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Sta cambiando tutto in fretta, troppo in fretta

di Jacopo Rothenaisler

La guerra non dichiarata in corso è iniziata esattamente 250 anni fa. Era il 1769. La scoperta della macchina a vapore diede inizio alla prima rivoluzione industriale e ad una nuova epoca geologica, l’Antropocene, termine coniato dal biologo Eugene Stoermer proprio ad indicare l’impatto che l’Homo sapiens ha sull’equilibrio del pianeta, il ruolo dell’essere umano e della sua attività nel determinare le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. Iniziò la corsa a bruciare i combustibili fossili, il primo fu il carbone, che ci ha portato ai giorni nostri.

Attualmente, ogni secondo, l’umanità consuma 1.000 barili di petrolio, 93.000 mc di gas naturale, 221 tonnellate di carbone, ed un Avatar di Second life – quindi una figura digitale creata in un mondo virtuale – consuma più energia di una persona reale di un paese in via di sviluppo. Siamo consapevoli che la combustione di combustibili fossili, assieme alla deforestazione e l’allevamento di bestiame, aggiungono enormi quantità di gas a quelle naturalmente presenti nell’atmosfera, e che alcuni gas presenti nell’atmosfera terrestre agiscono un po’ come il vetro di una serra, catturano il calore del sole impedendogli di ritornare nello spazio.

L’attuale sistema economico però, mentre da una parte favorisce l’accumulo di risorse nelle mani di una élite super privilegiata ai danni dei più poveri, dall’altra, attraverso l’impiego di enormi risorse finanziarie, rafforza la posizione dei soggetti che negano l’origine antropica del cambiamento climatico.

Mentre è in corso, come afferma Noam Chomsky, un vero e proprio smantellamento della ragione, il cambiamento climatico in atto procede in fretta, troppo in fretta. E’ necessario cambiare direzione, e farlo il più velocemente possibile. Il ritmo è la questione cruciale.

Il ritmo è ora la parola chiave per il clima. Non dove stiamo andando, ma quanto velocemente stiamo andando lì. Il pericolo che maggiormente ci minaccia a causa dell’aumento della temperatura del Pianeta è l’innalzamento del livello del mare. Se aspettiamo fino a quando questa prospettiva si rivelerà in modo chiaro potrebbe essere troppo tardi per evitare l’innalzamento del livello del mare di diversi metri e la perdita di tutte le città costiere, la maggior parte delle grandi città del mondo e tutta la loro storia.

Questi cambiamenti sono associati con processi di feedback (retroazioni) amplificati, la cui dinamica di incremento è stata largamente sottovalutata. Un sistema in cui i principali componenti sono gli oceani e il ghiaccio è un sistema che ha una grande inerzia. Fuori equilibrio però è un sistema in cui è difficile ripristinare rapidamente l’equilibrio.

Quando inizia a cambiare, tenuto conto dell’esistenza di processi di amplificazione, innesca una situazione di grande preoccupazione. Non siamo certi di aver superato un punto di non ritorno, ma è certo che la sostanziale inazione della gran parte dei Paesi hanno ridotto il numero di opzioni a nostra disposizione e soprattutto reso quelle necessarie così radicali da non poter essere messe in pratica da governi democratici/elettivi.

La responsabilità connessa ad una iniziativa politica che nasce in una situazione di così grande pericolo per l’intera umanità è innanzitutto quella di dire le cose come stanno e proporre le drastiche e impopolari misure necessarie a scongiurare le conseguenze. Possiamo tranquillamente permetterci di essere trattati con sufficienza, ironia o disprezzo. Non solo siamo abituati, siamo soprattutto consapevoli che i fomentatori e gli autori di tali sentimenti nei nostri confronti stanno in realtà trattando così non noi ma i loro stessi figli e nipoti negando a loro il futuro.

 

Photo by Aron Visuals on Unsplash

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LE FABBRICHE RECUPERATE: UN NUOVO MODELLO D’IMPRESA SOLIDALE

di Nicolò Miotto

Il termine ‘impresa recuperata’ nacque nel 2001 nell’Argentina in preda alla grande crisi, quando molti imprenditori, per rispondere alla situazione di default in cui versava lo Stato argentino, decisero di attuare politiche di licenziamento, spingendosi in alcuni casi sino alla dismissione degli impianti industriali. Diversi lavoratori si organizzarono per occupare le fabbriche, impedendo così la svendita dei macchinari o la delocalizzazione delle imprese. Non si trattò però di una semplice occupazione: i lavoratori rimisero in moto la produzione, spesso riconvertendola in termini ecologici, integrandosi nel tessuto sociale e costituendosi in cooperative.

Uno dei casi più eclatanti di Ert (‘Empresas recuperadas por sus trabajadores’) è la ormai ex-Zanon. Fabbrica di ceramica aperta in Argentina da Luigi Zanon agli inizi degli anni ’80, l’impianto nel 2001 è stato occupato dai lavoratori, in risposta ai licenziamenti voluti dalla direzione della fabbrica. Nel 2004, per uscire dall’illegalità, gli operai si sono costituiti in cooperativa con il nome ‘FaSinPat’ (‘Fabrica Sin Patrones’). Questa esperienza innovativa ha un legame diretto con il territorio circostante ed in particolare con la popolazione indigena dei Mapuche. In un’intervista del 2013 Raúl Godoy, ex operaio della fabbrica, ha raccontato di questa interconnessione sociale ed economica: ‘un’idea è stata quella di lanciare la serie [di piastrelle] Mapuche in omaggio alle comunità mapuche di Neuquén che per solidarietà ci permettono di rifornirci dalle cave di argilla che si trovano nei loro territori. Si tratta di diversi tipi di piastrelle decorate con dei motivi tradizionali ideati dai disegnatori mapuche e poi serigrafati in fabbrica. Per noi è sia un modo per esprimere il nostro sostegno alle comunità native oppresse da centinaia di anni e sia una dimostrazione del fatto che le alleanze dal basso pagano e riescono a essere perfino creative’.

