.

 

 

 

A peggiorare la situazione ci si mette il consumo di suolo: dei 6.477 km di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, 3.291 km sono stati trasformati in modo irreversibile. Nello specifico 719,4 km sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 918,3 sono stati colonizzati dai centri urbani. La diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, interessa 1.653,3 km, pari al 25% dell’intera linea di costa. Tra le regioni, la Sicilia ha il primato assoluto di km di costa caratterizzati da urbanizzazione meno densa ma diffusa (350 km), seguita da Calabria e Puglia; la Sardegna è invece la regione più virtuosa per quantità di paesaggi naturali e agricoli ancora integri.

 

Dal 1988 ad oggi, sono stati trasformati da case e palazzi ulteriori 220 km di coste, con una media di 8 km all’anno, cioè 25 metri al giorno. Tra le regioni più devastate la Sicilia con 65 km, il Lazio con 41 e la Campania con 29. Nelle aree costiere, secondo i dai Istat, nel decennio 2001-2011 sono sorti 18mila nuovi edifici. Ben 700 edifici per chilometro quadrato sia in Sicilia che in Puglia, 600 in Calabria ma anche 232 per chilometro quadrato in Veneto, 308 in Friuli Venezia Giulia, 300 in Toscana, Basilicata e Sardegna.

 

Ad emergere dal rapporto è anche un’aggravante che si va ad aggiungere alle tante criticità: quella dei cambiamenti climatici «con impatti significativi sugli ecosistemi, sulla linea di costa e sulle aree urbane», sottolinea Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. Una sfida, aggiunge, che «deve portare a una nuova e più incisiva visione degli interventi. Occorre rafforzare la resilienza dei territori ai cambiamenti climatici e spingere verso la riqualificazione e valorizzazione diffusa del patrimonio costiero». Le ragioni della fragilità delle aree costiere italiane risiedono in problemi idrogeologici e nelle conseguenze di urbanizzazioni, sia legali che abusive. A questo si aggiungono fenomeni meteorologici come temporali, alluvioni e esondazioni che si stanno ripetendo con nuova intensità e frequenza.

 

I cambiamenti climatici insomma rendono i nostri territori costieri più fragili e mettono in pericolo le persone, insieme al fenomeno dell’innalzamento dei mari. Tra le minacce, l’erosione costiera: oggi più di un terzo delle nostre spiagge è in erosione e il futuro sembra ancora più arduo per l’innalzamento del livello del mare e l’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi. In molti casi si è intervenuti con la costruzione di scogliere aderenti alla costa che hanno, di fatto, solo spostato il problema, col risultato che oggi abbiamo interi tratti di costa coperti da scogliere artificiali, che non permettendo il ricambio idrico e la sedimentazione delle sabbie, contribuiscono al progressivo abbassamento dei fondali e ai possibili crolli. La tecnica del ripascimento dei litorali è più efficace ma anche più costosa.

 

«Per il futuro delle aree costiere – ha dichiarato Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente – abbiamo la possibilità di ispirarci e scegliere un modello che si è già rivelato di successo. Quello delle aree protette e dei territori che hanno scelto di puntare su uno sviluppo qualitativo e che stanno vedendo i frutti positivi anche in termini di crescita del turismo». In Italia ci sono 32 aree protette nazionali con misure di tutela a mare (pari a oltre 2milioni e 800mila ettari di superficie protetta a mare), 27 aree marine protette (o riserve marine), 2 parchi marini sommersi, 2 perimetrazioni a mare nei parchi nazionali e un santuario internazionale per la tutela dei mammiferi marini. Inoltre oggi sono individuate ben 54 aree marine di reperimento dove istituire riserve marine.

Fonte: LaStampa.it

, , ,

Beni e merci: è così difficile da capire?

La crescita economica, occorrerà ripeterlo fino allo sfinimento ma non basterà, non è l’aumento della quantità dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico e produttivo in un periodo di tempo determinato, perché il parametro con cui si misura, il Prodotto Interno Lordo, è un valore monetario che si calcola sommando i prezzi degli oggetti e dei servizi a uso finale (consumi e investimenti) scambiati con denaro, cioè comprati e venduti, in quel periodo di tempo. La crescita del PIL è pertanto l’incremento percentuale di quel valore monetario rispetto al valore monetario del PIL calcolato nell’identico periodo temporale precedente.

La parola che definisce gli oggetti e i servizi scambiati con denaro è merci; la parola che definisce la compravendita di oggetti e servizi è commercio; il luogo in cui avvengono gli scambi commerciali è il mercato.

La motivazione che induce le persone a comprare un oggetto o un servizio è l’utilità, vera o presunta, oggettiva o soggettiva, che pensano di ricavarne. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene.

I concetti di bene e di merce indicano pertanto due caratteristiche diverse di un oggetto o di un servizio. Diverse non significa contrarie, perché il contrario di merce non è bene, ma oggetto o servizio non scambiato con denaro, e il contrario di bene non è merce, ma oggetto o servizio che non offre alcuna utilità. Nello stesso oggetto non possono coesistere due caratteristiche contrarie, ma sono compresenti normalmente due o più caratteristiche diverse. Una merce non può non essere comprata e un bene non può essere inutile o dannoso, ma un oggetto o un servizio che si acquista perché offre un’utilità, reale o presunta, è un bene che si ottiene sotto forma di merce.[1]

Ci sono però anche beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, o per scelta perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono, o perché non si possono comprare: i beni relazionali, o perché appartengono alla comunità di cui si fa parte e si ha diritto a usufruirne: i beni comuni. I beni autoprodotti, i beni scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, i beni comuni non non rientrano nella categoria delle merci. Di contro, alcuni oggetti e servizi che si comprano e rientrano, pertanto, nella categoria delle merci, non hanno nessuna utilità, per cui non sono beni: gli sprechi dovuti a inefficienza tecnologica o organizzativa, come l’energia che si disperde dagli edifici mal coibentati (almeno il 70 per cento di quella che si utilizza), e il cibo che si butta.

