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Né austerità, né debiti pubblici.

Promuovere lo sviluppo di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse e ammortizzano gli investimenti con i risparmi economici che consentono di ottenere. Senza contributi di denaro pubblico.

 

Crescita e occupazione.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, le industrie non possono non investire sistematicamente in innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo. Altrimenti la produzione non crescerebbe e non si raggiungerebbero le finalità poste all’economia. Le tecnologie che aumentano la produttività aumentano l’apporto delle macchine e riducono l’apporto del lavoro umano al valore aggiunto. Di qui è nata la convinzione che le innovazioni tecnologiche riducano i posti di lavoro. Uno dei primi a sostenere questa tesi è stato John Maynard Keynes, che in un suo breve saggio del 1931, intitolato Possibilità economiche per i nostri nipoti, ha scritto: «Noi abbiamo contratto un morbo di cui forse il lettore non conosce ancora il nome, ma del quale sentirà molto parlare negli anni a venire – la disoccupazione tecnologica. Scopriamo sempre nuovi sistemi per risparmiare forza lavoro, e li scopriamo troppo in fretta per riuscire a ricollocare quella forza lavoro altrove».[1]

In realtà l’illustre economista confondeva due fenomeni, uno di carattere tecnico e uno di carattere politico, perché la riduzione dell’apporto del lavoro umano al valore aggiunto causata dallo sviluppo tecnologico può essere gestita in due maniere. Se si decide di mantenere intatta la durata dell’orario giornaliero di lavoro si riduce l’occupazione, ma se si decide di ridurre la durata dell’orario giornaliero di lavoro si può mantenere intatta l’occupazione. Queste decisioni rispondono a valutazioni di carattere politico. La concorrenza ha imposto l’adozione della prima scelta, per cui le innovazioni dei processi produttivi hanno comportato riduzioni dell’occupazione. In controtendenza con questo processo agiscono le innovazioni tecnologiche di prodotto, ovvero l’immissione sui mercati di modelli innovativi dei prodotti in uso, o di prodotti innovativi – si pensi alla telefonia mobile – che mantengono alta la propensione al consumo e offrono nuove possibilità di occupazione. Ma, come ha scritto Keynes, le innovazioni tecnologiche di processo si sono susseguite troppo velocemente, anche nei settori produttivi innovativi, per consentire alle innovazioni tecnologiche di prodotto di assorbire tutta la forza lavoro che espellevano. La riduzione del numero degli occupati fa diminuire il numero delle persone con un reddito in grado di acquistare merci. Pertanto, se le innovazioni tecnologiche di processo non vengono accompagnate da riduzioni dell’orario di lavoro, accrescono l’offerta e contribuiscono a ridurre la domanda. Per evitare che questo squilibrio venga compensato da una riduzione della produzione che innescherebbe una crisi  – la riduzione della produzione comporta una diminuzione dell’occupazione che a sua volta determina una riduzione della domanda, per cui occorre ridurre ulteriormente la produzione – la domanda viene sostenuta politicamente aumentando i debiti pubblici e incentivando i debiti privati con opportune agevolazioni fiscali e monetarie. La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci implica la crescita dell’indebitamento.

 

Crescita e debito.

 

Nel breve periodo l’indebitamento può essere una scelta risolutiva, sia per i bilanci pubblici, sia per i bilanci privati. Il finanziamento in deficit di opere pubbliche o di servizi sociali fa crescere la produzione e l’occupazione, per cui aumenta il gettito fiscale e gli enti pubblici possono ripagare i debiti che hanno contratto. La crescita della produzione conseguente all’adozione di tecnologie più performanti acquistate a debito, fa aumentare la produzione, le vendite e i profitti, per cui le aziende possono ripagare i debiti sottoscritti per acquistarle. La crescita della spesa pubblica e degli investimenti produttivi fanno crescere l’occupazione, per cui le famiglie possono saldare i mutui e i crediti al consumo. Ma può succedere che i debiti non possano essere pagati: dalle pubbliche amministrazioni perché i profitti derivanti dall’incremento della produzione non sono sufficienti ad accrescere il gettito fiscale in misura tale da compensare le spese in deficit; dalle aziende perché l’aumento dell’offerta di merci non è assorbito da un’adeguata crescita della domanda, per cui i profitti non consentono di ammortizzare le spese d’investimento; dalle famiglie se s’indebitano più di quanto lo consenta l’aumento dei loro redditi.

 

Quando si verificano delle insolvenze, se i creditori sono d’accordo, i debiti possono essere rateizzati con un aumento degli interessi. In questo caso occorrono quote maggiori del gettito fiscale, dei profitti delle aziende e dei redditi familiari per pagare le nuove rate più onerose, per cui diminuisce la domanda. Se invece i debitori non sono in grado di pagare i creditori nemmeno ristrutturando i debiti, le aziende falliscono e alle famiglie vengono pignorati i beni acquistati a credito, mentre lo Stato può risolvere il problema aumentando la richiesta di prestiti ai privati con l’emissione di Buoni del Tesoro, a tassi d’interesse tanto più alti quanto più alto è il livello raggiunto dal debito pubblico e il rischio che i sottoscrittori non possano essere rimborsati.

Di conseguenza il debito aumenta e, poiché aumenta anche il peso degli interessi, si può raggiungere la soglia oltre la quale l’avanzo primario di un bilancio statale – ovvero il saldo positivo tra le entrate e le spese – non è sufficiente a pagare le rate del debito pubblico, per cui per coprire la differenza occorre ridurre le spese o aumentare le tasse, con un effetto depressivo sulla domanda aggregata. Poiché, generalmente, i governi su cui si scarica l’onere di affrontare questi problemi non sono quelli che li hanno creati, i governi che deliberano le spese in deficit usufruiscono del consenso sociale che ne deriva, mentre i governi successivi ne pagano le rate gravate dagli interessi e ne subiscono le conseguenze negative senza esserne stati responsabili. In termini generazionali, le generazioni presenti non pagano tutti i costi di scelte di cui beneficiano, lasciandone una parte da pagare alle generazioni future, che non ne ricevono alcun vantaggio.

A questa iniquità sociale, si aggiunge un aumento dell’impronta ecologica della specie umana sulla biosfera, perché in conseguenza delle spese in deficit aumenta la domanda di merci, aumenta il fabbisogno di risorse naturali da trasformare in merci e da utilizzare nei processi produttivi, aumentano i rifiuti e le sostanze di scarto emesse dai cicli produttivi in qualche matrice della biosfera. E aumentano le diseguaglianze tra i popoli, perché un incremento dei consumi di risorse da parte dei Paesi industrializzati riduce le quantità di risorse disponibili per i Paesi in cui è ancora significativa l’economia di sussistenza. Chi si propone di promuovere una maggiore equità sociale e una maggiore compatibilità ambientale non può non impegnarsi contro l’aumento dei debiti pubblici e per l’adozione di stili di vita che escludano il ricorso ai debiti per comprare più di quanto non consenta il proprio reddito.

 

I debiti sono l’altra faccia della medaglia della crescita. L’irresponsabilità politica negli anni del boom economico.

 

La settimana Incom 30 novembre 1962: Tutti contenti a Firenze.[2]

La nuova libreria Feltrinelli a Firenze e il deficit dell’amministrazione comunale

Tutti contenti a Firenze. Il boom della cultura non poteva trovare impreparata la città di Dante e i fiorentini tra tanti supermercati hanno ora anche il supermarket della letteratura. Nella nuova libreria Feltrinelli il cliente si serve da sé, come nei grandi magazzini. Il miracolo economico e le riviste di arredamento hanno portato i libri sullo stesso piano dei soprammobili e ne hanno fatto un elemento decorativo. Una macchia di colore per il soggiorno. Molti si lasciano sedurre dall’etichetta e comprano un libro per la sua copertina, come se si trattasse di una scatola di pomidoro pelati. I libri ormai servono a tutto, tranne che ad essere letti. Tra i clienti ce n’è uno particolarmente soddisfatto: il sindaco La Pira. Forse pensa che qualcuno prima o poi dovrà risanare il deficit del Comune e questo pensiero lo diverte. L’assessore alle finanze Mayer ha rivelato che il deficit ammonta a 44 miliardi. La notizia ha suscitato grande scalpore. L’unico tranquillo e imperturbabile è il sindaco.

Intervistatore «Come sta la faccenda dei debiti del Comune?»

La Pira «Debiti? Ma guardi l’unica responsabilità che io ho è di non aver fatto i debiti adeguati per la mia città. Ne vuole una prova? Milano: al primo gennaio 59 sa quanti debiti aveva? 149 miliardi 350 milioni. Ne vuole ancora? Torino, al primo gennaio 62, sa quanti ne aveva? 164 miliardi (negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici, in seguito inutilizzati, e le infrastrutture, subito smantellate, di Italia 61 per celebrare il centenario dell’unità d’Italia ndr.)».

Intervistatore «Allora 44 miliardi…».

La Pira «Aspetta, aspè… aspè… Roma, al primo 62, sa quanti ne aveva? 357 miliardi (negli anni precedenti erano stati costruiti gli edifici, le infrastrutture viarie e gli impianti per le Olimpiadi del 1960, ndr.). Napoli. Sa quanto? 203 miliardi. Palermo, sempre al primo, 62 miliardi, e così via.».

Intervistatore «Certo che lei è molto informato sui debiti degli altri.»

La Pira «Ma io, io sono ragioniere, sa?»

Intervistatore «Come si può rimediare?»

La Pira «A che cosa?»

Intervistatore «Ai debiti.»

La Pira «Ai debiti? Come ai debiti? Rimediare a che cosa? Scusi i debiti, non è che noi facciamo debiti per feste da ballo, eh?»

Intervistatore «Allora i debiti, ci sono o non ci sono?»

La Pira «Ci sono. Purtroppo sono pochi. Perché noi ne abbiamo soltanto 39 miliardi».

Intervistatore «Ah, soltanto…».

La Pira «Se fa il confronto con Milano 149, Torino…».

Intervistatore «E allora sono una sciocchezza».

La Pira «Una sciocchezza. Io sono responsabile di una sola cosa. Di non aver fatto per la mia città i debiti che le altre città hanno fatto per il loro incremento».

Intervistatore «Grazie».

La Pira «Sono un imbecille».

Ossia è imbecille chi risparmia (commento del giornalista che, in realtà, avrebbe dovuto dire: è imbecille chi non fa debiti).

 

La crescita progressiva dell’indebitamento pubblico e privato.

 

Il divario tra la crescita dell’offerta e una crescita inferiore della domanda determinato dagli incrementi della produttività senza riduzioni dell’orario di lavoro, è aumentato progressivamente con l’introduzione dell’informatica e della robotica nelle attività produttive. Per cui è aumentata la tendenza dei governi dei Paesi industrializzati a spendere in deficit per far crescere la domanda, è aumentata la necessità delle industrie di accendere mutui per acquistare le innovazioni tecnologiche che si susseguono a ritmo sempre più serrato, è aumentata la propensione delle famiglie ad acquistare a debito, anche in conseguenza degli incentivi offerti dal sistema bancario: carte di credito, mutui facili, rateizzazioni dei pagamenti.