Come poi racconta nell’intervista lo stesso Raúl Godoy, non è semplice rimettere in moto una fabbrica, ma la ‘FaSinPat’ non è sola. Il fenomeno ha coinvolto anche Paesi europei. Nel 2011 in Grecia, a Tessalonica, i lavoratori hanno occupato l’impresa Vio.me per evitare la dismissione dell’impianto. Aditya Chakrabortty, opinionista del ‘The Guardian’, ha scritto della riconversione della produzione attuata dagli operai: ‘quando i lavoratori hanno consultato la comunità locale riguardo ciò che avrebbero dovuto produrre, una richiesta era quella di smettere di fabbricare materiali chimici per il settore delle costruzioni. Ora vengono prodotti sapone e detergenti eco-friendly per la casa: più puliti e più ecologici’.

Anche l’Italia è teatro di esperienze significative, come la Ri-Maflow a Milano. La Maflow produceva elementi per impianti di servosterzo e di componenti per il condizionamento auto. Nel dicembre 2012 la fabbrica venne chiusa ed alcuni cassintegrati decisero di dare vita ad una cooperativa, che prese concretamente vita nel 2013 con il nome ‘Ri-Maflow’. La produzione venne completamente riconvertita con un focus sull’ecologia. All’interno della fabbrica è presente un centro polifunzionale per il riuso dei materiali: vengono recuperati da privati o aziende apparecchiature elettriche ed elettroniche (AEE) da aggiustare, donare o vendere a prezzi contenuti a scuole e soggetti meno abbienti. Dentro il centro vi è anche il ‘Bancale Etico’, una falegnameria che ripara bancali o li trasforma in pezzi d’arredamento. All’interno della fabbrica vi è anche ‘La bottega FuoriMercato’, dove si possono trovare prodotti a km0 del Parco Agricolo Sud Milano. La Ri-Maflow rappresenta un nuovo modo d’intendere la società e l’economia, sul sito ufficiale dello stabilimento si legge: ‘l’obiettivo è quello di realizzare una cittadella dell’altra economia dove attività produttive ed attività sociali si incontrano per resistere alla crisi e promuovere iniziative in rottura con il modello economico liberista’.

Il fenomeno ha una portata internazionale, fra le Ert figurano anche la fabbrica Kazova in Turchia e l’impresa Fralib in Francia. Sin dal 2007, ogni due anni, si sono tenuti vertici internazionali intitolati ‘L’Economia dei Lavoratori’ a cui hanno partecipato i delegati delle fabbriche recuperate e studiosi e ricercatori, così da poter instaurare dei legami fra queste stesse innovative esperienze e creare delle reti collaborative profonde, portatrici di nuovi modi d’intendere economia e società. Il primo vertice si tenne nel 2007 in Argentina, poi venne ripetuto in altri paesi dell’America Latina come il Messico (2011) ed il Brasile (2013). In Europa il primo incontro regionale si è tenuto in Francia nel 2014, mentre il secondo incontro si è tenuto in Grecia nel 2016. Il terzo incontro si terrà 2019 in Italia alla Ri-Maflow.

Cosa testimoniano le Ert? Prima di tutto che un’altra economia è possibile, non solo a livello locale, ma anche a livello internazionale. Le fabbriche recuperate sono molte e stanno creando una rete interconnessa per far sì che le esperienze non restino isolate, non restino nazionali, ma transnazionali. Non si tratta solo di economia, ma anche di ambiente, inteso in termini ecologici e sociali: le Ert hanno una forte connessione con il territorio circostante e con le comunità che ivi risiedono. Si coniugano così le necessità materiali delle comunità, che acquista i prodotti delle Ert, e le necessità immateriali dei singoli individui: la Ri-Maflow mette anche a disposizione una sala prova attrezzata per dare sfogo alla propria musicalità creativa. Le fabbriche recuperate rappresentano perciò un nuovo tassello economico, politico, sociale e culturale che gli Stati, partendo dalle amministrazioni locali, potrebbero incentivare per rispondere a delle crisi che non sono solo economiche, ma che mettono in discussione i modelli culturali ed economici al momento dominanti.

 

 

Photo by Jezael Melgoza on Unsplash

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Avvenire

avvenire-sentimenti

di Giuliana Mieli

Recentemente il Ministro della Sanità ha presentato al Parlamento i risultati relativi allo stato di applicazione della legge 194/78.

I dati testimoniano una significativa diminuzione degli aborti in genere e soprattutto di quelli chirurgici a favore di un sensibile incremento nell’uso delle pillole destinate alla contraccezione d’emergenza: la pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo. Non risultano dati ancora sulle fasce d’età interessate a questo tipo di contraccezione.

Nei commenti si insiste naturalmente sull’importanza di una sistematica attività di counseling sulla procreazione responsabile da attuare nei consultori all’interno del percorso nascita e dell’attività di prevenzione dei tumori femminili, oltre a quella destinata agli adolescenti accanto all’informazione e educazione sessuale effettuata nelle scuole.

Colpisce infatti l’impressionante numero di confezioni di pillole abortive d’emergenza vendute che inevitabilmente fa pensare a quanto l’informazione non sia ancora sufficiente e forse anche a quanto seduttivo appaia il messaggio che presenta la pillola extrema ratio come una semplificazione del problema, una scappatoia sempre disponibile e, per la facilità della sua assunzione, capace di proteggere da disagi e ripensamenti. A volte, nella mia pratica clinica, mi colpisce come giovani donne indisponibili ai metodi contraccettivi classici considerati intrusivi, scomodi, pericolosamente minacciosi della naturalità del ciclo riproduttivo, assumano con disinvoltura la contraccezione d’emergenza come se fosse meno impattante sul loro benessere e la loro integrità psicofisica.