Un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci, che identifica il benessere con la crescita del PIL, cioè con l’aumento del valore monetario delle merci a uso finale scambiate con denaro in un periodo di tempo determinato, non può, per definizione, non tendere a ridurre con tutti i mezzi possibili la produzione di beni che non sono merci e aumentare la produzione di merci anche quando non sono beni. Cancella dall’ambito del sapere condiviso il saper fare necessario all’autoproduzione, valorizza la concorrenza tra gli individui, distrugge le comunità e le famiglie, usa la scuola, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa per persuadere che il modo migliore di avere un bene è comprarlo, identifica il benessere col possesso di cose e l’innovazione col miglioramento, mercifica i beni comuni, riduce il lavoro alla produzione di merci in cambio di un reddito, eliminando dall’immaginario collettivo la possibilità di lavorare per produrre almeno una parte dei beni di cui si ha bisogno, trasforma il denaro da mezzo per acquistare i beni che si possono avere solo sotto forma di merci a fine della vita.

Se si ritiene che la crescita della produzione di merci abbia superato la capacità della biosfera di fornirle le risorse che le sono necessarie e di metabolizzare gli scarti che genera, che sia la causa delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili di cui ha bisogno, della crisi climatica, delle iniquità crescenti tra le classi sociali, tra i popoli, tra la specie umana e le altre specie viventi, non si può non operare per contrastarla e rallentarla, strappandole la maschera seducente con cui nasconde il suo vero volto agli occhi dell’umanità. Questo è l’obbiettivo che si è posto il variegato mondo di coloro che sostengono la necessità di una decrescita. Su come si possa raggiungere le opinioni non sono concordi, come inevitabilmente accade nelle fasi nascenti di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, a cui ognuno approda a partire dalla sua formazione culturale e dai suoi precedenti orientamenti politici. Questo non è un limite, ma un valore paragonabile alla biodiversità che, attraverso il confronto consente di depurare il paradigma culturale nascente dai residui del paradigma culturale precedente insiti in ogni percorso individuale. Solo così è possibile farlo emergere progressivamente dal bozzolo in cui è rinchiuso, come le statue che, secondo Michelangelo, erano contenute nel blocco di marmo da cui lo scultore le libera a forza di togliere.

In relazione alle ipotesi formulate dal movimento della decrescita felice, che costituisce una di queste componenti, Serge Latouche ha scritto e ribadito più di una volta lo stesso concetto, più o meno con le stesse parole:

 

[…] bisogna intendersi esattamente su che cosa debba decrescere. Per la maggioranza degli obiettori di crescita la risposta è che bisogna relegare in secondo piano l’indice-feticcio della crescita, cioè il PIL. È ciò che sostiene esplicitamente Maurizio Pallante, autore di un manifesto della decrescita felice. Per Pallante è necessario ridurre la produzione dei beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nel calcolo del PIL e aumentare quella dei beni e servizi non commerciali che non vi rientrano: autoproduzione, economia del dono e della reciprocità. Dal canto loro, gli adepti della semplicità volontaria e, in Francia i discepoli di Pierre Rabhi, sostengono una posizione analoga, ma meno precisa, con lo slogan «meno beni, più legami». Meno precisa perché dal punto di vista economico il legame può essere considerato come produttore di servizi non commerciali, e dunque di beni (nel senso di Pallante).[2]

 

In questo passaggio, tratto dal suo ultimo libro pubblicato in Italia, La decrescita prima della decrescita (2016), Latouche ha ripreso quanto aveva già scritto più volte nel corso degli ultimi anni. La prima volta nel 2011, nella prefazione alla traduzione in francese del libro di Maurizio Pallante, La decrescita felice, dove si era espresso così:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice la decrescita è un concetto positivo, che può essere definito come la diminuzione del PIL, ovvero la riduzione dei consumi dei beni e dei servizi scambiati con denaro (merci), ma è felice, perché al contempo comporta un aumento di beni e servizi non mercificati (beni), che procurano vere soddisfazioni. Ne risulta che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete.[3]

 

Nel 2012, nel libro Per un’abbondanza frugale aveva ribadito il concetto:

 

È vero che alcuni obiettori di crescita, come Maurizio Pallante in Italia, sembrano pensare che la decrescita – e in primo luogo quella del PIL – sia compatibile con l’economia capitalistica di mercato, ma questa non è l’idea della maggioranza dei decrescenti. Per Pallante, fondatore della corrente della decrescita felice, la decrescita è un concetto positivo che può essere definito con la riduzione del PIL, cioè la diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso c’è un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Questa concezione tende a ridurre la rottura della crescita all’obiettivo dell’autoproduzione, il che la avvicina all’idea della semplicità volontaria.[4]

Nel 2013, nella prefazione del libro di Mauro Bonaiuti La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, non aveva perso l’occasione per ribattere il chiodo:

 

Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice, non si tratta tanto di uno slogan provocatorio che vuole indicare la rottura con la società della crescita, quanto di un obiettivo già applicabile a un contenuto concreto. La decrescita secondo Pallante è un concetto positivo che può essere tradotto in riduzione del PIL, cioè in diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso corrisponde a un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso.[5]

 

In realtà, sin dalla prima formulazione di questa teoria nel libro La decrescita felice, pubblicato nel 2005 e ristampato più volte, la decrescita è stata definita come una riduzione del PIL che si può ottenere non con la diminuzione della produzione e del consumo di merci, ma delle merci che non sono beni, oltre che con l’aumento della produzione e dell’uso di beni autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, quando sia vantaggioso farlo, non solo per ridurre i costi, il consumo di risorse e le emissioni di scarti, ma anche per recuperare un saper fare che riduce la dipendenza dal mercato e per ricostruire i legami sociali lacerati dall’onnimercificazione. La riduzione del consumo di merci che non sono beni e l’aumento dell’uso di beni che non sono merci comportano una riduzione dell’impatto ambientale, un miglioramento della qualità della vita e una riduzione del bisogno di denaro, che consente una riduzione del tempo di lavoro e un aumento del tempo che si può dedicare alle relazioni umane e alla creatività. Una decrescita del PIL ottenuta in questo modo aumenta il benessere: è una decrescita felice.