Dal 2000 al 2016 il rapporto tra debito e prodotto interno lordo nei Paesi dell’Unione Europea è salito dal 60,2 all’83,5 per cento. Dal 1995 al 2016, in Italia è salito dal 116 al 132 per cento, in Francia dal 55,8 al 96 per cento, nel Regno Unito dal 45,2 all’89,3 per cento, in Germania dal 54,8 al 68,3 per cento, in Spagna dal 61,7 al 99,4 per cento, in Grecia dal 99 al 179 per cento. Più forti gli aumenti in Giappone, dove ha raggiunto il 228 per cento, e negli Stati Uniti, dove alla fine degli anni settanta si attestava intorno al 30 per cento e nel 2016 aveva raggiunto il 104 per cento del prodotto interno lordo, pari a 20.000 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti altri 3.125 miliardi di debiti contratti da singoli Stati e municipalità. Secondo i dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale alla fine del 2015 il debito globale ha raggiunto il valore di 152.000 miliardi di dollari, pari al 225 per cento del valore monetario della produzione di merci a livello mondiale, che si è attestato a 77.302 miliardi di dollari. Circa i due terzi del debito complessivo, pari a 100 miliardi di dollari, sono costituiti da debiti privati: delle famiglie, per accrescere i loro consumi, e delle aziende, per effettuare investimenti finalizzati ad aumentare la produttività. I dati differenti forniti dall’Institute for International Finance, riportati dal quotidiano della Confindustria, Il Sole 24 ore, oltre a confermare la scarsa attendibilità dei dati su cui si fondano le scelte economiche, sono ancora più impressionanti: a gennaio 2017 il debito mondiale avrebbe raggiunto 215.000 miliardi di dollari, pari al 325 per cento del valore della produzione di merci, di cui 70 – un terzo – accumulato negli ultimi 10 anni.[3]

In Italia il debito pubblico eccede i valori degli altri Paesi europei ed è secondo solo alla Grecia, in conseguenza della decisione, presa nel 1981 dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e dal governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, di vietare alla Banca d’Italia di acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti, per evitare il rischio d’inflazione. Il risultato fu un forte innalzamento degli interessi. In dieci anni il debito pubblico raddoppiò, salendo dal 60 per cento del Pil nel 1982 al 120 per cento nel 1993. Nel 2015 il valore del prodotto interno lordo italiano è stato di 1.645 miliardi di euro, il valore del debito pubblico di 2.173 miliardi di euro, pari al 132,3 per cento del Pil; la somma degli interessi pagati sul debito pubblico è stata di 70 miliardi di euro, pari al 4,3 per cento del Pil (dati della Banca d’Italia).

 

La globalizzazione.

 

Il divario tra l’aumento dell’offerta di merci e un più contenuto aumento della domanda è stato accentuato dalla globalizzazione, ovvero dall’estensione dell’economia di mercato a livello planetario, in particolare alla Cina e all’India, dove vivono 2,6  miliardi di persone – il 37 per cento della popolazione mondiale – alla Russia, al Brasile e al Sud Africa. L’apertura di quei mercati vastissimi era indispensabile per ridare slancio alla crescita economica dei Paesi di più antica industrializzazione – Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone – e ha consentito alle società multinazionali di trasferire i loro impianti in Paesi dove i costi della manodopera e le tutele sindacali sono molto inferiori, gli orari di lavoro più lunghi, le legislazioni ambientali molto più permissive. I costi di produzione più bassi e il più intenso sfruttamento dei lavoratori hanno fatto crescere la produzione e i loro profitti, ma l’occupazione nei Paesi di più antica industrializzazione è diminuita, facendo diminuire la domanda, che è aumentata nei Paesi in cui sono state delocalizzate le aziende, ma non in misura tale da assorbire gli incrementi dell’offerta, a causa dei livelli retributivi più bassi.

L’aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, nei Paesi europei e la concorrenza esercitata dai costi e dalle tutele sindacali inferiori in Cina e in India, hanno ridotto la forza contrattuale dei lavoratori. Di conseguenza le loro retribuzioni sono diminuite costantemente. Il sociologo del lavoro Luciano Gallino ha scritto che «tra il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento», accentuando la diminuzione della domanda e aumentando le differenze tra una minoranza sempre più ricca e una percentuale sempre più ampia di popolazione sempre più povera.[4]

 

La crisi dei mutui subprime.

 

La dinamica costituita da una crescita della produzione di merci che comporta una crescita dell’offerta sistematicamente superiore alla crescita della domanda, creando un divario che si cerca di ridurre aumentando progressivamente l’indebitamento pubblico e privato per sostenere la domanda, prima o poi è destinata a innescare una crisi da sovrapproduzione. Così è avvenuto con i mutui subprime, a febbraio del 2007 negli Stati Uniti. Le banche americane concedevano mutui per l’acquisto di case a clienti che esse stesse avevano classificato nella categoria dei subprime, i meno affidabili, perché erano falliti, o erano stati pignorati, o non pagavano con regolarità bollette e rate di prestiti. Per il fatto di essere ad alto rischio, i mutui subprime erano gravati da tassi d’interesse superiori a quelli di mercato. Con quei finanziamenti le banche contribuivano a tenere alti i prezzi e la domanda nel settore dell’edilizia, evitando che entrasse in crisi. A metà degli anni novanta il 25 per cento dei mutui fondiari erano subprime.

Quando ha iniziato a crescere il numero dei mutui non pagati, le case che le banche pignoravano e mettevano in vendita hanno fatto crescere l’offerta più della domanda, per cui i prezzi del settore edile sono crollati. Sapendo che questo sarebbe stato l’esito inevitabile della vicenda, gli istituti di credito si erano tutelati trasformando i loro crediti nei confronti dei clienti subprime in obbligazioni subordinate, che avevano rendimenti molto elevati proprio perché quei mutui erano stati concessi a tassi d’interesse superiori a quelli di mercato, ma erano molto rischiose perché garantite – si fa per dire – dai mutui stessi e non dall’istituto di credito. Questi titoli d’investimento, che vengono definiti derivati, non pagano l’interesse se le rate del mutuo non vengono pagate e, in caso d’insolvenza, non possono essere ceduti. La conseguenza è la perdita dei capitali investiti dai risparmiatori che li hanno acquistati convinti di vederli fruttare senza fare nulla, come Pinocchio nel Campo dei Miracoli.[5]

Secondo il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, la crisi scoppiata nei primi mesi del 2007 e culminata a settembre del 2008 con la bancarotta di una delle principali banche del Paese, la Lehman Brothers, è costata quasi 9 milioni di posti di lavoro e poco meno di 19.200 miliardi alle famiglie. La crisi dell’edilizia che ne è seguita si è propagata rapidamente a tutti gli altri comparti produttivi, provocando una recessione più grave, più estesa e più duratura di quella del 1929. Per fronteggiarla ed evitare il crollo del sistema creditizio, che avrebbe avuto pesantissime ripercussioni sulle attività economiche e produttive, gli Stati hanno sostenuto le banche con enormi contributi di denaro pubblico. Negli Stati Uniti, in seguito al fallimento della Lehman Brothers il presidente Barak Obama ha fatto ricorso a un prolungato quantitative easing, che ha fatto crescere il debito pubblico di 9.300 miliardi di dollari e il rapporto tra debito e prodotto interno lordo dal 65 per cento a più del 100 per cento. Una conferma del fatto che la finalizzazione dell’economia alla crescita richiede un incremento costante dei debiti pubblici.

 

Distinguere l’austerità dal buongoverno.

 

A dieci anni dal suo inizio la crisi economica non è ancora stata superata del tutto, anche se non incide su tutti i Paesi industrializzati con la stessa intensità. I modi di affrontarla sono stati due, opposti nelle scelte, ma accomunati dalla stessa finalità di far ripartire la crescita: l’austerità e l’incremento della spesa pubblica in deficit. L’austerità è stata scelta dalla destra e si fonda sull’assunto che per far ripartire la crescita occorre prima di tutto ridurre i debiti pubblici, tagliando le spese e/o aumentando le entrate, in modo da ridurre l’entità degli interessi da pagare e recuperare denaro per gli investimenti. In linea di principio non si capisce per quale ragione una scelta di questo genere debba rientrare nella categoria concettuale dell’austerità, mentre sembra più attinente a quella del buongoverno. Eliminare dall’agenda politica la realizzazione di grandi opere pubbliche che le aziende private, sulla base di accurati studi di mercato eviterebbero di fare, non è una rinuncia, ma una scelta ispirata a criteri di saggezza.[6] Risponde a criteri di saggezza anche la riduzione delle spese militari, che invece non viene nemmeno presa in considerazione. Basta pensare che solo il costo del casco del pilota di un aereo da combattimento F35 costa 2 milioni di dollari, quanto occorre per ristrutturare energeticamente due grandi edifici scolastici, riducendo del 70 per cento i loro consumi di combustibili fossili, la spesa di denaro pubblico necessaria a pagarli e le emissioni di anidride carbonica. Sempre nella categoria del buongoverno rientra la riduzione degli sprechi che si può ottenere utilizzando tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse, mentre la riduzione degli enormi privilegi retributivi di alcune categorie sociali ha anche le connotazioni dell’equità sociale. Queste scelte non rendono austera la vita a nessuno.

Si può definire correttamente austerità la scelta di ridurre il debito pubblico solo se le spese pubbliche che vengono ridotte comportano peggioramenti nelle condizioni di vita di categorie sociali che già hanno poco. Sostanzialmente, se si tagliano le spese dello Stato per i servizi sociali, se ne aumentano i costi per gli utenti riducendo al contempo le prestazioni, si privatizzano i servizi pubblici. A maggior ragione se questa austerità mirata va a colpire famiglie in cui vivono persone che non trovano lavoro, o lo hanno perso a causa della globalizzazione, o fanno lavori precari, dequalificati e poco pagati.

In Italia questo compito è stato affidato a Mario Monti, un economista accademico inserito con ruoli di alta responsabilità nelle istituzioni finanziarie internazionali e nelle strutture associative imprenditoriali, più volte commissario europeo, nominato il 9 novembre 2011 senatore a vita dal Presidente della Repubblica e incaricato il 13 di formare un governo tecnico che il 16 novembre aveva già prestato giuramento. Impossibile non pensare che non fosse un disegno preordinato. E dal momento che non ebbe una gestazione istituzionale, è facile immaginare dove l’abbia avuta.[7]

Presentato dai mass media come colui che avrebbe salvato il Paese dalla gravissima crisi economica e finanziaria che lo attanagliava, il 4 dicembre Mario Monti predispose in un decreto, denominato in coerenza con la sua fama, «Salva Italia», una manovra finanziaria anticrisi che prevedeva un aumento delle tasse, una riduzione delle spese statali per i servizi pubblici, una forte riduzione della spesa pensionistica. Nel decreto venne reintrodotta la tassa sulla prima casa, con un’aliquota più alta di quella precedente e con un aumento delle rendite catastali. Fu aumentata la tassa rifiuti confermandone la parametrazione sulla superficie delle abitazioni, per cui in realtà si configurava come un’integrazione della tassa sulla casa. Venne aumentata l’IVA ed eliminata la riduzione dell’aliquota sui generi alimentari. Furono ridotti i trasferimenti dallo Stato agli Enti locali, che erano autorizzati a introdurre delle addizionali ad alcune tasse statali per compensare la diminuzione dei loro introiti.[8]

La misura che scaricò più pesantemente sulle classi popolari il costo della riduzione del debito pubblico fu la riforma delle pensioni. Dall’anno successivo sarebbe stata innalzata progressivamente l’età pensionabile, fino a raggiungere i 67 anni entro il 2022, e riparametrata al ribasso l’entità delle pensioni col passaggio dal sistema retributivo al sistema contributivo.[9] A 5,5 milioni di titolari di pensioni superiori a 920 euro mensili venne bloccata l’indicizzazione al costo della vita. Nessuna limitazione fu invece applicata alle pensioni privilegiate di parlamentari, consiglieri regionali, dirigenti statali e delle aziende partecipate dallo Stato. Dalle misure finalizzate a risanare il bilancio pubblico furono escluse le imprese, cui venne ridotto il carico fiscale diminuendo le tasse sul costo del lavoro e l’imposta regionale sulle attività produttive. E vennero escluse le grandi opere, per le quali il governo s’impegnava a trovare 40 miliardi di euro tra risorse pubbliche e private. Appena le misure di risanamento del bilancio statale a spese delle classi sociali subordinate furono applicate, le destre tolsero il loro appoggio al governo e il Presidente della Repubblica sciolse anticipatamente le Camere.