Recentemente Papa Francesco, al ritorno da Panama, ha accennato coi giornalisti al tema dell’aborto per chiedere misericordia per chi vi ricorre e per insistere saggiamente sull’importanza di una estesa educazione affettiva. Di questo episodio mi colpiscono due cose: che a riportare la sessualità al suo significato emotivo prezioso in termini relazionali sia una autorità religiosa e che tale autorità, nel parlare di misericordia, veda l’aborto come un errore possibile all’interno dello sviluppo dell’emotività che va affrontato con l’educazione, la consapevolezza e la responsabilità. È implicito il messaggio che le cose si possono fare meglio, si possono evitare sofferenze e disagi, quanto più si è informati, consapevoli e padroni nell’espressione della propria emotività e corporeità.

Certamente è fondamentale diffondere la conoscenza dei metodi contraccettivi e del loro uso. Ma io credo che nelle parole del Papa ci si riferisca alla conoscenza di noi stessi, della nostra affettività e del suo sviluppo. Ma sono stanca di constatare che a richiamare l’importanza degli affetti sia ancora una volta il pensiero religioso – che ha tutti i diritti di occuparsene naturalmente – a perpetuare quella separazione storica nella nostra cultura fra materia e sentimento, fra mondo inanimato e soggettività, sconfitta scientificamente nel secolo scorso dalla svolta della fisica di Einstein e Heisenberg, ma che continua a permanere nel pensiero comune e soprattutto nelle pratiche economiche e sociali della vita odierna.

L’esigenza del rispetto della vita affettiva nella sua evoluzione e nella sua essenza relazionale non può essere un optional appiccicato lì di cui ci si ricorda nelle feste comandate: deve essere un sapere condiviso, non coltivato solo nelle aule universitarie o nei ghetti aristocratici degli addetti ai lavori, ma deve diventare coscienza allargata che possa rivoluzionare il nostro modo di vivere.

Cito sempre la scoperta fatta negli anni quaranta nella cura degli orfani di guerra ospitati in appositi istituti: per quanto nutriti e scaldati, in molti non riuscivano a scampare a epidemie letali che li decimavano. Fu solo il coinvolgimento emotivo di una nurse nella cura di un piccolo che riportò il sistema immunitario di quella creatura a funzionare per poter sopravvivere: si scopriva così che la condizione necessaria per la sopravvivenza della specie è il coinvolgimento affettivo, fondamento delle successive cure materiali.

John Bowlby estese questa scoperta, che pose alla base della sua Teoria dell’attaccamento, con la considerazione che dato il ruolo vitale nella conservazione della specie degli atteggiamenti affettivi di cura, la natura non poteva averli affidati alle bizze della cultura ma li aveva iscritti nella nostra stessa corporeità attraverso il sistema limbico, neuroendocrino, ormonale.

Lo sviluppo della psicoanalisi inglese del dopoguerra tratteggia non soltanto l’importanza della relazione di cura ma l’evoluzione di tale relazione dalla simbiosi della vita intrauterina alla lenta e graduale conquista della maturità e dell’autonomia che si fonda sul passaggio dalla dipendenza infantile, legata al bisogno, alla conquista della capacità di scambio reciproco sorretta dal desiderio che caratterizza la vita relazionale adulta sia nell’intreccio delle competenze creative che nella complementarità degli affetti: cruciali i passaggi del parto, i primi tre anni di vita del bambino che portano a compimento lo sviluppo del cervello attraverso le relazioni di cura, l’infanzia e la trasformazione adolescenziale. Questo percorso è molto lento nel mammifero umano proprio a causa della sua complessità. L’OMS parla di 24 anni, che non bastano più.

Il percorso della maturazione affettiva è dunque un continuum che si dipana dalla gravidanza e dalla nascita e che influenza significativamente la maturazione degli individui. Nella sua fisiologia questo lento cammino sottolinea l’esigenza di una forte sicurezza emozionale come elemento di benessere e di fiducia sia nell’eredità non scelta del luogo della nascita che nelle relazioni scelte della vita adulta; la sicurezza affettiva sta alla base anche della capacità di esprimere la propria creatività e i propri talenti nella certezza di uno scambio utile e riconosciuto nella vita sociale.

L’incrocio dei codici affettivi, come li chiamava Franco Fornari, fondati su diversi substrati ormonali, garantiscono la crescita a partire dall’attaccamento all’origine materna verso la scoperta del mondo e della vita attraverso la complementarità del ruolo guida paterno. Le varie fasi della crescita si innestano e completano l’un l’altra come i componenti di quei cannocchiali estensibili che necessitano di tutti gli elementi che li costituiscono per dare una visione corretta. L’intreccio dei codici affettivi è responsabile di relazioni sane fondate sulla conoscenza e il rispetto delle esigenze affettive di base.

In questo senso l’educazione sentimentale è qualcosa che dovrebbe essere patrimonio dell’intera popolazione e non riguardare soltanto i giovani: dovrebbe coinvolgere i genitori in primis, gli insegnanti che essendo inseriti nel percorso di crescita dei nostri figli dagli 0 ai 24 anni inevitabilmente hanno una responsabilità educativa di cui devono essere consapevoli e devono saper gestire; e poi gli operatori della sanità, quelli dell’assistenza, senza contare che la capacità di trattare gli altri con cura e attenzione dovrebbe riguardare tutti in quanto tutti siamo parte attiva in un mondo di relazioni.