La riduzione della produzione delle merci che non sono beni, cioè degli sprechi e dei danni che ne conseguono, richiede lo sviluppo di tecnologie con una finalità diversa da quelle che accrescono la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo e, di conseguenza, la produzione totale di merci. Queste tecnologie sono finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, secondo la concezione della scienza formulata in modo organico per la prima volta nella storia dell’occidente dal filosofo Francesco Bacone all’inizio del XVII secolo. Non a caso sono per lo più derivazioni a uso civile di innovazioni tecnologiche sviluppate in ambito militare. Le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale per unità di prodotto sono invece finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui i processi produttivi utilizzano le risorse della terra, in modo da non eccedere la sua capacità bioriproduttiva annua, da ridurre le emissioni biodegradabili a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana, da eliminare le emissioni non biodegradabili. Lo sviluppo di queste tecnologie non soltanto costituisce l’unico modo di accrescere significativamente l’occupazione nei paesi industrializzati, ma crea occupazione in lavori utili (perché creare occupazione non è un valore in sé, anzi può essere un danno se si crea nelle fabbriche delle armi o in processi produttivi devastanti). Le innovazioni tecnologiche finalizzate a una decrescita selettiva e governata degli sprechi costituiscono una proposta di politica economica e implicano un cambiamento di paradigma culturale. Qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

L’aumento della produzione di beni che non passano attraverso la mercificazione è una proposta che presenta profonde affinità con le riflessioni di Ivan Illich sul vernacolare

«Vernacolare» – ha scritto Illich nel 1978 – viene da una radice indogermanica che contiene l’idea di «radicamento» e «dimora». È una parola latina che, nell’epoca classica, indicava qualsiasi cosa allevata, coltivata, tessuta o fatta in casa. […] Io vorrei oggi resuscitare in parte l’antico significato del termine. Abbiamo bisogno di una parola che esprima in maniera immediata il frutto di attività non motivate da considerazioni di scambio; una parola che indichi quelle attività, non legate al mercato, con cui la gente soddisfa dei bisogni, ai quali nel processo stesso del soddisfarli dà forma concreta.[6]

 

E nel 1979, nel saggio Le tre dimensioni della scelta pubblica, pubblicato nello stesso volume, ha ribadito:

 

[…] io propongo […] l’idea di lavoro vernacolare: attività non pagate, che garantiscono e incrementano la sussistenza, ma totalmente refrattarie a ogni analisi basata sui concetti dell’economia formale. «Vernacolare» è un termine latino, che ha assunto oggi una connotazione quasi esclusivamente linguistica. Nell’antica Roma, fra il 500 a. C. e il 600 d. C., esso indicava qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune, valore che una persona poteva proteggere e difendere, ma non poteva né vendere né acquistare sul mercato. Io suggerisco di recuperare questo semplice termine, per contrapporlo alle merci […].[7]

 

L’autoproduzione di beni e gli scambi non mercantili basati sul dono e la reciprocità sono atti di disobbedienza civile che riducono la dipendenza dal mercato, restituiscono dignità culturale al saper fare che costituisce una caratteristica esclusiva della specie umana, consentono di superare l’appiattimento sulla dimensione materialistica e di valorizzare la spiritualità, possono mettere in crisi l’economia della crescita facendo diminuire la domanda di merci. Anche su questo versante qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.

La proposta di ridurre la produzione e il consumo di merci che non sono beni implica l’introduzione di criteri di valutazione qualitativa del fare umano. Non significa credere che il meno sia meglio di per sé, ma scegliere il meno quando è meglio, che è cosa ben diversa dalla proposta di una generica riduzione della produzione e del consumo di merci. La rivalutazione delle capacità di autoproduzione di beni per ridurre la dipendenza dal mercato e ricostruire i legami sociali distrutti dall’onnimercificazione, è un atto di ribellione alla riduzione degli esseri umani a fantocci nevrotici che non sanno fare nulla, non conoscono nulla e sono capaci soltanto di comprare, buttare via e ricomprare.

Fraintendimenti così sostanziali della decrescita felice possono derivare soltanto da una lettura poco attenta, a cui sono sfuggite alcune parole, o dal fatto di dare inconsapevolmente all’aggettivo diverso il significato di contrario e dedurne che le merci non possono essere beni e i beni non possono essere merci. Solo se si pensa che le merci non possano essere beni si può confondere – non una volta per disattenzione, ma ripetutamente – la riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni con la riduzione della produzione e del consumo di merci tout court. Solo se si pensa che i beni non possono essere merci si può dire che «i beni sono i beni e i servizi non mercantili». Mentre chiunque sa che molti beni – cioè oggetti e servizi utili – si possono comprare e alcuni beni, quelli che richiedono tecnologie evolute e competenze professionali specializzate, si possono solo comprare.

Non so, e poco importa sapere, se la ripetuta deformazione e banalizzazione della decrescita felice da parte di Latouche dipenda da una lettura superficiale o da un’incomprensione. Quello che conta è dove va a parare: alla critica del fatto che in questa versione «la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete» (prefazione a La décroissance heureuse, 2011); «Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso» (prefazione al libro di Mauro Bonaiuti, La grande transizione, 2013). A parte il fatto che dedurre proposte operative dalle riflessioni teoriche non è un limite ma un merito, anche quando siano incomplete o discutibili, a cosa serve denunciare la gravità dei problemi ambientali, economici e sociali causati dalla crescita senza porsi il problema di come bloccarla? Senza

impegnarsi a formulare proposte concrete che vanno dal sovvertimento dei valori su cui ha uniformato gli stili di vita delle popolazioni nei paesi industrializzati, al superamento dell’antropocentrismo e di una concezione della tecnologia come strumento di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, alla definizione di un paradigma culturale alternativo, all’elaborazione di proposte di politica economica finalizzate ad avviare una decrescita che non sia austerità e pauperismo, ma consenta di realizzare condizioni di vita più soddisfacenti proprio perché si propone di ridurre gli sprechi e non i beni, di rivalutare capacità mortificate e di ripristinare relazioni umane solidali?