Alle elezioni politiche che si svolsero nel febbraio del 2013, la percentuale più alta dei voti – il 25,56 per cento – fu raccolta dal Movimento 5 Stelle, un raggruppamento politico che si presentava per la prima volta, caratterizzandosi come alternativo a tutti i partiti esistenti. Il partito fondato dall’ex-presidente del Consiglio per continuare la sua opera di salvezza del Paese, ottenne appena il 9,1 per cento dei voti e cominciò subito a sbriciolarsi. La sua opera di salvezza non portò frutti né in termini di rilancio dell’economia, né in termini di crescita dell’occupazione, che anzi continuò a diminuire, né in termini di riduzione del debito pubblico. In compenso lasciò il retaggio di una diffusa e profonda sofferenza sociale. Nel 2012 il prodotto interno lordo diminuì del 2,4 per cento rispetto al 2011 e nel 2013 di un ulteriore 1 per cento rispetto al 2012. Il tasso di disoccupazione, che nel 2011 era stato dell’8,4 per cento, nel 2012 salì al 10,7 per cento. Tra i giovani (15-24 anni) crebbe di 6,2 punti percentuali, arrivando al 35,3%, con un picco del 49,9% per le giovani donne del Mezzogiorno. Il tasso di occupazione scese di due decimi di punto rispetto all’anno precedente e ai minimi dal 2000, attestandosi al 56,8%. Nel 2013 il tasso di disoccupazione aumentò ulteriormente, raggiungendo il 12,2 per cento. Tra i giovani arrivò al 42,24 per cento. In valori assoluti il numero dei disoccupati fu di circa 3,3 milioni di persone.

Nel Regno Unito il primo ministro conservatore David Cameron nei cinque anni del suo primo incarico, dal 2010 al 2015, tagliò la spesa sociale dal 23 al 21 per cento del prodotto interno lordo, creando uno scontento sociale che pagò nel 2006 con la sconfitta al Referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Un Referendum che aveva promosso egli stesso, convinto di vincerlo e di rafforzare col sostegno del consenso popolare la sua scelta di restare, mentre gli strati sociali penalizzati dalla riduzione delle spese sociali, dalla disoccupazione e dalla precarietà sul lavoro, videro nella scelta di restare una continuità con le scelte di politica economica e sociale che avevano peggiorato le loro condizioni di vita. Il primo ministro subentrato in seguito alle sue dimissioni, Theresa May, esponente dello stesso Partito Conservatore, nel discorso d’insediamento dimostrò di aver capito la lezione impegnandosi a cambiare strada rispetto al suo precedessore: «Il Referendum ha fatto emergere una nazione spaccata in due, in cui vi sono i ricchi e i poveri, gli ignoranti e gli istruiti, gli avvantaggiati e gli svantaggiati dalla globalizzazione […] Chi nasce povero vive in media nove anni di meno, le donne guadagnano meno degli uomini, chi frequenta la scuola pubblica ha meno possibilità di chi studia in una scuola privata. […] Sotto la mia guida il Partito Conservatore si metterà al servizio della gente comune, dell’ordinary working people». Non deve essere stata molto persuasiva se undici mesi dopo, alle elezioni politiche anticipate che aveva voluto nella convinzione di rendere più ampia la maggioranza risicata del suo partito in Parlamento, invece di rafforzarla l’ha persa perdendo 12 seggi, mentre il Partito Laburista, tornato a sinistra sotto la guida di Jeremy Corbin dopo la svolta a destra di Tony Blair, ne ha guadagnati 30 presentando un programma politico contrario all’austerità, che ha fatto presa soprattutto tra i giovani.

 

Le iniquità sociali e l’incompatibilità ambientale dei debiti pubblici.

 

Per superare la crisi, la sinistra non geneticamente modificata ha scelto di seguire la strada indicata da John Maynard Keynes, il più importante economista del novecento, che non era di sinistra, ma un liberale scettico sulle capacità autoregolatrici del mercato nelle fasi in cui il suo normale funzionamento s’inceppa. Nelle società pre-industriali le crisi erano causate dalla scarsità della produzione agricola che poteva verificarsi di tanto in tanto in conseguenza di eventi meteorologici eccezionali. Nelle società industriali sono causate invece dalla sovrabbondanza dell’offerta di merci. Se l’offerta di merci eccede la domanda espressa dal mercato e rimane in parte invenduta, le aziende devono ridurre la produzione e licenziare una parte dei loro dipendenti. I dipendenti licenziati rimangono senza reddito, per cui la domanda diminuisce, le aziende devono ridurre ulteriormente la produzione e licenziare altri dipendenti. Per arrestare questa spirale, Keynes, infrangendo il caposaldo del liberismo, sostenne che gli Stati dovevano aumentare la spesa pubblica indebitandosi. Non sarebbe bastato che spendessero di più aumentando il prelievo fiscale, perché in questo modo sarebbe aumentata la domanda pubblica, ma sarebbe diminuita quella privata. Per far crescere la domanda aggregata occorreva che gli Stati commissionassero opere pubbliche e potenziassero i servizi sociali oltre le capacità di spesa consentite dalle loro entrate. L’aumento della domanda statale in deficit avrebbe rimesso in moto le attività produttive e avrebbe fatto crescere il numero degli occupati, che con i loro redditi avrebbero fatto crescere ulteriormente la domanda, le attività produttive e gli occupati. L’aumento dei profitti e dei redditi avrebbe aumentato il gettito fiscale e gli Stati avrebbero potuto pagare le rate dei prestiti contratti per rimettere in moto l’economia. Perché aspettare la riduzione dei debiti pubblici per recuperare il denaro necessario a effettuare gli investimenti, come sostiene la destra, mentre l’aumento dei debiti pubblici consente non solo di riavviare molto più in fretta il ciclo economico, ma anche di ridurre la sofferenza sociale invece di acuirla, di migliorare le condizioni di vita degli strati sociali più poveri invece di peggiorarle? Anche da un punto di vista economico è più vantaggioso ridurre il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo aumentando il prodotto interno lordo invece di ridurre il debito.

La maggiore equità di questa strategia sostenuta dalla sinistra rispetto a quella dell’austerità sostenuta dalla destra è comunque finalizzata, come quella della destra, a rilanciare la crescita economica e i suoi effetti si limitano alle generazioni attuali dei Paesi sviluppati e di quelli che si stanno sviluppando sul loro modello. Ma se aumenta la produzione di merci grazie alla spinta che il sistema produttivo riceve dai debiti pubblici e privati, aumenta il fabbisogno di risorse e di energia, aumentano le emissioni di anidride carbonica e l’effetto serra, aumentano le sostanze di scarto che si accumulano nella biosfera, aumenta il consumo di concimi di sintesi che riducono la fertilità dei suoli, si accelera la diminuzione della fauna ittica negli oceani. Si aggravano tutti i fattori della crisi ambientale, si lascia alle generazioni future un mondo impoverito di risorse e inquinato, aumentano le sofferenze che la specie umana infligge alle altre specie viventi e che, in conseguenza dei legami che connettono tra loro tutte le forme di vita, ritornano come sofferenze sulla specie umana. Specialmente sui popoli poveri e sulle classi sociali più povere dei popoli ricchi. La ricerca di una maggiore equità limitata alle generazioni attuali della specie umana, a scapito delle generazioni future e delle altre specie viventi finisce paradossalmente con aumentare le iniquità che si propone di ridurre.

Ciò di cui i keynesiani di oggi sembra non si rendano conto è che rispetto agli anni trenta del secolo scorso il rapporto tra tecnosfera e biosfera è completamente cambiato: la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è passata dal valore di 270 parti per milione, in cui si era stabilizzata da 800 mila anni fino all’inizio del secolo scorso, alle 410 parti per milione registrate all’inizio di questo secolo, innescando una mutazione climatica di cui si stanno appena sperimentando le prime conseguenze; l’overshoot day, il giorno in cui l’umanità arriva a consumare tutte le risorse rinnovabili che la biosfera genera in un anno, è sceso al 2 di agosto; negli oceani galleggiano masse di poltiglia di plastica vaste come continenti; i ghiacci dell’Artico si sono ridotti del 38 per cento dal 1979 a oggi, la popolazione mondiale è passata da 2 a 7 miliardi; la fertilità dei suoli agricoli è diminuita; la fauna ittica è stata dimezzata. I margini di espansione dell’economia che c’erano negli anni in cui Keynes ha elaborato la sua teoria non ci sono più. E non ci sono nemmeno i margini per una stabilizzazione nella situazione attuale. Per non andare incontro al collasso, l’umanità deve ridurre la sua impronta ecologica.

 

Per una riconversione economica dell’ecologia.

 

Chi pone come obbiettivi al suo impegno politico la compatibilità ambientale e un’equità sociale estesa alle generazioni future e alle altre specie viventi, non può non valutare positivamente la scelta dell’Unione europea di porre dei limiti ai debiti e ai deficit pubblici degli Stati aderenti, deliberata a  Maastricht nel 1992. Senza entrare in una valutazione di merito sui valori stabiliti, rispettivamente il 60 e il 3 per cento dei prodotti interni lordi, né sulle successive misure adottate per renderli vincolanti, perché richiederebbero una trattazione specialistica che esula da queste riflessioni, la riduzione dei debiti pubblici, che alcuni economisti ritengono controproducente per superare la crisi economica, è indispensabile per contrastare l’aggravamento della crisi ecologica.[10] Può darsi che i valori fissati a Maastricht non siano stati calcolati col dovuto rigore scientifico, può darsi che le procedure d’infrazione per gli Stati che non li rispettano implichino un cedimento di parte della sovranità nazionale, può darsi che l’inserimento in Costituzione del pareggio in bilancio sia inopportuno, ma se gli Stati  spendono ogni anno più di quanto incassano col prelievo fiscale attivano un surplus di domanda che consente al sistema produttivo di continuare a produrre quantità crescenti di merci, per cui tutti i fattori della crisi ecologica continueranno ad aggravarsi: le emissioni di anidride carbonica e le loro concentrazioni in atmosfera continueranno a crescere, il consumo delle risorse rinnovabili continuerà ad eccedere la capacità di rigenerazione annua della biosfera e l’overshoot day ad anticipare progressivamente, la fertilità dei suoli e la biodiversità continueranno a ridursi, le masse di poltiglie di plastica che fluttuano in tutti gli oceani continueranno ad estendersi e le popolazioni ittiche continueranno a diminuire, le quantità di rifiuti e le malattie mortali causate dall’inquinamento continueranno ad aumentare, l’acqua scarseggerà sempre di più, le tensioni internazionali e le guerre per il controllo delle materie prime necessarie alla crescita si accentueranno.

Nell’attuale epoca storica il problema fondamentale che i Paesi industrializzati devono risolvere è l’elaborazione di una politica economica e industriale in grado di conciliare due esigenze apparentemente antitetiche: la riduzione dell’impronta ecologica dell’umanità e l’aumento dell’occupazione in attività utili, non finalizzate alla crescita economica. La strada da percorrere è lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che riducono gli sprechi e aumentano l’efficienza nei processi di trasformazione delle risorse in beni, perché, se si riduce il consumo di risorse per unità di prodotto, non solo si riduce l’impatto ambientale, ma si risparmia del denaro con cui si possono pagare i costi d’investimento di queste tecnologie. Si mette in moto un circolo virtuoso che fa crescere la domanda e l’occupazione senza aggravare i debiti pubblici e i debiti privati delle aziende e delle famiglie. L’occupazione che si crea in questo modo non solo aumenta l’equità tra gli esseri umani viventi, ma riduce l’impatto ambientale delle loro attività e rende il mondo più bello e ospitale anche per le generazioni a venire. Le potenzialità di queste tecnologie sono molto più ampie di quanto generalmente si crede. Per svilupparle appieno occorre uno slancio progettuale di portata non inferiore a quello che ha dato avvio alla prima rivoluzione industriale.