La non conoscenza del mondo affettivo, l’averlo espulso come ha fatto la nostra cultura, dall’ambito della scienza per tollerarlo solo di straforo nella spiritualità religiosa, ha sdoganato un sapere razionalistico che, nella celebrazione dei successi ottenuti, ha completamente dimenticato, trascurato o represso la complessità e la ricchezza della nostra natura: come dice efficacemente I. Suttie la nostra è una civiltà cresciuta nel tabù della tenerezza.

Difficile fare vera educazione sentimentale senza entrare in rotta di collisione con le abitudini della nostra società: bisognerebbe demedicalizzare la gravidanza non per espellere la medicina quando è necessaria, ma per ritrovare e imparare a leggere le indicazioni naturali affettive in essa contenute; bisognerebbe proteggere i bambini sotto i tre anni dalla violenza di separazioni inadatte alla loro immaturità proteggendo il lavoro della donna e rendendolo flessibile (questa sì sarebbe una flessibilità intelligente) senza penalizzare la sua sana richiesta di essere parte integrante della vita lavorativa e sociale; bisognerebbe difendere la paternità non solo come sostegno economico ma come responsabilità e apporto fondamentale per la costruzione della sicurezza del figlio nel lento distacco dall’orbita materna; bisognerebbe che le scuole smettessero di selezionare i più adatti ai ruoli dirigenziali prestabiliti e coltivassero la genialità spontanea e creativa che non sempre si esprime nel successo imposto dalla competitività e dal giudizio scolastico; bisognerebbe che i giovani fossero sostenuti e accolti nella via sociale adulta con più curiosità e tolleranza e con la garanzia che il loro ingegno è visto da chi è più avanti negli anni non come un pericolo, ma come una opportunità che possa esprimersi per il vantaggio di tutti; bisognerebbe che il femminile, per tanto tempo relegato nel mondo domestico e dell’infanzia, uscisse allo scoperto ed esplicitasse pienamente la sua immensa capacità di comprensione e di cura e scalzasse un politico e sociale basato sulla competizione, l’ambizione di potere, l’odio dell’avversario e del diverso. E potrei continuare.

Ma perché questo possa avvenire bisogna che il mondo degli affetti venga riconosciuto e difeso e soprattutto praticato intorno ai giovani anche dagli adulti: solo la cura degli affetti e il rispetto del lungo formarsi attraverso infanzia e adolescenza garantisce all’essere umano una realizzazione serena e felice nella piena espressione della sua potenzialità naturale. Ad amare si impara essendo amati, a rispettare si impara essendo rispettati: abbiamo prove inconfutabili sulla disponibilità innata e precoce dei piccoli bambini all’empatia, alla condivisione, all’altruismo. L’egoismo onnipotente è breve retaggio dell’esperienza intrauterina che per prima dà al bambino l’imprinting della felicità e del benessere che cercherà tutta la vita. Ma con la nascita è la relazione con la mamma che lo educa a una presenza legata a una qualità, a un rispetto, a una condivisione del sentire che garantisce risonanza; sarà la scoperta della presenza paterna che integrerà alla sicurezza dell’origine quella di chi ti accoglie e ti insegna, a chi dà il limite per proteggere. Sarà più facile per chi ha avuto questa esperienza affrontare l’identificazione di genere adolescenziale – che segna definitivamente il passaggio maturativo verso il mondo del limite, del desiderio e della scelta – e l’apertura verso l’incontro amoroso sostenuto dal modello interno di una qualità di relazione già assaporata. Diversamente il passaggio adolescenziale con la sua libertà e la sua solitudine può diventare vana ricerca di colmare un vuoto.

Straordinaria l’esperienza del Baby-Watching nata anni fa a Monaco di Baviera per combattere il bullismo nelle scuole: fu introdotta la presenza cadenzata in classe di una mamma che aveva appena avuto un bambino con l’ausilio di un facilitatore che spiegava lo svolgersi della relazione di cura; e la cosa ha funzionato egregiamente.

Del resto è la natura stessa a indicarci l’importanza della genitorialità intesa come cura nell’aver organizzato la fecondità umana in maniera diversa dal mondo animale: non calori cadenzati ma una disponibilità mensile per tutti gli anni fecondi della donna che moltiplica le occasioni e genera una possibilità di scelta. La sessualità conserva la sua natura di felice e pieno scambio amoroso, forse il più intenso di tutta la vita, che perpetua nell’età adulta il bisogno inebriante del contatto, del piacere nel fidarsi, della compenetrazione che sostiene e nutre l’individualità e l’autonomia e che può, proprio in quanto gode di questa natura, trasformarsi in scelta consapevole per perpetuare un incontro felice nel farsi di una nuova vita, erede di una esperienza ineffabile di risonanza amorosa. Nella consapevolezza, spesso dimenticata nel mondo borioso e superficiale in cui viviamo, dell’umana caducità e della necessità di convogliare in chi verrà l’eredità di una esperienza di vita piena e appagata.

Se vogliamo educare ai sentimenti dobbiamo essere capaci di viverli e rispettarli nelle loro esigenze, sdoganare il femminile che ne è il grande custode, comprendere e rispettare il mondo dei bambini a partire dalla nascita, fare spazio alla bellezza, all’arte, recuperare il senso di una giusta distribuzione dei beni, rispettare il pianeta per quelli che verranno, aprirsi alla ricchezza delle varie e diverse culture senza sospetto. Marxianamente potremmo dire che dovremmo tornare al valore d’uso superando l’egemonia del valore di scambio, dove ciò che vale è solo la quantità e l’accumulo. Se facciamo crescere bambini e giovani in un mondo dove non c’è più la qualità delle relazioni ma dove tutto è consumo e fretta, è molto difficile che la sessualità possa tornare al suo vero significato umano di incontro, di sicurezza, di tenerezza, di responsabilità perché queste qualità dell’esistere devono essere sperimentate prima per poter essere agite e godute come potrebbero.