Poiché la crescita consiste in una progressiva estensione della mercificazione a un numero sempre maggiore di aspetti della vita di un numero sempre maggiore di esseri umani, le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci hanno bisogno che si perda la percezione della differenza tra il concetto di bene e il concetto di merce, affinché il maggior numero delle persone ritenga che tutto ciò di cui ha bisogno si possa solamente comprare e che il benessere si misuri con la crescita della quantità di cose che si possono comprare. Nella lingua inglese la differenza tra i due concetti è ormai sparita. Sui dizionari la parola merce è tradotta con la parola goods, che significa beni. Di conseguenza uno dei pilastri su cui non si può non fondare la rivoluzione culturale della decrescita è proprio il ripristino della differenza tra il concetto di merce e il concetto di bene. Solo se non si fonda su questa pietra angolare si può pensare che possa essere ridotta a uno slogan, a una «parola bomba», buona per titillare la vanità di quegli intellettuali di sinistra che si piccano di essere anticonformisti e di non farsi intortare dall’ideologia del potere, ma inutile per sterzare il volante e cambiare la direzione di marcia di una macchina che si sta dirigendo a tutta velocità verso il precipizio.

Maurizio Pallante

[1]          Aristotele scrive nella Metafisica, libro V (1017b 25 – 1018b 10): «Opposti si dicono i contraddittori, i contrari, i relativi, privazione e possesso, gli estremi da cui si generano e si dissolvono le cose. Opposti si dicono anche quegli attributi che non possono trovarsi insieme nello stesso soggetto, che pure li può accogliere separatamente […]. Il grigio e il bianco, infatti, non si trovano insieme nello stesso oggetto, perciò gli elementi da cui derivano sono opposti.

Contrari si dicono quegli attributi differenti per genere che non possono essere presenti insieme nel medesimo oggetto, quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito del medesimo genere, quegli attributi che maggiormente differiscono nell’ambito dello stesso soggetto che li accoglie…

Diverse secondo la specie si dicono quelle cose che pur appartenendo allo stesso genere, non sono subordinate le une alle altre, quelle che pur appartenendo allo stesso genere, hanno una differenza, quelle che hanno una contrarietà nella loro sostanza». Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, pp. 217-221, traduzione di Giovanni Reale.

[2]    Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 15

[3]    Maurizio Pallante, La décroissance hereuse, Nature & Progrès, Namur 2011, Prefazione di Serge Latouche, pag. 16.

[4]    Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 76

[5]    Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2013, Prefazione di Serge Latouche, pp. 13-14. Può essere utile precisare en passant che i concetti di bene e di merce non sono sovrapponibili ai concetti di valore d’uso e di valore di scambio utilizzati da Marx, perché una merce, quando è prodotta da un artigiano per un cliente che gliela chiede in cambio di denaro è un valore d’uso (un bene ottenuto sotto forma di merce). Secondo Marx, il modo di produzione preindustriale può essere sintetizzato dalla formula «merce – denaro – merce». È nel modo di produzione industriale che le merci diventano valori di scambio, prodotti non finalizzati a soddisfare un’esigenza espressa da qualcuno, ma a far crescere attraverso le vendite il valore monetario investito per produrli. Pertanto il modo di produzione industriale può essere sintetizzato con la formula «denaro – merce – denaro», dove la quantità di denaro alla fine del processo deve essere maggiore di quella all’inizio.

[6]    Ivan Illich, Nello specchio del passato, Red edizioni, Como 1992, pp. 122-23

[7]    Ibidem, pagg. 97-98.

 

 

, , , , , ,

La siccità del mediterraneo orientale

Pubblicata sul Journal of Geophysical Research, la ricerca “Spatiotemporal drought variability in the Mediterranean over the last 900 years”, condotta dalla NASA rileva che la recente siccità che ha avuto inizio nel 1998 nella regione levantina del Mediterraneo orientale, che comprende Cipro, Israele, Giordania, Libano, Palestina, Siria e Turchia, è con ogni probabilità la peggiore siccità degli ultimi nove secoli.

Gli scienziati hanno ricostruito la storia della siccità del Mediterraneo, come parte dei lavori in corso per migliorare i modelli computerizzati di simulazione del clima, attraverso lo studio degli anelli degli alberi per stabilire le variazioni intercorse delle precipitazioni: anelli sottili indicano anni di siccità; mentre quelli larghi mostrano l’abbondanza d’acqua.
Oltre a identificare gli anni più aridi, il team di scienziati ha scoperto i modelli nella distribuzione geografica della siccità che forniscono un’ “impronta digitale” per identificare le cause sottese. Nell’insieme, i dati mostrano l’intervallo di variazione naturale dei periodi di siccità nel Mediterraneo, che permetterà agli scienziati di distinguere quelli più intensi determinati dal riscaldamento globale indotto dall’uomo.

La rilevanza e l’importanza dei cambiamenti climatici di origine antropica ci impone di comprendere l’intera gamma di variabilità naturale del clima – ha dichiarato Ben Cook, l’autore principale della ricerca e climatologo del Goddard Institute della NASA per gli Studi spaziali e del Lamont Doherty Earth Observatory della Columbia University di New York – Se osserviamo i recenti avvenimenti iniziamo a rilevare le anomalie che si trovano al di fuori di questo intervallo di variabilità naturale, allora possiamo dire con una certa sicurezza a che cosa assomiglia questo particolare evento o questa serie di eventi e quanto è stato il contributo dell’uomo nel determinare i cambiamenti climatici”.