L’impegno principale deve essere rivolto alla riduzione degli sprechi e all’aumento dell’efficienza dei processi di trasformazione energetica, che nei Paesi tecnologicamente avanzati può consentire di ridurre del 70 per cento i consumi di energia alla fonte senza comportare una diminuzione dei servizi finali. Ne deriverebbero: una drastica riduzione delle emissioni di anidride carbonica e dell’effetto serra; una drastica riduzione delle tensioni internazionali e delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili; una drastica riduzione delle spese energetiche dei consumatori finali – famiglie, aziende, pubbliche amministrazioni.[11] E se si spende di meno per avere gli stessi servizi energetici, si può lavorare di meno e dedicare più tempo alle relazioni umane, alla creatività, allo studio disinteressato, alla contemplazione della bellezza.

In Svizzera sono stati realizzati i primi quartieri di abitazioni e servizi in cui le tecniche costruttive e l’efficienza degli impianti consentono di soddisfare i consumi energetici degli abitanti con una potenza continua pro-capite di 2.000 watt, che corrisponde, grosso modo, alla media degli anni sessanta. Attualmente si superano i 5.000 watt, meno della metà della potenza pro-capite negli Stati Uniti, ma ben più della media africana, che è di 500 watt. L’obbiettivo di una società a 2.000 watt, elaborato da alcuni ricercatori del Politecnico di Zurigo, è stato assunto dall’Ufficio federale dell’energia. 2.000 watt corrispondono a un consumo annuo di circa 17.500 kilowattora di elettricità o di 1.700 litri di petrolio. Oggi, la media mondiale è di circa 2.500 watt.

In Italia per riscaldare gli edifici nei mesi invernali si consumano mediamente 200 kilowattora al metro quadrato all’anno (circa 20 litri di gasolio o 20 metri cubi di metano). In Germania non è consentito superare un consumo di 70 chilowattora al metro quadrato all’anno, un terzo della media italiana, ma gli edifici più efficienti, quelli che rientrano nello standard delle «case passive» non devono superare i 15 chilowattora al metro quadrato all’anno e devono essere coibentati in modo così efficiente da non avere bisogno di un impianto di riscaldamento. Se al centro della politica economica e industriale del nostro Paese si ponesse la ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente, con l’obbiettivo di ridurre gli sprechi e le inefficienze al livello dei peggiori edifici tedeschi, i consumi per il riscaldamento si ridurrebbero dei due terzi. Poiché gli edifici assorbono per il solo riscaldamento invernale un terzo dei consumi totali di energia alla fonte, quanta ne brucia tutto l’autotrasporto nel corso di un anno, si ridurrebbero del 20 per cento sia le importazioni di fonti fossili, sia le emissioni di anidride carbonica. I posti di lavoro che si creerebbero attraverso questa decrescita selettiva degli sprechi di energia pagherebbero i loro costi d’investimento con i risparmi che consentono di ottenere.

Un incentivo all’adozione di queste misure in una logica di mercato, senza contributi di denaro pubblico, può essere costituito dall’uso delle forme contrattuali che dovrebbero caratterizzare le energy service companiesesco -: società energetiche che pagano di tasca propria i costi d’investimento degli interventi di ristrutturazione energetica che eseguono negli edifici, o negli impianti pubblici di illuminazione, mentre i proprietari degli edifici e degli impianti ristrutturati si impegnano a pagare per i loro consumi energetici la stessa cifra che pagavano prima della ristrutturazione, per un numero di anni fissato al momento del contratto. Per la durata del contratto le esco incassano i risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici che riescono a ottenere. Al termine del contratto il risparmio economico va a beneficio del cliente. La durata degli anni necessari a recuperare gli investimenti è inversamente proporzionale all’efficienza ottenuta. La ricerca della maggiore efficienza possibile diventa pertanto l’elemento concorrenziale vincente. Inoltre il cliente è tutelato perché, essendo prefissato contrattualmente il tempo di rientro dell’investimento, se la esco ottiene una riduzione dei consumi energetici inferiore a quella che ha calcolato, incassa meno denaro di quello che ha previsto. Fare bene il lavoro e gestire bene l’impianto è nel suo interesse.

Il circolo economico virtuoso descritto può trovare un volano decisivo in una sorta di patrimoniale energetica sugli immobili, che può essere gestita in due modi. O il proprietario dell’immobile paga la patrimoniale e lo Stato la utilizza per ristrutturarlo energeticamente, restituendo ogni anno al proprietario l’equivalente del risparmio economico conseguente al risparmio energetico fino all’estinzione della tassa pagata, oppure il proprietario dell’immobile, invece di pagare la tassa fa eseguire in proprio la ristrutturazione energetica e incassa direttamente i risparmi, fornendo allo Stato la documentazione delle spese sostenute e dei risparmi annuali ottenuti.

Un altro settore strategico dove l’ammortamento degli investimenti necessari a ridurre gli sprechi si può pagare con i risparmi economici che ne conseguono, senza contributi di denaro pubblico, è la gestione dell’acqua potabile. In Italia le reti idriche perdono mediamente il 65 per cento dell’acqua pompata dal sottosuolo e depurata. I cambiamenti climatici in corso sono caratterizzati dall’alternanza di periodi sempre più lunghi di siccità in estate e di piogge torrenziali in autunno. Di conseguenza, nei periodi estivi di siccità le perdite degli acquedotti stanno creando problemi alla fornitura di acqua nelle aree urbane. La sostituzione delle tubazioni delle reti idriche costituisce pertanto una misura indispensabile non solo per ridurre uno spreco di energia e denaro senza senso, ma anche per continuare a fornire un servizio indispensabile per il benessere e l’igiene di decine di milioni di persone. Invece, pur essendo conosciuta da anni la gravità di questo problema, non si è fatto nulla per risolverlo, mentre si è preferito, incomprensibilmente, finanziare opere di utilità quanto meno dubbia e certamente dannose per gli ambienti, che non consentiranno mai di recuperare gli investimenti effettuati per realizzarle: dal treno ad alta velocità in Valdisusa, agli inceneritori, a strade e autostrade su cui transita un numero irrisorio di autoveicoli, ai gasdotti per aumentare la fornitura di energia che si spreca invece di realizzare le opere edili necessarie a ridurre gli sprechi di energia, alle spese per sistemi d’arma che non hanno una funzione difensiva, ma chiaramente offensiva, sebbene la nostra costituzione ripudi le guerre di aggressione, al pretesto ricorrente di manifestazioni sportive internazionali per realizzare grandi opere che non verranno più utilizzate in seguito. Se si pensa alle spese aggiuntive che si sostengono per occupare militarmente la Valle di Susa allo scopo di imporre la realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità non giustificata dalle analisi dei flussi di traffico nei prossimi decenni, anche la persona più razionale non può non pensare a un’influenza di forze oscure che incombono sul futuro dell’umanità.

Le stesse dinamiche si verificano nella gestione degli oggetti dismessi. Il recupero e la riutilizzazione dei materiali che contengono è certamente più conveniente economicamente e meno dannosa ambientalmente delle metodologie che vengono utilizzate per renderli definitivamente inutilizzabili: l’interramento e l’incenerimento. Poiché il costo dello smaltimento è proporzionale al peso degli oggetti conferiti alle discariche o agli inceneritori, meno se ne portano e più si risparmia. Ma, per non portare allo smaltimento le materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi occorre venderle. Più se ne vendono e più si guadagna. Affinché qualcuno le compri occorre effettuarne una raccolta differenziata molto accurata che ne consenta il riciclaggio e il riutilizzo. La vendita delle materie prime secondarie contenute negli oggetti dismessi consente pertanto di creare un’occupazione utile; di pagarne i costi con i risparmi conseguiti nello smaltimento e con i guadagni ottenuti dalla vendita, senza contributi di denaro pubblico; per non parlare della riduzione dell’impatto ambientale dei rifiuti, attraverso la riduzione di uno spreco inammissibile tecnologicamente.

La decrescita selettiva degli sprechi è l’unica via d’uscita da una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime. L’assurdità della situazione che stiamo vivendo è dimostrata dal fatto che, mentre il numero dei disoccupati ha raggiunto livelli inaccettabili, non si fanno una serie di lavori che sarebbe indispensabile fare per ridurre la crisi economica, ridurre la crisi ambientale e migliorare la qualità della vita. Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e contemporaneamente non commissiona i lavori più necessari, che pagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del prodotto interno lordo. Prima ce ne libereremo e meglio sarà.

Maurizio Pallante

 

 

 

[1]    John Maynard Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, Adelphi, Milano 2009, pag. 19 (ed. or. 1931)

[2]          https://www.youtube.com/watch?v=ruTQUwmctqI&index=19&list=PL2jwhVT1STUQymyWo1RAWAJjayj2hWenf

[3]             Vito Lops, La bolla del debito globale. In 10 anni è esploso a 215mila miliardi. Si rischia l’effetto supernova?, Il Sole 24 ore on line, 12 aprile 2017. In questo articolo si cita un intervento di Francis Scotland, director of global macro research di Brandywine Global (Gruppo Legg Mason): «Il debito globale è cresciuto, principalmente sulla scorta degli stimoli anti-ciclici sia automatici che discrezionali, che avevano l’obiettivo di stabilizzare l’economia mondiale dopo la grande crisi finanziaria. Nel mondo sviluppato, le politiche fiscali sono tendenzialmente finalizzate a sostenere i consumi e ridurre la disoccupazione nei momenti di recessione. Così, quando l’economia globale è crollata nel 2009, i deficit di budget si sono gonfiati ed il tasso di crescita del debito pubblico ha avuto un’impennata. In senso letterale, l’economia mondiale per gran parte degli ultimi nove anni si è poggiata sulla finanza pubblica. Non possiamo sapere cosa sarebbe accaduto se il debito non fosse cresciuto, ma probabilmente ha evitato o perlomeno rinviato un’altra grande  depressione».

[4]             Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi Torino 2015, p. 110.

[5]      In questo campo, situato nei pressi della città Acchiappa-citrulli (nel Paese dei Barbagianni), Pinocchio viene invitato dal Gatto e dalla Volpe a piantare i suoi 5 zecchini d’oro perché la miracolosa natura del terreno avrebbe fatto crescere in brevissimo tempo un albero capace di fruttare monete.

[6]             Il 90 per cento dei Grandi progetti che le Regioni italiane hanno presentato alla Commissione Ue nel periodo 2007-2013 chiedendo che fossero finanziati con fondi europei aveva «un’insufficiente analisi costi-benefici». Il 70 per cento scontava «problemi sulla valutazione del mercato interno o nell’impianto progettuale». E il 50 per cento era lacunoso nella valutazione ambientale. È quello che emerge da un focus del neonato Ufficio valutazione impatto (Uvi) del Senato, presieduto da Pietro Grasso, sulla capacità progettuale dell’Italia in termini di qualità. Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2017.

[7]               Il governo Monti ottenne la fiducia al Senato con 281 voti a favore e 25 contrari, alla Camera con 556 voti a favore e 61 contrari: la maggioranza più ampia di tutta la storia repubblicana, in cui confluirono le destre e le sinistre rafforzando i sospetti, già ampiamente diffusi, sulla labilità delle differenze tra i due schieramenti politici. L’unico partito a votare contro fu la Lega Nord, cui in seguito si unì l’Italia dei Valori.