 

Photo by Annie Spratt on Unsplash

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La mia generazione ha distrutto il pianeta, per questo benvengano i ragazzi che protestano

DI GEORGE MONBIOT

Theguardian.com

Lo Youth Strike 4 Climate mi ha dato più speranza di quanta ne ho avuta in 30 anni di campagne per il clima. Prima di questa settimana, credevo che fosse tutto finito – per l’indifferenza e l’ostilità di chi ci governa e per la passività della maggior parte della mia generazione – ho temuto che il deterioramento climatico e il disastro ecologico fossero ormai inevitabili. Ora, per la prima volta da anni, penso che possiamo superarli.

La mia generazione e le generazioni precedenti hanno sbagliato tutto. Non siamo riusciti a garantire ciò che è alla base della giustizia intergenerazionale: non si può fare nessuno sconto alla vita umana. In altre parole, la vita di chi non è ancora nato non vale meno della vita di chi già esiste. Noi abbiamo vissuto come se le vostre vite non avessero importanza, come se ogni risorsa che abbiamo trovato  fosse nostra e solo nostra, come se fossimo autorizzati farne tutto quello che volevamo fare, indipendentemente dall’impatto sulle generazioni future. In questo modo, abbiamo creato un’economia cannibale: ci siamo mangiati il vostro futuro, per soddisfare la nostra avidità.

È vero che le persone della mia generazione non siano tutte da biasimare allo stesso modo. Per parlare a grandi linee, la nostra è una società di persone altruiste, governate da psicopatici. Abbiamo permesso ad un numero ristretto di persone incredibilmente ricche ed a dei politici deleteri, finanziati dalle élite incredibilmente ricche, di devastare tutti i sistemi di supporto vitale. Certo ci sarà qualcuno che ha più colpe degli altri, ma la nostra incapacità di bloccare gli oligarchi che stanno saccheggiando la Terra e di aver tollerato il loro potere illegittimo, è colpa di tutti. Insieme, vi stiamo lasciando un mondo che – senza un’azione drastica e decisiva – potrebbe presto diventare inabitabile.

Tutti tutti i giorni,  quando siamo a casa, vi diciamo che se mettete in disordine, poi siete voi che dovette rimettere a posto le cose. Vi diciamo che dovete assumervi la responsabilità delle vostre vite. Ma noi non siamo riusciti a fare lo stesso con noi stessi, stiamo lasciandovi una casa tutta in disordine,  sperando che siate voi a rimetterla a posto.

Qualcuno di noi ci ha provato, qualcuno ha cercato di spiegare  alla nostra generazione che avremmo dovuto fare quello che state facendo voi. Ma, tutto sommato abbiamo trovato gente che inarcava il sopracciglio  e che faceva spallucce. Per anni molte persone della mia età hanno negato che ci fosse un problema. Hanno negato che stesse avvenendo una catastrofe climatica. Hanno negato che clima stesse cambiando. Hanno negato che stesse arrivando una estinzione. Hanno negato che i sistemi della vita sulla terra stessero sull’orlo di un collasso.

Hanno negato tutto questo perché accettarlo avrebbe significato mettere in discussione tutti i valori che consentivano la loro qualità di vita. Se si fosse dato retta alla scienza, la macchina su cui viaggiavano non sarebbe andata bene. Se la scienza avesse avuto ragione, le loro  vacanze all’estero non sarebbero state una scelta giusta. La crescita economica, l’aumento dei consumi, l’intero sistema in cui erano stati portati a credere che fosse giusto, doveva essere sbagliato. Era più facile quindi fingere che la scienza avesse torto e che il loro modo di vivere fosse quello giusto, piuttosto che accettare che la scienza avesse ragione e che il loro modo di vivere fosse sbagliato.

Qualche anno fa, qualcosa è cambiato. Invece di negare la scienza, ho sentito le stesse persone dire “OK, è vero, ma ormai è troppo tardi per fare qualcosa”.  Tra il momento in cui dicevano che non era vero e quando hanno manifestato la loro disperazione, non c’è stato nemmeno un attimo in cui ho sentito dire: ” È vero, dobbiamo fare qualcosa “. Il dichiarare la loro disperazione è stata un’altra forma di negazione; un altro modo di persuadersi che si doveva continuare come prima. Se non c’era niente ormai che si poteva fare, allora non c’era più nemmeno il bisogno di mettere in discussione le loro convinzioni più profonde. Per questo aver negato, per questo egoismo, per questa  miopia della mia generazione, questa è ora l’ultima possibilità.

Quei disastri che avevo paura che avrebbero potuto vedere, da vecchi, i miei nipoti stanno già accadendo:  la popolazione degli insetti sta collassando, estinzione di massa, fuochi  incontrollabili, siccità, ondate di caldo, inondazioni. Questo è il mondo  che vi stiamo lasciando in eredità. La vostra è una delle prime generazioni non nate che non siamo stati capaci di proteggere, quando i nostri consumi sono schizzati alle stelle.

Ma quelli di noi che da tanto tempo si sono spesi per questa lotta non vi abbandoneranno. Voi avete lanciato una sfida a cui noi dobbiamo rispondere, e noi saremo solidali con voi. Anche se siamo vecchi e voi siete giovani, sarete voi che ci guiderete. Almeno questo, ve lo dobbiamo.

Mettendo insieme la vostra determinazione e la nostra esperienza, possiamo costruire un movimento abbastanza forte da rovesciare il sistema che nega la vita e che ci ha portato sull’orlo del disastro, se non oltre. Insieme dobbiamo pretendere un mondo diverso, un sistema di vita che difenda la natura da cui tutti noi dipendiamo. Un sistema che renda onore a voi, ai nostri figli, e che dia lo stesso valore alla vita (di oggi e a quello) di chi non è ancora nato. Insieme, costruiremo un movimento che deve – e che diventerà – irresistibile.