Cook e i suoi colleghi hanno utilizzato i dati sugli anelli degli alberi dell’ “Old World Drought Atlas” per capire meglio la frequenza e la gravità delle siccità verificatesi nel Mediterraneo nel passato. Negli anni compresi tra il 1100 e il 2012, i ricercatori hanno scoperto che le siccità record testimoniate dagli anelli degli alberi corrispondono a quelle descritte nei documenti storici dell’epoca.
Dei dati OWDA gli scienziati si  erano avvalsi anche per spiegare la caduta dell’Impero Khmer e l’abbandono da parte della popolazione della città di Angkor (Cambogia).

La gamma di variabilità di periodi estremamente aridi o piovosi è piuttosto ampia, ma la recente siccità che ha colpito tra il 1998-2012 la regione orientale del Mediterraneo, e tuttora persiste, è di circa il 50% maggiore degli ultimi 500 anni e del 10-20% degli ultimi 900 anni.

mappa mediterraneo

Gennaio 2012. Le tonalità di marrone mostrano le riserve di acqua nella regione del Mediterraneo rispetto allo stoccaggio idrico medio del periodo 2002-2015.
I dati sono desunti dai satelliti GRACE (Gravity Recovery And Climate Experiment), missione congiunta della NASA e l’Agenzia spaziale tedesca) (Fonte: NASA/Goddard Institute).
La copertura di dati su una vasta area ha permesso al team di scienziati non solo di osservare le variazioni nel tempo, ma anche i cambiamenti geografici in tutta la regione.
In altre parole, quando nel Mediterraneo orientale c’è siccità, questa si verifica anche nell’Occidente?
La risposta è sì, nella maggior parte dei casi – ha sottolineato Kevin Anchukaitis, co-autore e scienziato del clima presso l’Università dell’Arizona di Tucson – Questo vale sia per l’attuale società che per le civiltà del passato, ovvero se una regione sta soffrendo le conseguenze della siccità, queste condizioni sono suscettibili di persistere in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è necessariamente possibile fare affidamento sulla ricerca di migliori condizioni climatiche in una regione piuttosto che in un’altra, così da avere la potenziale distruzione su larga scala dei sistemi alimentari, nonché potenziali conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche”.

I ricercatori, inoltre, hanno osservato che quando la parte settentrionale del Mediterraneo (Grecia, Italia, coste di Francia e Spagna) tende ad avere scarsità di precipitazioni, la parte orientale del Nord Africa è piovosa, e viceversa. Queste relazioni est-ovest e nord-sud hanno aiutato il team a capire quali siano le condizioni oceaniche  ed atmosferiche che portano a periodi secchi o umidi.

I due principali modelli di circolazione che influenzano il verificarsi di periodi siccitosi nel Mediterraneo sono la North Atlantic Oscillation (gennaio-aprile) ovvero la differenza di pressione tra l’Anticiclone delle Azzorre e la Depressione d’Islanda, e l’East Atlantic Pattern (aprile-giugno) che segnala le anomalie delle temperature dell’Atlantico orientale. Questi flussi d’aria descrivono come i venti e il tempo tendano a comportarsi a seconda delle condizioni oceaniche. Hanno fasi periodiche che evitano a lungo il formarsi di tempeste nel Mediterraneo e provocano il formarsi di aria più calda, con la conseguenza che l’assenza di piogge e le elevate temperature fanno aumentare l’evaporazione dai terreni e provocano siccità.
Questo studio dimostra che l’andamento di questo recente periodo di siccità della regione orientale del Mediterraneo è del tutto anomalo rispetto agli altri livelli record che si sono registrati nei secoli scorsi, indicando che quest’area risente già gli effetti del riscaldamento del Pianeta indotto dall’uomo – ha commentato Yochanan Kushnir, climatologo presso il Lamont Doherty Earth Observatory, non direttamente coinvolto nella ricerca – La variabilità dei periodi di eccezionale siccità intervenuti negli ultimi 900 anni costituisce un importante contributo che verrà utilizzato per perfezionare i modelli computerizzati per proiettare il rischio di siccità nel XXI secolo”.

La situazione non sembra allarmare troppo i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo Centro-occidentale, che continuano a far finta di niente, come se la questione non li riguardasse, salvo poi voler distinguere chi scappa per le guerre dai rifugiati climatici e disconoscere come la questione mediorientale abbia avuto una escalation anche a seguito della grave siccità che ha colpito quella che, storicamente, è stata la regione della “Mezzaluna fertile”.

In copertina:
Donne al lavoro nei campi del nord-est della Siria colpita da grave siccità che viene considerata una delle concause della grave crisi socio-economica del Paese.

, ,

Depressione post referendum

Pubblico di seguito la riflessione che don Paolo Farinella, di Genova, mi ha gentilmente inviato. Credo ci faccia bene leggerla per metabolizzare il dato del referendum e iniziare una migliore riflessione sui temi trattati e su quelli che da questi possono prendere forma e pensiero.

 

 