[8]               Da uno studio effettuato da Ugo Arrigo, docente alla Bicocca di Milano, risulta che nel periodo 2009 – 2015 la riduzione dei trasferimenti statali agli EELL, i vincoli posti al loro bilancio e il patto di stabilità hanno ridimensionato di 39 miliardi le loro capacità di spesa, senza diminuire le loro funzioni. Queste manovre hanno dato un contributo del 95 per cento al miglioramento dei conti pubblici. Inevitabilmente gli EELL sono stati costretti a innalzare i tributi di loro competenza e le tariffe dei servizi. Cfr. Carlo Di Foggia, Come si uccidono gli Enti Locali: 5 anni di austerità ed errori, Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2017.

[9]               Col metodo retributivo l’importo della pensione viene calcolato sulla media dei redditi degli ultimi anni di lavoro, i più alti. Col metodo contributivo viene calcolato sui contributi effettivamente versati nel corso della vita lavorativa. Poiché nei primi anni di lavoro le retribuzioni sono più basse, l’importo della pensione è inferiore.

[10]            Per rendere vincolante il rispetto dei limiti stabiliti col Trattato di Maastricht, nel 1997 l’Unione deliberò il Patto di stabilità e crescita, in cui erano previsti alcuni strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che li avessero superati. Veniva inoltre stabilito che ogni Stato inserisse il pareggio di bilancio in «disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale». In Italia questa norma è stata inserita in Costituzione con una modifica dell’articolo 81, approvata nell’aprile del 2012 (governo Monti). Questi impegni sono stati ribaditi nel 2012, dal Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, più conosciuto con la definizione di fiscal compact (letteralmente «patto di bilancio»), in cui è anche stato stabilito l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del PIL, di ridurre ogni anno l’eccedenza di un ventesimo.

[11]             Per approfondire questo tema mi permetto di rimandare a questi libri: Mario Palazzetti e Maurizio Pallante, L’uso razionale dell’energia. Teoria e pratica del negawattora, Bollati Boringhieri, Torino 1997; Maurizio Pallante, Un futuro senza luce?, Editori Riuniti, Roma 2007

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MANIFESTO PER UN PROGETTO POLITICO-CULTURALE FINALIZZATO A CONIUGARE LA COMPATIBILITÀ AMBIENTALE CON UN’EQUITÀ ESTESA ALLE GENERAZIONI FUTURE E A TUTTE LE SPECIE VIVENTI

Molti indizi sempre più preoccupanti inducono a ritenere che si stia avviando drammaticamente alla fine l’epoca storica iniziata nella seconda metà del Settecento con la rivoluzione industriale.

La crisi economica perdura ormai da quasi un decennio senza che si intraveda una via d’uscita. Nei Paesi industrializzati i livelli della disoccupazione continuano ad essere molto alti, soprattutto tra i giovani. La corruzione politica invade tutti i gangli del potere in forme sempre più spregiudicate e sempre più spesso impunite. Tutti i fattori della crisi ambientale continuano ad aggravarsi. In particolare l’aumento della temperatura media della terra, innescato dagli incrementi delle concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, ha già raggiunto 1,2 °C, avvicinandosi al valore di 1,5 °C, indicato dall’accordo internazionale raggiunto a Parigi nel dicembre 2015 al termine della Cop 21, come limite massimo da non superare entro la fine del secolo. Le tensioni internazionali hanno provocato uno stato di guerra permanente in varie regioni del mondo e hanno avvicinato pericolosamente la possibilità di un conflitto nucleare. Gli attentati terroristici si moltiplicano e sfuggono a ogni possibilità di prevenzione. Le migrazioni dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi stanno assumendo le dimensioni di un esodo biblico e sono costantemente contrassegnate da violenze e tragedie.

 

Tutti questi problemi sono causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, sono aggravati dalla sua estensione ad aree sempre più vaste del pianeta attraverso la globalizzazione, non possono essere risolti se non abbandonando la finalità della crescita assegnata all’economia nel modo di produzione industriale.

Il sistema politico non è in grado di affrontarli, perché dovrebbe rimettere in discussione i suoi stessi fondamenti. Può solo acuirli. Non per questo è disposto a cedere il suo potere. Il suo istinto di sopravvivenza lo porta a chiudersi a riccio per evitare di essere rovesciato. Tutti i suoi sforzi sono finalizzati a mantenere le dinamiche politiche all’interno delle due varianti della destra e della sinistra, con cui può essere gestito ed è stato gestito storicamente.

A tal fine tenta, non sempre con successo, di ridurre gli spazi della democrazia, si adopera per generare confusione introducendo elementi politici tradizionalmente di destra nei programmi della sinistra e tradizionalmente di sinistra nei programmi della destra, favorisce la formazione di alleanze tra i due schieramenti tradizionalmente opposti per sbarrare il passo a ipotesi alternative.

 

L’obiettivo strategico da perseguire in questa fase storica non può essere una gestione più equa socialmente – come si propone la componente della sinistra rimasta a sinistra -, meno devastante ecologicamente – come si propongono i movimenti ambientalisti -, non violenta – come si propongono i movimenti pacifisti -, più democratica – come si propongono i difensori delle costituzioni fondate sul reciproco controllo dei poteri, di un sistema economico e politico che, finalizzando l’economia alla crescita della produzione di merci, non può non generare iniquità crescenti, danni ambientali sempre più devastanti, forme di violenza sempre più diffuse, limitazioni alla democrazia.

L’obiettivo da perseguire non può essere la riforma di un sistema irriformabile, ma una profonda rivoluzione culturale e l’apertura di una nuova fase storica, così come è stato preconizzato da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’.

 

La mancanza di un soggetto politico con questa visione, impone di giocare simultaneamente una doppia partita. Da una parte occorre contrastare i tentativi con cui il sistema di potere cerca

  • di mettere fuori gioco le opposizioni riducendo la democrazia;
  • di superare la crisi riavviando la crescita con opere sempre più devastanti ambientalmente e sostanzialmente inefficaci rispetto agli stessi obbiettivi che si propone.

 

Occorre pertanto sostenere le iniziative della società civile in difesa della democrazia, le iniziative delle comunità locali che contrastano le imposizioni di grandi opere con un forte impatto ambientale nei territori in cui vivono, le iniziative delle formazioni politiche che a livello nazionale si oppongono agli indirizzi di politica economica su cui si fondano queste scelte.

Ma le attività di contenimento tendono a diventare pervasive e ad assorbire grandi quantità di energie psico-fisiche, sottraendole all’impegno necessario per definire le caratteristiche di un sistema economico e sociale alternativo, fondato sui due pilastri su cui si può costruire un futuro migliore per l’umanità: la compatibilità ambientale e un’equità estesa alle generazioni future e a tutte le specie viventi. Due pilastri che si sostengono reciprocamente e sono incompatibili con la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci.

Un soggetto politico che si proponga un obbiettivo di questo genere attualmente non esiste, non è prevedibile che si possa costituire in tempi brevi, non avrebbe spazio all’interno delle attuali dinamiche politiche, dove finirebbe per confondersi in mezzo a una pletora già troppo affollata di contendenti sempre meno credibili, ha bisogno di tempo per la costituzione di una rete di gruppi territoriali di riferimento diffusi sul territorio nazionale. La sua formazione richiede la definizione di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, che può scaturire solo da un confronto tra i movimenti e le associazioni in cui le persone che non si riconoscono nel sistema dei partiti fanno politica nel senso più nobile del termine, impegnandosi in attività finalizzate alla tutela dei beni comuni, degli ecosistemi, delle classi sociali e dei popoli più colpiti dalla crisi ecologica e dalla crisi economica, delle culture tradizionali, della biodiversità, dei diritti degli animali. Questo è il secondo compito su cui occorre impegnarsi.

 

In Italia il ruolo di principale antagonista al sistema di potere che governa l’economia e la politica è stato assunto dal Movimento 5 Stelle, che ha raggiunto un consenso elettorale pari a quello degli attuali schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra, non solo per l’attivismo generoso di molti militanti, ma anche per la sempre maggiore indignazione suscitata nell’opinione pubblica dall’operato dei partiti che si sono alternati al governo negli ultimi decenni. Per demeriti altrui oltre che per meriti propri.

Una percentuale importante di questo consenso proviene da una parte degli elettori rimasti fedeli agli ideali di uguaglianza, democrazia e tutela ambientale tradizionalmente sostenuti dalla sinistra, che ha visto nella totale alterità del Movimento 5 Stelle rispetto alle dinamiche politiche del passato una maggiore determinazione nella lotta al sistema di potere che gestisce l’economia e la finanza a livello mondiale.

Non si possono tuttavia ignorare i suoi limiti culturali e progettuali, le sue carenze di analisi, i suoi errori a volte clamorosi, le perplessità che suscitano la sua struttura organizzativa e le sue procedure decisionali. Queste connotazioni impongono di mantenere un’autonomia culturale e politica nei suoi confronti, senza per questo considerarlo un avversario, perché in questa fase le sue attività di contrasto all’attuale gestione del potere costituiscono un argine fondamentale ai processi degenerativi in corso.

 

Il cambiamento di cui c’è bisogno non si può realizzare soltanto a livello politico e istituzionale. Deve fondarsi su una profonda rivoluzione culturale, che determini un mutamento del sistema dei valori e dei modelli di comportamento. Occorre superare l’antropocentrismo, la riduzione degli esseri umani alla dimensione economica, il loro appiattimento sul consumismo, l’identificazione del concetto di nuovo col concetto di migliore. Occorre ridurre la mercificazione e recuperare la solidarietà, rivalutare la manualità, il lavoro artigianale, la produzione di valori d’uso, ripristinare la prevalenza del bello sull’utile. «Non c’è progresso – ha scritto Pier Paolo Pasolini – senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni di vita anteriori dove comunque si era realizzato l’uomo…».

Occorre pertanto rivalutare il concetto di comunità e ripensare e ridefinire il fine e le modalità con cui le persone si relazionano le une con le altre, con l’ambiente che le circonda ed ultimo, ma non meno importante, con se stesse.

Solo un cambiamento di questo genere del paradigma culturale può consentire di avviare una grande stagione di innovazioni tecnologiche, non più finalizzate ad accrescere la produttività, ma l’efficienza nei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni. L’obbiettivo da perseguire è ridurre il consumo di risorse per unità di prodotto e l’impatto ambientale dei processi produttivi e dei prodotti.

Non c’è prospettiva di futuro per l’umanità se i suoi consumi di risorse rinnovabili continuano a eccedere la quantità di energia generata dalla fotosintesi clorofilliana utilizzando l’energia luminosa inviata quotidianamente dal sole sulla terra, se non si riducono le emissioni di anidride carbonica alle quantità metabolizzabili dai cicli biochimici della biosfera, se non si elimina la produzione di sostanze di sintesi non biodegradabili. Una prospettiva di futuro per l’umanità può essere riaperta soltanto se le attività economiche e produttive vengono ricondotte nell’ambito della bioeconomia teorizzata da Nicolas Georgescu Roegen.

 

L’elaborazione di questo paradigma culturale non potrà essere un’operazione puramente teorica, ma dovrà svilupparsi di pari passo con la realizzazione di esperienze concrete, di cui dovrà valutare non solo la validità in termini di riduzione dell’impronta ecologica e di definizione dei rapporti umani basati sull’equità e la solidarietà, ma anche la possibilità di essere riproposte, con i necessari adattamenti, in contesti ambientali e sociali differenti, la capacità di rispondere a bisogni diffusi, il rapporto tra costi e benefici – non solo economici, ma anche ambientali e sociali -, la sostenibilità economica e commerciale, le possibilità occupazionali che offrono.