George Monbiot

 

Fonte: https://www.theguardian.com

Link: https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/feb/15/planet-children-protest-climate-change-speech

traduzione di Bosque Primario, pubblicata su comedonchisciotte.org

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Antispecismo come necessità di cambiamento

antispecismo

di Claudio Cianca

Perché parliamo di antispecismo?

Cosa c’entra con la decrescita (selettiva degli sprechi) e con l’ecologismo (difesa dell’ambiente naturale)?

Spesso questi temi vengono visti separatamente eppure, non cogliere i reciproci nessi, significherebbe pensare di praticare il paradigma della decrescita – o analogamente dell’ecologismo – mantenendo un modello culturale (antropocentrismo: visione dell’uomo e tutto ciò che gli è proprio, come centrale nell’Universo), il quale sostiene ideologicamente le dinamiche produttive opposte. Qui intendiamo sostenere che ciò non ha molto senso.

Perseguire la sostenibilità alimentare mantenendo inalterato un modello culturale incentrato sul solo agente umano, conduce a contraddizioni che minano alla base il perseguimento della stessa sostenibilità. La ragione sta nel fatto che si muovono critiche ad alcune pratiche produttive, senza tenere conto della visione del mondo che è nata in funzione delle medesime pratiche messe in discussione. La presunta “alternativa” finisce con l’essere la “copia conforme” delle stesse logiche, riproposte –spesso inconsapevolmente- sotto altre forme.

L’antispecismo è il movimento che intende attribuire un pari valore e status morale a tutti gli esseri senzienti, individuando la categorizzazione biologica di specie, come origine -e successiva giustificazione- della discriminazione verso gli animali non umani. In sostanza, questa corrente di pensiero, sostiene l’ugualianza fra le specie, che necessita però di essere attuata, affinché l’etica che la contraddistingue possa modificare le condizioni di disparità determinate storicamente. Un antispecismo, vissuto in maniera solo autoreferenziale, resta confinato in posizioni tanto nobili quanto irrealizzabili, finendo per confinare gli stessi attivisti che lo animano in lidi idealisti, spesso portatori di giudizi. Invece, un antispecismo che voglia sperimentare la propria ispirazione filosofica in un progetto politico e culturale, ha bisogno di incontrare i movimenti che, a loro volta, provano a generare cambiamenti, per mezzo di un progressivo impatto a modifica delle norme socialmente stabilite.

Facciamo un passo indietro. Ci permettiamo di dire, semplificando, che una qualsiasi società umana si basa su tre colonne portanti: le pratiche produttive, le quali hanno il compito di assicurare la materiale sopravvivenza / un ordinamento sociale, il quale ha il compito di consentire l’attuazione di quelle pratiche / un modello culturale, ovvero un’immagine della realtà e della posizione del gruppo sociale in essa (da cui consegue una scala di valori e le relative norme di comportamento impartite). Il modello culturale ha proprio il compito di legittimare “ideologicamente” sia le pratiche produttive, sia quell’ordinamento sociale (fungendo da collante sistemico collettivo), di creare cioè una visione che faccia apparire leciti le une e l’altro. Tale visione non ha sempre il compito di descrivere oggettivamente la realtà e, nella maggior parte dei casi, non lo fa; essa appartiene più alla mitologia che alla sfera della conoscenza. Il suo vero compito sta nel giustificare ai membri del gruppo le azioni che il gruppo dirigente compie, verso l’interno e nei confronti del mondo esterno. Poco importa se spesso assume connotati così fuori dalla realtà da divenire paragonabile ad un’allucinazione collettiva.

Le tre colonne portanti si influenzano vicendevolmente. Il modello di cultura deriva dai primi due pilastri ma, al tempo stesso, nel giustificarli in quanto “normali” o addirittura “naturali”, agisce a rafforzarli: quando direttamente, motivando ogni azione che li mantenga, quando indirettamente, ostacolando ogni tendenza divergente. Per il modo stesso in cui sono nate, esse sono inestricabilmente legate l’una all’altra, al punto che non è pensabile modificarne una, senza intervenire contemporaneamente sulle altre. Spesso invece, a leggere le teorie antispeciste, ecologiste e della decrescita, ne ricaviamo la sensazione che si stia parlando di tre temi (e schemi) completamente scollegati fra loro. Manca la visione delle connessioni fra le componenti sociali invece collegate; di conseguenza, se si tende ad un’alternativa reale, non è possibile teorizzare né praticare il cambiamento concependolo separatamente. Se ci chiediamo quando, come e perché nasce l’ideologia specista e con essa il dominio sistematico dell’uomo sulle altre specie animali, o cosa sta all’origine della società della crescita, o ancora cosa determina lo scempio degli habitat naturali, scopriamo che queste tre domande richiedono una risposta omnicomprensiva, facente capo all’analisi di un processo diversificato ma inscindibile.

La crescita è un processo di lungo periodo, iniziato già in epoca protostorica in Europa con le invasioni del popolo pastorale che abbiamo studiato a scuola: gli Indoeuropei. Processo che è andato avanti nel tempo, fino a giungere oggi al suo più grande compimento con la globalizzazione. Anche per quanto riguarda l’ecologismo, si identifica nel neolitico il momento in cui l’umanità cominciò ad avere un impatto molto sensibile sugli ecosistemi, con l’irrompere dell’agricoltura e, soprattutto, dell’allevamento. L’antropocentrismo è nato parallelamente al nascere della società della crescita, dunque con il primo svilupparsi delle culture urbane, come ideologia necessaria alla legittimazione delle pratiche diffuse. Affinché una società pretenda di espandersi indefinitamente, essa deve esprimere una visione antropocentrica del mondo, ovvero della reificazione (riduzione a merce) di tutto ciò che è esterno a sé e dunque oggetto di tale dominio. E’ importante dire che i processi di formazione ed evoluzione dei modelli di cultura non appartengono alla sfera razionale, al contrario coinvolgono il nostro inconscio, dove la razionalità non arriva e
l’elaborazione si compie senza che l’individuo ne abbia alcuna consapevolezza.