Genova 18-04-2016. –

È andata come non poteva non andare, considerati il reato d’istigazione alla
diserzione del boss del governo, l’ammutinamento della tv pubblica e, in parte privata, di quasi tutta la
stampa e le falsità sui posti di lavoro che si sarebbero stati persi. Diversi amici e amiche mi scrivono
dicendomi che sono andati a votare SI e ora sono depressi perché il voto è stato inutile e comunque «non c’è
niente da fare».
Prendo atto che non si sia raggiunto il quorum, ma non sono soggetto a depressione post referendum
perché non conosco né depressione né scoraggiamento, né tanto meno rassegnazione. Anche se tutti i votanti
avessero votato NO e solo io SI, ne sarebbe valsa comunque la pena perché ho votato secondo la mia libera
coscienza in formata, senza essermi venduto ad alcuno, senza avere ricevuto benefit dai petrolieri, senza
avere avuto paura del ducetto Renzi e della sua compagnia di merende. Difendere l’ambiente contro una
chiara forma di inquinamento autorizzato dal governo che lascia circa 40 piattaforme inattive da anni a
marcire per sempre nelle acque del Mediterraneo, ne valeva e ne varrà sempre la pena, anche da solo.
Invito le Amiche e gli Amici a riflettere.
Ci sarebbe stata sconfitta se la battaglia fosse stata combattuta ad armi pari con uso appropriato del
servizio pubblico televisivo e se il governo si fosse astenuto, come sarebbe stato suo dovere in fatto di
referendum. Il capo del partito Pd, ormai fuori controllo democratico, poteva invitare i suoi a votare secondo
coscienza, ma non poteva minacciare nella duplice veste di segretario di un partito (= associazione privata) e
di presidente del consiglio che, aggravante colpevole, ha mobilitato il re emerito Giorgio II che non ha perso
il vizio di volere comandare anche fuori tempo massimo.
Circa 15 milioni di Italiani e Italiane sono andati alle urne, di cui l’85,8% ha votato SI. Di questo
risultato devono cominciare ad avere paura Renzi e i suoi accoliti, perché se si fosse svolto un referendum
con tutti i crismi della democrazia, avrebbero stravinto i SI. Se sconfitta c’è stata, questa è di pertinenza del
governo e dei suoi alleati perché hanno vinto in modo scorretto, diffondendo dati non veritieri e barando
nella dinamica democratica. Non temete: tanto va il Renzi al lardo che ci lascia lo zampino.
Non so se avete notato che la stessa sera di domenica nella conferenza stampa per commentare il
risultato, la paura gli si leggeva in volto. Era una maschera tragica e ogni parola era nervosa e ballerina,
nonostante gli sforzi per nasconderla. Intanto la stessa conferenza stampa: perché indirla? Non era
assolutamente necessaria, visti i risultati.

Il narciso di Rignano doveva farla perché ne aveva bisogno lui per
illudersi di avere vinto e per mandare messaggi trasversali di stampo malavitoso a chi, nel suo partito, ha
dissentito come Emiliano, presidente della Regione Puglia, dall’imperatore del nulla.
Con la faccia da falsario, ha detto che non ha vinto il governo, ma hanno vinto gli operai: lui che ha
calpestato ogni garanzia sul lavoro, che ha abolito l’articolo 18 che nessuna Confindustria gli aveva mai
chiesto di abolire perché non è mai stato un ostacolo agli investimenti esteri; lui che ha precarizzato gli
operai come dimostra il calo verticale delle assunzioni e l’aumento dei licenziamenti, finiti gl’incentivi alle
imprese.
Qualcuno, più gigione di altri, aggiunge che «abbiamo buttato all’aria 300 milioni», senza nemmeno
scomodarsi a pensare che se, come sarebbe stato suo dovere, Renzi avesse accorpato il referendum alle
regionali, si sarebbero non solo risparmiati più soldi, ma si sarebbe giocato più pulito e il quorum sarebbe
stato raggiunto. La perdita dei 300 milioni è da addebitare a lui e solo a lui e dovrebbero sborsarla tutti i
membri del governo, cui bisogna aggiungere il silente e silenziato presidente della Repubblica che avrebbe
dovuto imporre l’accorpamento e non subire l’offuscamento della democrazia con l’umiliazione del
referendum.
Speriamo che le denunce dei radicali e di altri contro il presidente del consiglio dei ministri,
«pubblico ufficiale … [il quale] abusando delle proprie attribuzioni … si adopera … a indurre
all’astensione» (D.P.R. 361 del 30 marzo 1957) vada avanti fino in fondo e spero che Renzi venga
condannato al massimo previsto dalla Legge: tre anni di reclusione con in più il pagamento della multa e
delle spese processuali.
Qualcuno conclude che «ormai votiamo per le cause perse». In democrazia non è sufficiente vincere
a qualsiasi costo, ma è molto più importante decidere e agire con senso di legalità, in coerenza di Diritto,
fedeltà alla Costituzione e secondo la propria coscienza informata. No! Non abbiamo perso una causa,
abbiamo vissuto un momento altissimo di vita civile e senso democratico. Vi pare poco in questi tempi di
«accorciamento» dei diritti e della democrazia? Io sono orgoglioso di avere votato SI. Nonostante Renzi. Chi
non ha votato per qualsiasi ragione perde il diritto di lamentarsi e di protestare contro le ingiustizie del potere
perché ne sono complici e fautori. La «servitù volontaria» o l’ignavia non sono mai obbligatorie.

Paolo Farinella

, ,

Né Tatcher (o Merkel) né Keynes. Può la decrescita indicarci la strada per superare la crisi economica?

La crisi che ha colpito i paesi industrializzati nel 2008, e non è ancora in via di risoluzione nonostante l’impegno profuso dai governi nazionali e dalle istituzioni sovranazionali, sta dimostrando l’inefficacia delle misure politiche tradizionalmente utilizzate per far ripartire la crescita economica nelle fasi di recessione.

 

Non saranno certo le riflessioni fatte dal nostro movimento per la decrescita felice a indicare la via d’uscita da una situazione che fino ad ora non è stata sbloccata dalle proposte di centri di ricerca e da soggetti politici molto più competenti e potenti di noi. Tuttavia, se le caratteristiche di questa crisi sono così inusuali da sfuggire alle terapie consolidate, un punto di vista ec-centrico come il nostro potrebbe aprire prospettive che non sono state prese in considerazione, ma potrebbero avere potenzialità insospettate.

 

Innanzitutto una precisazione che non dovrebbe essere necessario ripetere per l’ennesima volta, ma visto il permanere di fraintendimenti, più o meno voluti, è utile ribadire: la decrescita non è la recessione.

 

La recessione è una fase economica caratterizzata  dalla diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. La sua conseguenza più grave è la disoccupazione, che comporta una diminuzione della domanda e un aggravamento della crisi.

 

La decrescita è la diminuzione selettiva e guidata della produzione di merci che non hanno oggettivamente nessuna utilità, ovvero degli sprechi.