 

L’obiettivo è dimostrare che l’affermazione «un altro mondo è possibile» non è uno slogan, ma una prospettiva che si può cominciare a costruire già oggi, realizzandone anticipazioni ripetibili, vantaggiose e desiderabili. A tal fine si dovranno concentrare le migliori energie intellettuali e creative nella realizzazione di progetti complessivi con un valore paradigmatico, in cui le abitazioni con lo standard di case passive, le energie rinnovabili, le relazioni umane fondate sulla solidarietà, il recupero della manualità, l’autosufficienza alimentare, l’agricoltura biologica, la riduzione del tempo di lavoro e la valorizzazione della creatività, consentano di raggiungere l’impronta ecologica 1 con un’alta qualità della vita.

 

C’è nei Paesi di più antica industrializzazione una componente sociale significativa interessata a un soggetto politico che non consideri il livello istituzionale come l’ambito principale della sua attività, ma uno dei campi d’applicazione di un impegno prioritariamente di carattere culturale?

Secondo un sondaggio effettuato nel mese di aprile del 2017, in Italia solo il 4 per cento della popolazione ha fiducia nei partiti esistenti, cioè nei soggetti politici che gestiscono a livello istituzionale questo modello economico e produttivo. La sfiducia nei loro confronti induce il 50 per cento degli elettori ad astenersi dal voto. Nelle elezioni amministrative che si sono svolte a maggio del 2016 questa è stata la percentuale di coloro che non sono andati a votare. Ma quattro mesi dopo, a dicembre, la percentuale dei votanti al referendum istituzionale che ha respinto le modifiche finalizzate a ridurre gli spazi di democrazia, è stata del 70 per cento. Se ne può dedurre che il 20 per cento degli elettori italiani si astiene dal voto perché non intende dare il proprio consenso a nessuna delle forze politiche esistenti – nemmeno al Movimento 5 Stelle, sebbene le scelte di questa formazione politica siano totalmente alternative a quelle dei partiti tradizionali che hanno governato il Paese e le amministrazioni locali dal secondo dopoguerra – ma non rinuncia a votare se l’espressione della sua volontà scavalca la mediazione dei partiti e incide direttamente sulla decisione da prendere.

In un’intervista rilasciata a Famiglia Cristiana nell’ottobre del 2016, il sondaggista Nando Pagnoncelli ha affermato che il 34 per cento dei cattolici praticanti, cioè dei fedeli che vanno a messa almeno una volta a settimana, si astiene dal voto perché non si sentono rappresentati da nessuna delle forze politiche esistenti. In Italia i cattolici praticanti sono la componente più numerosa di un insieme di confessioni religiose (valdesi, evangelici, buddisti, islamici ecc.), di associazioni che praticano l’ascesi e la meditazione (yoga, antroposofia) o varie forme di religiosità (almeno una parte della galassia che può essere classificata con la definizione generica di new age), di associazioni che svolgono attività di volontariato. Ciò che accomuna tutte le persone che fanno parte di queste realtà sociali è il fatto di aver mantenuto viva la dimensione spirituale.

Non è probabilmente indebito dedurre che sia questa connotazione culturale alternativa al sistema dei valori dominante, condivisa da tutte le componenti al di là delle differenze con cui si manifesta in ognuna di esse, a indurle a non riconoscersi in un sistema politico deprivato delle connotazioni ideali che dovrebbero essergli intrinseche, ridotto a competizione per la distribuzione del denaro pubblico, anche in forme non sempre lecite, tra gruppi d’interesse contrapposti. E che non si tratti d’indifferenza per i problemi sociali è chiaramente dimostrato dal fatto che gli appartenenti a queste confessioni religiose, a questi orientamenti filosofici e a queste associazioni, si dedicano ad attività di carattere solidale nei confronti dei più deboli, alla tutela ambientale, alla difesa della biodiversità e delle tradizioni culturali. Probabilmente queste forme di impegno, che sono politiche nel senso più nobile della parola, manifestano l’esigenza, non ancora del tutto consapevole, di un mutamento di paradigma culturale in cui siano riconosciute come un modo di ridare dignità anche alla politica a livello istituzionale.

 

Un soggetto politico che si proponga prioritariamente il compito di costruire un paradigma culturale alternativo a quello su cui si fondano le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci si rivolge soprattutto all’area dei non votanti consapevoli e di coloro che annullano la scheda elettorale, ma, non proponendosi obbiettivi elettorali immediati, non è oggettivamente in competizione con le forze politiche che agiscono a livello istituzionale.

Sostiene, mantenendo la sua autonomia, le iniziative delle forze politiche presenti nelle istituzioni elettive che contrastano il pensiero unico dominante, gli effetti devastanti della globalizzazione, i tentativi di scaricare i costi delle misure di politica economica finalizzate alla ripresa della crescita sulle classi sociali più deboli, sulle generazioni future e sugli ambienti.

Collabora e, se possibile, costruisce percorsi comuni con i soggetti politici che agiscono a livello istituzionale locale, perché la loro scelta testimonia un’alterità rispetto al sistema dei partiti e una volontà di realizzare nuove forme di rappresentanza politica. Si impegna a favorire non solo la conversione ecologica dell’economia, ma anche la conversione economica dell’ecologia, mediante lo sviluppo di innovazioni tecnologiche che consentono di attenuare la crisi ambientale riducendo gli sprechi e l’inquinamento, perché in questo modo si ottengono dei risparmi sui costi di gestione che consentono di pagare i costi d’investimento senza ricorrere a sussidi di denaro pubblico.

Solo con una strategia di questo tipo è possibile ridurre significativamente sia l’impatto ambientale, sia il potere dei partiti politici di condizionare le attività economiche, che costituisce il principale brodo di coltura della corruzione.

Nelle società industriali avanzate solo queste tecnologie hanno ampi spazi di mercato, possono far crescere significativamente l’occupazione in attività utili, non fanno aumentare i debiti pubblici, consentono di attenuare contestualmente la crisi ecologica e la crisi economica. Sono un tassello fondamentale del nuovo paradigma culturale che occorre elaborare.

 

 

Maurizio Pallante

Marco Dalla Gassa

30 aprile 2017

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Istituto di Studi Interdisciplinari sulla Bioeconomia, ISIB

 

La produzione di merci a livello mondiale ha superato la capacità del pianeta di fornirle le risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica, tossiche e non tossiche, non metabolizzabili dalla biosfera.

Il giorno in cui l’umanità consuma tutte le risorse rinnovabili rigenerate annualmente dal pianeta attraverso la fotosintesi clorofilliana, è sceso alla metà d’agosto. E non si può sottacere che la maggior parte della popolazione mondiale ne consuma meno di quanto sarebbe necessario per vivere dignitosamente, o soltanto per sopravvivere. L’eroei (energy returned on energy invested: il rapporto tra l’energia consumata per ricavare energia e l’energia ricavata), nel settore delle fonti fossili è sceso dal valore di 1 / 100 del 1940 al valore di 1 / 6 alla fine del secolo scorso. Le sempre maggiori difficoltà a soddisfare la domanda di energia che ne sono conseguite hanno accresciuto i disastri ambientali e le catastrofi umanitarie: sversamenti di enormi quantità di petrolio negli oceani (le maree nere), uso di una tecnica devastante come il fracking per ricavare idrocarburi dagli scisti bituminosi, gravissimi incidenti nelle centrali nucleari con cui si compensa l’insufficienza della produzione di energia termoelettrica, conflitti sempre più sanguinosi e diffusi per controllare le aree del pianeta in cui insistono i giacimenti più abbondanti di petrolio e metano. L’aumento delle emissioni di anidride carbonica connessi all’uso delle fonti fossili e la riduzione della capacità del pianeta di metabolizzarle con la fotosintesi clorofilliana in conseguenza dell’abbattimento di boschi e foreste, della riduzione del plancton conseguente all’innalzamento della temperatura degli oceani, della mineralizzazione dei suoli agricoli causata dalla concimazione chimica per accrescerne le rese, hanno aumentato in poco più di un secolo le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera da 270  a 410 parti per milione, provocando un innalzamento della temperatura terrestre e un mutamento climatico di cui si cominciano appena a sperimentare gli effetti devastanti. Negli oceani galleggiano masse di poltiglie di plastica grandi come continenti. Le sostanze tossiche e le sostanze di sintesi chimica usate in agricoltura e in alcuni processi industriali danneggiano quantità sempre maggiori di specie viventi, hanno fatto diminuire la fertilità dei suoli, hanno ridotto la biodiversità, hanno aumentato la diffusione di malattie incurabili nella specie umana.

La crescita della produzione di merci è la causa della crisi ecologica che sta minacciando la sopravvivenza stessa dell’umanità. Fino a quando si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci la crisi ecologica è destinata ad aggravarsi.

 

La finalizzazione delle attività produttive alla crescita della produzione di merci è anche la causa di fondo della crisi economica iniziata nel 2008, che le tradizionali misure di politica monetaria e fiscale non sono state in grado di debellare perché non è una crisi congiunturale, cioè un’anomalia temporanea nel funzionamento del sistema economico e produttivo, ma la conseguenza inevitabile del suo modo di funzionare. Se il fine delle attività produttive è la crescita della produzione di merci, le aziende non possono non investire sistematicamente in tecnologie che aumentano la produttività, ovvero che consentono di produrre di più in una unità di tempo, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Ciò non comporta automaticamente, come in genere si pensa, una riduzione dell’occupazione. L’occupazione non diminuirebbe se in conseguenza degli aumenti di produttività si decidesse di ridurre l’orario di lavoro. Tuttavia la concorrenza non consente di fare questa scelta, per cui, se si decide di mantenere intatta la durata dell’orario di lavoro, come è successo e succede, diminuisce il numero degli occupati.

Nei trent’anni d’intensa crescita economica successivi alla fine della seconda guerra mondiale, che gli economisti francesi hanno definito gloriosi, la riduzione del numero degli occupati in agricoltura è stata in gran parte assorbita dagli incrementi degli occupati nell’industria e nei servizi, la successiva riduzione degli occupati nell’industria è stata assorbita dagli ulteriori incrementi degli occupati nei servizi, la riduzione degli occupati nei settori industriali maturi e nei servizi è stata assorbita dalla produzione di nuovi oggetti sempre più perfezionati e dalla fornitura di nuovi servizi, dalla produzione delle tecnologie che riducono l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto, dalla produzione di oggetti progettati per non durare a lungo (obsolescenza programmata), o in modo da non poter essere riparati, al fine di accelerare i processi di sostituzione. Tutto ciò ha ritardato la crisi economica, ma ha aggravato la crisi ecologica perché ha accresciuto i consumi di materia e di energia, aumentando al contempo i rifiuti e le emissioni di sostanze non biodegradabili dalla biosfera. Se in conseguenza degli aumenti di produttività non si riduce l’orario di lavoro ma il numero degli occupati, diminuisce la domanda a fronte di incrementi dell’offerta di merci. Questo problema è stato affrontato, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, incentivando l’indebitamento pubblico e privato per aumentare la domanda. La crescita dei debiti è stata l’altra faccia della medaglia della crescita della produzione di merci. Quando l’aumento della produttività non accompagnata da una riduzione dell’orario di lavoro si è estesa al settore terziario, l’occupazione ha iniziato a diminuire: DATE E DATI

 

A partire dagli anni ottanta il divario tra incrementi dell’offerta e diminuzione della domanda è stato accentuato dalla globalizzazione, ovvero dalla rapida estensione del modo di produzione industriale a paesi che fino ad allora ne erano rimasti relativamente ai margini, in cui vive quasi la metà della popolazione mondiale: la Cina, l’India e il sud est asiatico, la Russia e i paesi dell’Europa dell’est, il Brasile. La globalizzazione era indispensabile per consentire al sistema economico e produttivo industriale di continuare a crescere, perché ha fatto aumentare sia il numero dei produttori e dei consumatori di merci, sia i mercati in cui venderle, da cui attingere le materie prime necessarie a produrle, in cui delocalizzare gli impianti per sfruttare il vantaggio concorrenziale offerto dai costi inferiori della manodopera. Tra «il 1980 […] e il 2006, la quota dei salari sul Pil nei paesi che formavano a inizio periodo la UE a 15 è scesa di circa 10 punti, dal 68 a 58 per cento» (Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi, Torino 2015, p. 110). La riduzione delle retribuzioni e dell’occupazione nei paesi sviluppati ha comportato una riduzione della domanda, che ha costituito uno dei fattori scatenanti della crisi iniziata nel 2008 e causa difficoltà sempre maggiori a superarla. Le leggi con cui il padronato e i governi dei paesi dell’Europa nord-occidentale di comune accordo presumono di riuscire a sostenere la concorrenza con i costi del lavoro nei paesi in via di sviluppo riducendo le tutele sindacali degli occupati e aumentando i contratti di lavoro precari – il jobs act in Italia e la loi travail in Francia – contrariamente alle aspettative con cui vengono adottate, non fanno crescere l’occupazione e contribuiscono ad aggravare la crisi. A complicare il quadro è intervenuto, a partire dal 2015, un rallentamento significativo delle economie dei paesi emergenti che con la loro crescita sostenuta compensavano la debolezza della domanda interna dei paesi di più antica industrializzazione e trainavano l’economia mondiale. L’economia dei paesi industrializzati è entrata in un vicolo cieco, perché se non cresce entra in crisi, senza la globalizzazione non può più crescere, la crescita viene strozzata dalla globalizzazione.
Se la crescita della produzione di merci è la causa sia della crisi ecologica, sia della crisi economica che stanno minacciando il futuro dell’umanità, l’attenuazione di entrambe presuppone l’abbandono della finalizzazione dell’economia alla crescita.