Alcuni esempi: gli effetti che i pesticidi hanno sugli animali, domestici e selvatici (incluso l’umano ovviamente); le popolazioni di uccelli in Europa che hanno subito negli ultimi decenni una drastica rarefazione (la cui causa primaria viene identificata nell’agricoltura industriale, nel cui ambito è da inserire anche la gestione intensiva dei pascoli e quindi ciò che mangiamo), non solo attraverso l’uso di sostanze chimiche letali ma anche attraverso la sistematica distruzione degli habitat. Allo scopo di disporre di un pascolo, si brucia o si abbatte una foresta e ciò implica la morte di tutti gli animali che vivevano in essa (o arsi vivi o di fame perché il loro habitat non esiste più), un gigantesco genocidio. Foche e orsi polari annegano a causa dello scioglimento precoce dei ghiacci provocato dal riscaldamento globale causato dalle più nocive attività umane. Senza parlare dell’orrendo sfruttamento degli animali “da reddito” perpetrato negli allevamenti, intensivi/industriali/biologici o diversamente alternativi che siano.

Per ciascuno di questi effetti è riscontrabile una causa comune, un fatto di validità generale. L’“animale non umano” è trattato come un’astratta entità, invece di quell’organismo biologico che gode e genera allo stesso tempo un ecosistema: il riconoscimento degli animali come agenti sociali implica la loro profonda ri-considerazione, implica la tutela degli ecosistemi in cui vivono, degli habitat dai quali sono – e siamo – indissolubili, di cui sono – e siamo – parte. Non si può preservare i primi senza preservare i secondi. Cos’è d’altronde un ecosistema, se non un insieme organico di comunità viventi?

E’ pensabile una società della decrescita che si mantenga specista? E’ desiderabile un cambiamento che si fondi su di un concentrato di individui ed attività in perenne – e discriminatoria – infinita espansione? Noi pensiamo di no, perché su un pianeta di dimensioni finite, è chiaro che se una specie vivente pretende di crescere all’infinito non può farlo che a danno di tutte le altre, compresa la parte più debole della propria. Se una parte cresce, le altre devono contrarsi: non c’è alternativa. Una società antispecista deve puntare ad essere una società stazionaria, non nel senso di stagnante, ma una società quantitativamente stabile. La ricerca di un equilibrio nelle convivenze oltre la specie diventa un tema centrale che merita la dovuta attenzione da parte di chi, pur provenendo da diversi interessi, vuole convergere verso l’obiettivo d’interesse comune. Tale atteggiamento, se ponderato, trasforma le battaglie singole da questioni che puntano alla specifica inclusione nel sistema dominante, a lotte che cercano forme di liberazione emancipative, attraverso un approccio intersezionale (l’intersezionalità afferma che le concettualizzazioni classiche dell’oppressione nella società – razzismo, sessismo, abilismo, omofobia, transfobia, xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza
– non agiscono in modo indipendente, bensì che queste forme di esclusione sono interconnesse e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione di molteplici forme di discriminazione) . Ci spostiamo quindi dal piano della rivendicazione dei semplici diritti, secondo i ritornelli delle retoriche populiste, per entrare nell’alveo delle ampie rivoluzioni paradigmatiche, che possono davvero ambire a modificare il corso della storia e delle storie.

Se si cerca di cambiare solo una parte della realtà, senza intaccare il modello di cultura generale, non si fa altro che riprodurre nuove versioni della medesima realtà. Viceversa, nel momento in cui si cerca di cambiare il modello culturale, senza porsi il problema di cambiare contestualmente le strutture produttive e sociali che quel modello sostiene, si pretende di costruire un tetto senza aver prima costruito l’edificio sottostante. Nel primo caso, nel momento in cui si sottopone a critica la prassi produttiva del presente (crescita infinita), mantenendo il modello culturale nato per giustificare quella prassi (antropocentrismo), qualunque progetto alternativo sarà solo una versione edulcorata di quella stessa prassi. Facciamo un esempio particolarmente evidente, nel caso delle scelte alimentari: la sostituzione della carne animale con la carne sintetica, sia che il signor Rossi la acquisti al Mc’Donalds, sia che il signor Rossi aderisca alle proposte Slow Food, non è che la stessa carne che diversamente sfrutta, devasta, uccide.

L’opposizione a certe attività produttive (in cui si comprende la condanna della zootecnia), genera uno scollamento, una frattura, fra una visione del mondo (l’uomo superiore agli “animali”) e una delle modalità attraverso cui questa visione trovava una corrispondenza nel mondo reale (l’“animale” reso cosa, materia prima e trasformato in cibo). Si crea un’insostenibile incoerenza fra una dimensione culturale che enuncia un certo rapporto con l’altro-non-umano (la sua negazione in quanto soggetto) e una situazione materiale che impedisce l’esercizio di quel rapporto. Viene così a mancare quella fett(in)a di funzionalità, di ragion d’essere, che incarna il superamento di una certa visione del mondo.

In sostanza, questo nuovo movimento socio/cultural/politico, si prefigge di non cadere nell’errore di essere paladino solo di un nuovo ordine degli umani e delle loro cose, di sostituire semplicemente il vertice della piramide del potere; costruzione nella quale le esistenze degli “schiavi” alla base servirebbe ancora una volta a permetterci di restare in cima. La decrescita è sì auspicabile in termini quantitativi e qualitativi ma, ancor più importante, in termini di equità nei confronti di tutte le specie viventi.