 

Non si confondano gli sprechi con i beni che qualcuno potrebbe considerare superflui, perché la valutazione del superfluo attiene ai gusti e alle scelte individuali, su cui nessuno è autorizzato a intervenire. Gli sprechi sono, per fare qualche esempio, il cibo che si butta – circa un terzo di quello che si produce -; l’energia termica che si disperde da edifici mal coibentati – in Italia mediamente i due terzi in confronto con gli edifici meno efficienti dell’Alto Adige, i nove decimi rispetto agli edifici più efficienti -; i materiali riutilizzabili contenuti negli oggetti dismessi, che vengono resi definitivamente inutilizzabili sotterrandoli o bruciandoli. Gli sprechi di cibo, di energia e di materiali non rispondono a nessun bisogno o desiderio. Non rientrano nell’ambito del superfluo. Rientrano nell’ambito del dannoso, perché ogni spreco non è soltanto una dissipazione inutile, ma un danno agli ambienti e alla vita. L’energia che si spreca aumenta le emissioni di anidride carbonica, e quindi aggrava l’effetto serra, senza apportare alcun beneficio. Il cibo che si butta accresce la frazione putrescibile dei rifiuti, quella più difficile da trattare. I materiali che si sotterrano inquinano le falde idriche e i suoli, quelli che si bruciano aumentano le emissioni di anidride carbonica, di sostanze inquinanti – in particolare la diossina – e di particelle ultra fini.

 

Una decrescita selettiva degli sprechi non è soltanto utile a livello ambientale, ma contribuisce a ridurre anche le tensioni internazionali per il controllo delle aree geografiche dove si trovano i giacimenti di energia fossile e di materie prime. Inoltre, dal punto di vista economico comporta una riduzione dei costi di produzione delle aziende (un ciclo produttivo con una minore intensità energetica è meno costoso) e delle importazioni, quindi offre un vantaggio competitivo; richiede l’adozione di innovazioni tecnologiche più avanzate, quindi stimola la ricerca; crea un’occupazione con una connotazione qualitativa: un’occupazione utile, perché a parità di produzione di benessere riduce il prelievo di materie prime, tra cui le fonti fossili, e le emissioni di sostanze di scarto nella biosfera.

 

A questo punto occorre una precisazione. La decrescita selettiva degli sprechi non ha nulla a che fare con l’ossimoro dello sviluppo sostenibile. Con la definizione di sviluppo sostenibile si indica un processo di crescita economica caratterizzato dall’uso di tecnologie più efficienti e meno impattanti sugli ambienti. Per esempio l’uso di energie rinnovabili al posto delle energie fossili. Ma di fronte a un sistema energetico, come quello italiano, che spreca il 70 per cento dell’energia che produce e usa, ha senso proporsi di accrescere l’offerta di energia diversificandola per renderla più amichevole nei confronti degli ambienti, invece di proporsi in prima istanza di ridurre gli sprechi e, successivamente, di soddisfare il fabbisogno residuo con fonti rinnovabili? Un sistema energetico dissipativo come quello della maggior parte dei paesi industrializzati è paragonabile a un secchio bucato. Dovendo riempire d’acqua un secchio bucato, chi si proporrebbe di farlo cambiando la fonte senza chiudere prima i suoi buchi?

 

La crisi che stiamo vivendo è una crisi di sovrapproduzione, determinata dal fatto che nei sistemi economici in cui le attività produttive sono finalizzate alla crescita della produzione di merci, le aziende per sostenere la concorrenza devono investire continuamente in tecnologie che aumentano la produttività, ovvero che consentono di produrre di più in una unità di tempo, riducendo al contempo i costi mediante una riduzione dell’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Ciò non comporta automaticamente, come per lo più si pensa, una riduzione dell’occupazione. La comporta solo se la riduzione dell’incidenza lavoro umano sul valore aggiunto non viene tradotta in una riduzione dell’orario di lavoro. In questo caso, ed è ciò che sta succedendo nei paesi industrializzati, si determina una riduzione dell’occupazione e, di conseguenza, una riduzione della domanda a fronte di un incremento dell’offerta di merci. Questa è la causa di fondo della crisi che stiamo attraversando.

 

A questo squilibrio insito nelle economie della crescita si è fatto fronte incentivando il ricorso al debito da parte dei privati e ricorrendo al debito pubblico per aumentare la domanda. Questo fenomeno, iniziato nei primi anni sessanta, è stato l’altra faccia della medaglia del boom economico. A partire dagli anni ottanta è stato accentuato dalla globalizzazione, che è stata perseguita dai paesi industrializzati per ampliare il mercato dei loro prodotti, ma li ha sottoposti alla concorrenza di paesi dove il costo della manodopera è molto più basso. Questa concorrenza ha spinto in basso i salari nei paesi industrializzati: «tra il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento» (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015, p. 110). La riduzione dell’occupazione determinata dalle delocalizzazioni di molte produzioni nei paesi cosiddetti in via di sviluppo e la riduzione dei salari hanno comportato una riduzione della domanda che è stata uno dei fattori scatenanti della crisi e comporta difficoltà sempre maggiori a superarla.

 

L’entità dei debiti pubblici è stata aggravata dal fatto che, man mano che aumentano, gli Stati sono costretti a offrire tassi d’interesse sempre più alti a chi sottoscrive i buoni del tesoro, fino a dover chiedere prestiti per pagare gli interessi sui prestiti precedentemente chiesti. In Italia questo processo ha ricevuto un forte impulso all’inizio degli anni 80 dalla decisione dell’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e del governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi di vietare alla Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti, per evitare il rischio d’inflazione. Il risultato fu un forte innalzamento degli interessi sui titoli. In dieci anni il debito pubblico raddoppiò, salendo dal 60 per cento del Pil nel 1982 al 120 per cento nel 1993. (L. Gallino, op. cit., pagg. 66-67). Da trent’anni gli interessi ammontano a 90 – 100 miliardi all’anno su un totale di 2.135 miliardi nel 2014, mentre nello stesso anno il valore del Pil è stato di 1.613 miliardi. (L. Gallino, op. cit., pagg. 100–101).