 

La crisi economica non può essere superata con le politiche economiche tradizionalmente utilizzate per rilanciare la crescita, perché nessun problema si può risolvere rafforzando le cause che l’hanno provocato. Se si valuta che per far ripartire la crescita occorre prioritariamente ridurre il debito pubblico, si tagliano le spese dei servizi sociali (sanità, scuola, assistenza, innalzamento dell’età pensionabile), scaricando i costi del risanamento economico sulle classi subalterne. In questo modo però si accentua la crisi, perché le politiche di austerity deprimono la domanda interna. Se invece si ritiene che per far ripartire la crescita sia necessario sostenere la domanda incentivando l’aumento della spesa pubblica in deficit, o aumentando i redditi più bassi per far crescere il potere d’acquisto delle famiglie, non si prende in considerazione il fatto che l’aumento dei debiti monetari è soltanto l’epifenomeno di un aumento del consumo di risorse e delle emissioni di sostanze di scarto nella biosfera. Ciò comporta un aggravamento della crisi ambientale di cui pagheranno i costi le generazioni future. Per ridurre queste conseguenze negative, i sostenitori delle politiche neo-keynesiane propongono per lo più di incentivare gli investimenti nella green economy: energie rinnovabili, tecnologie che aumentano l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse naturali in beni, tecnologie che riducono l’inquinamento, recupero e riuso dei materiali contenuti negli oggetti dismessi (economia circolare). Tuttavia, se queste scelte vengono fatte allo scopo di rilanciare la crescita economica nell’ottica del cosiddetto sviluppo sostenibile, i vantaggi ambientali che si ottengono per unità di prodotto sono vanificati, come in una gigantesca fatica di Sisifo, dall’aumento della quantità dei prodotti in valori assoluti. Possono pertanto riuscire soltanto a ritardare il momento in cui il consumo delle risorse e l’inquinamento distruggeranno definitivamente gli equilibri ambientali che hanno consentito lo sviluppo della specie umana. Le tecnologie che riducono il consumo di risorse e l’inquinamento per unità di prodotto possono attenuare la crisi ecologica solo se sono finalizzate a ridurre il consumo delle risorse e le emissioni dei processi produttivi e dei prodotti, riconducendole a valori compatibili con il flusso energetico inviato quotidianamente dal sole sulla terra e utilizzato dalla vegetazione per effettuare la fotosintesi clorofilliana. Solo se l’economia diventa bio-economia, secondo le indicazioni di Nicholas Georgescu Roegen, e non nell’interpretazione puramente nominalistica e caricaturale che ne ha dato l’Unione europea.

 

I tentativi di superare la crisi economica e di attenuare i più gravi fattori della crisi ambientale sono falliti perché sono stati indirizzati a rimuovere con interventi settoriali le loro cause immediate, senza modificare la finalizzazione dell’economia alla crescita, che le rafforza. Questi fallimenti impongono di rimettere in discussione il paradigma culturale su cui si fonda il modo di produzione industriale. In particolare:

– la concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana sulla natura, a partire dalla formulazione che ne è stata data filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà del XVII secolo;

– la concezione dell’antropocentrismo come superiorità ontologica che autorizza la specie umana a utilizzare ai suoi fini tutte le altre specie viventi, formulata qualche decennio dopo dal filosofo francese René Descartes;

– la concezione della storia come progresso, cioè come costante avanzamento dell’umanità verso il meglio, fondata sull’identificazione del progresso con i progressi scientifici e tecnologici, a partire dalla formulazione che ne è stata data dall’Illuminismo;

– l’individuazione della competizione tra gli individui come fattore determinante dell’evoluzione delle specie;

– l’identificazione della crescita della produzione di merci col benessere, in base a un’interpretazione del prodotto interno lordo non corrispondente alle finalità con cui questo parametro era stato messo a punto dall’economista Simon Kuznets negli anni trenta del secolo sorso;

– la conseguente identificazione del concetto di bene col concetto di merce, del lavoro con l’occupazione e della ricchezza col denaro;

– la riduzione degli esseri umani al ruolo di produttori/consumatori di merci e la mercificazione delle relazioni umane;

– la cancellazione della spiritualità come elemento costitutivo della natura umana;

– l’abolizione del concetto di limite.

 

Tutti questi aspetti sono strettamente intrecciati tra loro. È il loro insieme, sono le relazioni che li connettono e su cui si fondano reciprocamente a definire il paradigma culturale del modo di produzione industriale. Non è possibile sottoporli a critica singolarmente omettendo di prendere in considerazione il sostegno che ricevono dagli altri e non è possibile ipotizzare alternative settoriali senza prendere in considerazione le conseguenze che ne deriverebbero sull’insieme. Solo un metodo di ricerca interdisciplinare consente di percepire sia le connessioni che li legano, sia il ruolo di ognuno di essi nella definizione di un sistema di valori fondato sul dominio e sulla sopraffazione, della specie umana sulle altre specie viventi e di una limitata percentuale di esseri umani sulla totalità della loro specie. Questo sistema di valori e i modelli di comportamento che ne derivano hanno avviato un processo sempre più accelerato di autoannientamento dell’umanità. Nonostante ciò, acquisiscono un consenso sempre più vasto nel mondo. È per contrastare queste tendenze che si propone la costituzione di un «Istituto di Studi Interdisciplinari sulla Bioeconomia», ISIB, con l’obbiettivo di mettere a confronto studiosi e docenti di varie discipline, artisti, filosofi, letterati e musicisti, professionisti, imprenditori e sindacalisti, su progetti di ricerca finalizzati a:

– individuare i riferimenti culturali su cui si fondano le scelte economiche, tecnologiche, politiche e comportamentali che costituiscono le cause dell’attuale crisi di civiltà, in cui confluiscono gli effetti della crisi economica, della crisi ecologica e delle connessioni che le rafforzano vicendevolmente;

– analizzare le conseguenze di queste scelte sul  progressivo aggravamento della crisi economica, della crisi ecologica e della crisi sociale;

– formulare proposte tecnologiche, economiche, politiche e sociali in grado di attenuare i fattori di crisi, contribuendo al contempo a delineare gli elementi di un paradigma culturale e di un sistema di valori alternativo;

– svolgere attività di formazione culturale a vari livelli e di divulgazione dei risultati delle ricerche effettuate.

 

Tutte le ricerche dell’ ISIB saranno indirizzate alla riduzione dell’impronta ecologica, in prospettiva al valore 1, con un’alta qualità della vita in tutti i suoi aspetti: materiali, spirituali, intellettuali, relazionali e creativi. Questo obbiettivo, pur non essendo realisticamente raggiungibile in tempi brevi, è l’orizzonte a cui tendono le sue ricerche, la stella polare che orienta le sue attività. La direzione che indica è l’unica che consente di fermare la corsa dell’umanità verso l’auto estinzione. Nell’attuale fase storica il Progresso non può che consistere nei progressi, in senso etimologico, su questa strada. Le ricerche dell’ISIB saranno finalizzate a fornire indicazioni per effettuare i cambiamenti culturali necessari a compierli; per liberare il sistema economico e produttivo dalla distopia della crescita della produzione di merci e ricondurlo alla finalità di produrre beni atti a soddisfare i bisogni degli esseri umani; per suggerire agli operatori economici i settori produttivi e le innovazioni tecnologiche in cui investire, perché, oltre a essere convenienti economicamente, consentono di migliorare la vita di percentuali sempre più ampie della popolazione umana senza eccedere le capacità della biosfera di fornire le risorse da trasformare in beni e di assorbire gli scarti dei cicli produttivi; per aiutare i decisori politici ad approvare misure legislative che favoriscano una maggiore equità tra le classi sociali, tra i popoli, tra le generazioni attuali e le generazioni a venire, tra la specie umana e le altre specie viventi.

 

L’obbiettivo dell’impronta ecologica 1 può essere perseguito con ragionevoli possibilità di successo solo in ambiti territoriali limitati, abitati da nuclei ristretti di persone molto motivate. Cosa di per sé positiva ben oltre i risultati concreti che consente di ottenere in termini di riduzione della crisi economica e della crisi ambientale, perché dimostrerebbe la praticabilità e i vantaggi insiti in un’organizzazione sociale che decida di utilizzare le tecnologie più avanzate per ridurre la propria impronta ecologica, di ridurre la dipendenza dal mercato globale e valorizzare l’autoproduzione di beni, di improntare le scelte esistenziali alla moderazione e i rapporti interpersonali sulla collaborazione e sulla solidarietà. L’ISIB sosterrà esperienze di questo genere perché possono costituire le anticipazioni sperimentali del cambiamento di paradigma culturale a cui si propone di  apportare i suoi contributi.

 

L’impronta ecologica che l’ISIB si pone come orizzonte delle proprie ricerche è quella italiana. Un obbiettivo che nella fase di avvio delle sue attività eccede di gran lunga le sue capacità e, tuttavia, costituisce un ambito limitato rispetto alla dimensione globale del problema. In realtà l’orizzonte è più ampio di quanto può apparire, perché negli altri paesi di più antica industrializzazione i problemi sono identici, anche se differisce la loro gravità, mentre i paesi di più recente industrializzazione stanno ripercorrendo le tappe dello stesso percorso, per cui le ricerche dell’istituto possono avere una valenza più ampia dell’ambito a cui si riferiscono. In ogni caso la sua attività sarà caratterizzata dalla ricerca di collegamenti e sinergie con istituti e gruppi di ricerca analoghi operanti in altri paesi.

 

Nei progetti di ricerca interdisciplinari dell’ISIB l’elemento che unificherà i contributi specifici delle diverse competenze professionali sarà l’apporto che ciascuna di esse è in grado di dare all’obbiettivo della riduzione dell’impronta ecologica. Questi contributi sono indicati schematicamente e in linea di massima nei seguenti paragrafi.