 

Le due proposte formulate per superare la crisi sono state, da una parte le politiche di austerity finalizzate a ridurre i debiti pubblici riducendo sostanzialmente la spesa sociale, dall’altra le politiche keynesiane finalizzate ad aumentare la domanda attraverso i debiti pubblici in modo da rilanciare la crescita del prodotto interno lordo e di ridurre il rapporto debito/PIL. Le politiche di austerity deprimono la domanda e aggravano la crisi. Il loro totale fallimento è stato dimostrato dai fatti. Le politiche keynesiane non aumentano soltanto i debiti finanziari, ma i debiti a carico delle generazioni future e i debiti nei confronti della natura, poiché aumentano il prelievo di risorse da trasformare in merci e le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera. Inoltre non tengono conto del fatto che, rispetto agli anni trenta del secolo scorso il rapporto tra tecnosfera e biosfera è completamente cambiato: le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera sono aumentate da 270 a 410 parti per milione, innescando una mutazione climatica di cui si stanno iniziando a sentire i primi effetti destinati ad aggravarsi; nel settore delle fonti energetiche fossili il rapporto tra l’energia investita per ricavare energia e l’energia ricavata è sceso dal valore di 1 a 100 misurato negli anni trenta del novecento, al valore di 1/8 misurato negli anni novanta; l’overshoot day, il giorno in cui l’umanità arriva a consumare tutte le risorse rinnovabili che la biosfera genera in un anno, è sceso alla metà di agosto; negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica vaste come gli Stati Uniti; la popolazione mondiale è passata da 2 a 7 miliardi; la fertilità dei suoli agricoli è diminuita; la fauna ittica è stata dimezzata.

 

In alternativa a queste due prospettive, che finora non sono state in grado di superare né la crisi economica, né la crisi ecologica, il Movimento per la decrescita felice propone che vengano adottate misure di politica economica e industriale finalizzate a incentivare l’adozione di innovazioni tecnologiche che consentano di ridurre gli sprechi e di accrescere l’efficienza con cui si trasformano le risorse naturali in merci. Cioè di realizzare una decrescita selettiva e guidata della produzione e del consumo di merci che non sono beni. Se aumenta l’efficienza con cui si utilizzano le risorse e si riducono gli sprechi, oltre a ridurre l’impatto ambientale si risparmia del denaro, con cui si possono pagare i costi d’investimento delle tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse. Si mette in moto un circolo economico virtuoso creando un’occupazione utile che paga i suoi costi con i risparmi che consente di ottenere. Fa crescere la domanda senza aggravare né i debiti pubblici, né l’impatto ambientale.

 

Se al centro della politica economica e industriale si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze al livello dei peggiori edifici dell’Alto Adige, i consumi per il riscaldamento si ridurrebbero dei due terzi, scendendo dalla media attuale di 200 kilowattora (all’incirca 20 litri di gasolio, o 20 metri cubi di metano) a 70 kilowattora al metro quadrato all’anno. Poiché gli edifici assorbono per il solo riscaldamento invernale un terzo dei consumi totali di energia alla fonte, quanta ne brucia tutto l’autotrasporto nel corso di un anno, si ridurrebbero del 20 per cento sia le nostre importazioni di fonti fossili, sia le nostre emissioni di anidride carbonica. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.

 

Due suggerimenti operativi in conclusione.

 

Un incentivo all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza sostegni di denaro pubblico, può essere costituito dall’uso delle forme contrattuali che caratterizzano, o meglio, dovrebbero caratterizzare, le energy service companies – esco -: società energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici ristrutturati si impegnano a pagare per il riscaldamento, o per l’illuminazione, la stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione per il numero di anni necessario a coprire con i risparmi economici conseguenti al risparmio energetico i costi d’investimento e gli utili della esco. Al termine di questo periodo, che viene indicato dalla esco al momento della stipula del contratto, i risparmi economici vanno a beneficio dei proprietari degli edifici o degli impianti. La durata degli anni necessari a recuperare gli investimenti è inversamente proporzionale all’efficienza ottenuta. La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché, essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici inferiore a quella che calcolato, incassa meno denaro di quello previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.

 

Il circolo economico virtuoso descritto può trovare un volano decisivo in una sorta di patrimoniale energetica sugli immobili, che può essere gestita in due modi. Il proprietario dell’immobile, paga la patrimoniale e lo Stato la utilizza per ristrutturarlo energeticamente, restituendo ogni anno al proprietario l’equivalente del risparmio economico conseguente al risparmio energetico ottenuto, fino all’estinzione della tassa pagata. Oppure il proprietario dell’immobile, invece di pagare la patrimoniale, fa eseguire in proprio la ristrutturazione energetica e incassa direttamente i risparmi.

 

Interventi analoghi si possono effettuare smettendo di rendere definitivamente inutilizzabili le materie prime secondarie contenute negli oggetti che vengono portati allo smaltimento, invece di recuperarle attraverso una raccolta differenziata gestita con criteri economici. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso degli oggetti conferiti in discarica o all’incenerimento, meno se ne portano e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime secondarie occorre venderle. Più se ne vendono e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri la selezione deve essere effettuata accuratamente. Il recupero e la vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi consente di creare un’occupazione utile, di recuperare il denaro necessario a pagarne i costi e di ridurre l’impatto ambientale dei rifiuti. Le ragioni dell’economia e le ragioni dell’ecologia vanno di pari passo grazie alla riduzione di uno spreco inammissibile.

 

La decrescita selettiva degli sprechi è l’unica via d’uscita da una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane inaccettabili. L’assurdità della situazione che stiamo vivendo è dimostrata dal fatto che, mentre il numero dei disoccupati ha raggiunto livelli inaccettabili, non si fanno una serie di lavori che sarebbe indispensabile fare per ridurre la crisi economica, ridurre la crisi ambientale e migliorare la qualità della vita. Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e contemporaneamente non fa fare i lavori più necessari, che pagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del prodotto interno lordo. Prima ce ne libereremo e meglio sarà.

 

 

23 gennaio 2016