 

Le ricerche in ambito scientifico e tecnologico avranno come modello di riferimento i processi biologici e biomeccanici della natura e saranno indirizzate a:

– ridurre i flussi di materia ed energia in input nei processi industriali, ridurre gli scarti e i rifiuti (cradle to cradle), ridurre gli impatti ambientali locali e globali, soddisfare le esigenze locali nel rispetto delle tradizioni e del territorio, rivalutare la soddisfazione nell’uso della propria creatività e delle proprie abilità;

– ridurre le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera mediante una strategia in quattro punti: riduzione dei consumi energetici aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione e degli usi finali dell’energia, soddisfazione del fabbisogno energetico residuo con fonti rinnovabili, sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo (sia per evitare l’impatto ambientale dei grandi impianti alimentati da fonti rinnovabili, sia per democratizzare la produzione energetica, riducendo il potere incontrollabile politicamente delle multinazionali dell’energia), trasformazione della rete di distribuzione in una rete di reti sul modello di internet, per consentire gli scambi delle eccedenze tra piccoli impianti;

– sostituire le sostanze di sintesi chimica non biodegradabili con sostanze  biodegradabili;

– promuovere la progettazione di oggetti finalizzati a durare nel tempo, riparabili, disegnati in modo che al termine della loro vita i materiali di cui sono composti si possano suddividere per tipologie omogenee, recuperare e riutilizzare;

– promuovere la progettazione di cicli di produzione finalizzati a ridurre i consumi di acqua, energia e materia per unità di prodotto;

– ridurre le quantità degli oggetti dismessi che vengono smaltiti nelle discariche e negli inceneritori;

  • recuperare in modi ecologicamente corretti i materiali riutilizzabili nelle discariche di rifiuti solidi urbani e industriali accumulati nei decenni passati.La finalizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento alla crescita della produzione di merci ha causato conseguenze particolarmente negative sulla biosfera: ha dato il contributo più alto alla deforestazione e agli aumenti delle concentrazioni di sostanze climalteranti in atmosfera, ha ridotto la fertilità dei suoli, ha utilizzato quantità crescenti di veleni di sintesi chimica che si concentrano nelle catene alimentari e si diffondono nel ciclo delle acque, ha fatto crescere la percentuale di popolazione mondiale che patisce la fame, ha distrutto l’agricoltura contadina tradizionale. Nell’ambito concettuale della bio-economia e in termini di riduzione dell’impronta ecologica è indispensabile che le attività agricole siano finalizzate a riportare gradualmente al 31 dicembre, dal 15 agosto registrato nel 2015, il giorno in cui l’umanità consuma le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso di un anno. Poiché questo obbiettivo non è perseguibile in tempi brevi a livello globale e nemmeno a livello nazionale, l’ambito di riferimento dell’ISIB saranno le esperienze che possono essere realizzate a livello locale. A tal fine la sua attività sarà indirizzata a:- ridurre gli allevamenti e la superficie dei terreni agricoli utilizzati per coltivare cibo per gli animali d’allevamento: questa scelta è fondamentale, non solo per contrastare la fame e la denutrizione della percentuale più povera della popolazione umana, ma anche per ridurre il consumo di risorse rinnovabili con l’obbiettivo di riportare progressivamente il giorno in cui l’umanità arriva a consumare le risorse rinnovabili che l’ecosistema terrestre rigenera nel corso dell’anno alla sua scadenza fisiologica del 31 dicembre;
  • – valorizzare culturalmente, promuovere politicamente e sostenere mediante corsi di formazione lo sviluppo di piccole proprietà agricole e dell’agricoltura contadina di sussistenza con vendita delle eccedenze, la diffusione di forme di commercializzazione diretta dei prodotti agricoli tra produttori e acquirenti, la riduzione dell’uso di prodotti chimici, la massima biodiversità e le filiere corte in funzione della massima autosufficienza alimentare degli ambiti territoriali in cui si pratica questo tipo di agricoltura;
  • aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste.Le ricerche e le proposte nell’ambito dell’agricoltura saranno strettamente correlate con quelle sul consumo di suolo e l’urbanizzazione. In questo settore la riduzione dell’impronta ecologica si può ottenere non solo mediante cambiamenti profondi delle politiche amministrative, ma anche del sistema dei valori e degli stili di vita. Le linee generali dell’impegno dell’ISIB in questa direzione saranno:- favorire l’uso agricolo di terreni non edificati nelle aree urbane e la rinaturalizzazione dei terreni in cui vengono abbattuti edifici fatiscenti non più in uso;- indirizzare le politiche urbanistiche in direzione della rigenerazione urbana mediante la ristrutturazione energetica ed estetica degli edifici, in particolare quelli costruiti dalla seconda metà del secolo scorso; realizzare interventi di forestazione urbana per ridurre l’impermeabilizzazione dei suoli, favorire l’ombreggiamento degli edifici in estate, ridurre la radiazione infrarossa assorbita dall’asfalto e dal cemento; ridefinire i quartieri sul modello dei paesi, con la presenza della maggior parte dei servizi a distanze raggiungibili a piedi.Per poter diventare operative, le proposte di carattere tecnico che consentono di ridurre l’impronta ecologica devono essere percepite come progressi ed essere desiderate come fattori che migliorano la qualità della vita. A tal fine l’ISIB si impegna a individuare e sviluppare gli elementi fondanti di un sistema di valori alternativo a quello che indica nella crescita della produzione e del consumo di merci il senso della vita individuale e sociale. Gli ambiti in cui svilupperà le sue ricerche sono:- la critica all’applicazione del concetto di sviluppo alle società e del concetto di sviluppo sostenibile che ne è stato dedotto;- la riduzione del tempo di lavoro nella vita degli esseri umani, ridimensionandone concettualmente l’importanza nella definizione del loro ruolo sociale e rivalutando il tempo delle attività non produttive, non più connotate come tempo libero dal lavoro, ma come tempo della creatività, delle relazioni, della contemplazione, della conoscenza disinteressata, nell’ottica della priorità data dalla cultura greco-latina all’otium/scholé sul nec-otium, liberata dalla connotazione di stato privilegiato per pochi ed estesa a condizione esistenziale per tutti, nell’ottica della regola benedettina dell’ora et labora.La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci si basa sulla convinzione che tutte le specie viventi, vegetali e animali, non abbiano un valore in sé, ma solo in funzione dell’utilità che la specie umana può ricavare dal loro sfruttamento, che la specie umana abbia il diritto di utilizzarle nei modi più funzionali alle sue esigenze, che la natura e la terra siano un serbatoio di risorse a sua disposizione. In realtà, poiché tutte le forme di vita sono connesse tra loro e con gli ambienti in cui vivono, gli interventi con cui la specie umana accresce il suo dominio sulla natura e lo sfruttamento di altre specie viventi, danneggiano non solo quelle che li subiscono direttamente, ma si estendono a tutte le altre, esseri umani compresi. Le conseguenze sempre più devastanti di queste dinamiche impongono di affrontare il tema dell’estensione del diritto e delle tutele giuridiche a tutte le forme di vita. Per ragioni etiche innanzitutto, perché lo sfruttamento degli animali d’allevamento ha raggiunto forme di crudeltà intollerabili e lo sfruttamento della terra sta estendendo la desertificazione, ma anche per le sofferenze sempre più gravi che la violenza esercitata sulla natura e sulle specie viventi non umane scarica sulla specie umana.Per approfondire queste tematiche l’ISIB istituirà gruppi di lavoro che, a partire da una critica filosofica dell’antropocentrismo come diritto della specie umana di esercitare un dominio assoluto su tutte le altre specie viventi, si proporranno di:- elaborare proposte finalizzate a ripristinare ed estendere i beni comuni e gli usi civici.Nel corso del novecento la letteratura, l’arte, la musica e l’architettura hanno svolto un ruolo determinante nel processo di omologazione culturale sui valori della modernità e nella diffusione di modelli di comportamento di massa funzionali al sistema economico e produttivo industriale. Un contributo non inferiore è stato apportato dal cinema che, a partire dagli anni venti del secolo scorso ha introdotto nell’immaginario collettivo dei paesi occidentali come massima aspirazione esistenziale il desiderio di imitare gli stili di vita consumistici raggiunti dalle famiglie benestanti degli Stati Uniti. La crescita della produzione e dei consumi nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale ha rafforzato in questi paesi la convinzione che i progressi della scienza e della tecnologia stavano cambiando in meglio il modo di vivere proprio perché stavano costruendo un mondo completamente diverso rispetto al passato. E che il progresso sarebbe stato tanto maggiore quanto più fosse continuata quest’opera. Oggi che quell’euforia è svanita e si vedono le macerie che ha lasciato dietro di sé, e si prevedono scientificamente quelle che lascerà, occorre capire quanto sia stata alimentata da una letteratura, da una musica, da un’arte che della modernità e dell’innovazione hanno fatto il loro vessillo. A tal fine è necessario:- analizzare il ruolo dell’industria culturale nella trasformazione della letteratura, delle arti figurative e della musica in categorie merceologiche e nella loro derubricazione a intrattenimento; nella fase attuale il controllo del mercato di queste attività avviene in forma pressoché monopolistica: le concentrazioni editoriali hanno assunto un andamento analogo alle concentrazioni industriali negli altri settori produttivi, le librerie sono state trasformate in supermercati e i musei d’arte contemporanea in magazzini di catene commerciali multinazionali;- valorizzare e creare collegamenti tra i soggetti imprenditoriali indipendenti che operano nei vari ambiti culturali: case editrici, librerie, gallerie d’arte, locali cinematografici, teatri, siti on line ecc.;
  • – analizzare le possibilità offerte dalle moderne tecnologie informatiche per realizzare modalità autonome di produzione e distribuzione delle opere letterarie, artistiche, musicali, cinematografiche.
  • – studiare e far conoscere gli eretici nei confronti della concezione progressista della storia, del progresso come cesura col passato, della modernizzazione operata dalla società industriale;
  • – studiare l’influenza esercitata dai movimenti d’avanguardia nella diffusione a livello di massa di una mentalità acriticamente propensa a valutare l’innovazione come un valore in sé, a considerare la modernizzazione, l’urbanizzazione e l’industrializzazione come progressi, a identificare il progresso con lo sviluppo e con un avanzamento verso il meglio che si realizza mediante una serie di cesure successive nei confronti del passato;
  • – studiare le costituzioni dei paesi dell’America Latina in cui sono stati introdotti i diritti della natura e delle specie viventi non umane;
  • L’appropriazione delle risorse naturali e la loro mercificazione si sono progressivamente estese, a partire dalle recinzioni delle terre comuni, alle privatizzazioni dei beni demaniali, a volte mascherate da concessioni a prezzi irrisori e per periodi sempre più lunghi, alla privatizzazione di una risorsa indispensabile per la vita, come l’acqua, che occorre ricondurre alla condizione giuridica di bene comune.
  • – la ridefinizione del significato del lavoro nella sua complessità, superando la sua riduzione alla dimensione dell’occupazione, cioè della partecipazione alla produzione di merci in cambio di un reddito monetario, per ridare diritto di cittadinanza al lavoro finalizzato ad autoprodurre beni, all’economia del dono e al lavoro creativo;
  • – l’elaborazione di un parametro di benessere realmente alternativo e non integrativo del prodotto interno lordo, a differenza degli altri indicatori elaborati sino ad ora nel tentativo di salvaguardarne una validità parziale nonostante le evidenti incongruenze che presenta;
  • – incentivare l’alimentazione delle popolazioni urbane con prodotti agricoli coltivati nelle fasce agricole periurbane, per ristabilire un rapporto reciprocamente vantaggioso tra città e campagna, anche attraverso l’uso degli strumenti informatici per stabilire forme di commercializzazione diretta tra produttori e acquirenti;
  • – ridurre le superfici di territorio ricoperte di sostanze inorganiche da uno sviluppo edilizio che non ha più la funzione di rispondere a una domanda di abitazioni, luoghi di lavoro e luoghi di aggregazione sociale, ma di speculare su aree edificabili indipendentemente dall’utilità delle costruzioni che si realizzano;