 

 

 

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FONDAMENTI DELLA POLITICA AMBIENTALE IN ECUADOR E BOLIVIA

di Nicolò Miotto*

L’America Latina rientra convenzionalmente nella famiglia giuridica dei sistemi di civil law. Tuttavia, già dagli anni ’80 si sono verificati mutamenti giuridici innovativi che hanno allontanato i paesi latino-americani dal sentire politico e giuridico occidentale. Ora al centro del dibattito nel continente europeo, la democrazia partecipativa è stata, ed è, uno dei caratteri giuridici originali del continente latino-americano. Si pensi in tal senso al bilancio partecipativo, sperimentato per la prima volta a Porto Alegre, in Brasile, nel 1989 e poi replicato persino in alcune città italiane. I caratteri giuridici peculiari dei paesi dell’America Latina hanno portato molti studiosi ad analizzare in modo più approfondito le vicende socio-giuridiche di questo continente. Il sociologo e politologo francese Yves Sintomer utilizzò l’espressione ‘Il ritorno delle caravelle’, aprendo un dibattito che deve ancora dare i suoi frutti: i paesi occidentali possono ispirarsi ai paesi dell’America Latina per reinventarsi?

In Ecuador e Bolivia si è diffuso un sentire filosofico e politico peculiare, distante da quello occidentale, che ha avuto un risvolto in termini giuridici. La cosmovisione dei popoli indigeni, che vivono in un rapporto simbiotico con la Natura, ha portato ad una vera e propria rivoluzione giuridica che va sotto il nome di buen vivir (Ecuador) o vivir bien (Bolivia).
Concetto che ha poca affinità con la nostra idea di ‘benessere’, il buen vivir trova spazio nella costituzione dell’Ecuador del 2008 ed in quella della Bolivia del 2009. Si concepisce lo sviluppo in termini olistici: non si considera solo la dimensione economica, ma anche quella sociale e culturale, prestando profonda attenzione alla tutela dell’ambiente. Gli studiosi ne parlano in termini di ‘narrazione contro-egemonica’, in quanto questo nuovo sentire giuridico nasce in contrasto alla globalizzazione, alle politiche estrattiviste, che in America Latina colpiscono particolarmente i popoli indigeni, ed al neoliberismo. Si punta al consolidamento di un modello di sviluppo alternativo a quello di matrice occidentale, focalizzandosi sull’ampliamento degli istituti democratici, sul concetto di solidarietà e sulla tutela dell’ambiente.

Il Capitolo II del Titolo II della Costituzione dell’Ecuador si intitola ’I diritti del buen vivir’: il diritto all’acqua, definita come ‘patrimonio nazionale strategico di uso pubblico’, è definito come fondamentale ed irrinunciabile; è riconosciuto il diritto del ‘pueblo’ a vivere in un ambiente sano ed ecologicamente equilibrato ed è ‘interesse pubblico’ il recupero degli spazi naturali degradati.
Il Capitolo, articoli 12-34, tratta anche tematiche quali la Cultura e la Scienza ed il Lavoro e la Sicurezza sociale. La compresenza di tematiche diverse, ma non slegate, fa risaltare l’approccio olistico del buen vivir, dove lo sviluppo non è tale se non prende in considerazione fattori economici, sociali, ambientali e culturali. In Bolivia il vivir bien è declinato propriamente in termini di principio orientativo delle politiche pubbliche: all’articolo 80 della Costituzione si sottolinea che l’educazione è orientata alla formazione individuale e collettiva, nonché alla conservazione e alla protezione dell’ambiente e della biodiversità.
La dimensione economica è affrontata in modo originale all’articolo 306: il modello economico è definito ‘plurale’, è costituito anche dall’economia del dono e dello scambio ed è orientato alla solidarietà, alla sostenibilità; l’interesse individuale è bilanciato dal ‘vivir bien colectivo’.

Altra tematica che trova spazio nelle Costituzioni di Ecuador e Bolivia è la Sovranità alimentare, intesa come il diritto della popolazione all’accesso ad un cibo sano e culturalmente adeguato. All’articolo 281 della Costituzione ecuadoriana è definita come ‘obiettivo strategico ed obbligo dello Stato’ per il raggiungimento dell’autosufficienza di cibi sani. All’articolo 282 è invece sancito il divieto di privatizzazione dell’acqua, nonché il divieto di latifondo. La Costituzione boliviana all’articolo 407 garantisce la Sovranità alimentare, dando la priorità alla produzione e consumo di prodotti locali culturalmente adeguati.

L’Assemblea costituente dell’Ecuador, appoggiandosi alla consulenza della CELDF, organizzazione statunitense che fornisce pareri a Stati ed enti locali in materia ambientale, ha introdotto nella Costituzione i Diritti della Natura. All’articolo 72 è sancito il diritto al ripristino, ovvero al reintegro dei sistemi di vita contaminati dall’azione umana; il diritto è indipendente dall’obbligo di indennizzare le persone che hanno subito il danno. In modo diverso in Bolivia, dove i diritti della natura non godono di un relativo capitolo costituzionale come in Ecuador, nel 2010 venne varata la Legge 71, al cui articolo 7 è sancito il diritto al ripristino. In entrambi gli Stati sia il singolo sia la collettività politica e sociale hanno il dovere di proteggere e garantire i Diritti della Natura.

La Natura è considerata come una fondazione che possiede un patrimonio, fatto di elementi animati ed inanimati: gli interessi della Natura sono rappresentati da persone fisiche e persone giuridiche; anche in altri Stati dell’America Latina vi è la figura del ‘Defensor del Pueblo’, che sollecita le autorità pubbliche e sta in giudizio per assicurare la tutela della Natura.

Per ripristinare i sistemi ambientali sono previsti dei fondi economici appositi. Uno dei primi casi di vittoria in sede civile da parte della Natura fu il caso del fiume Vilcabamba in Ecuador nel 2011.

E l’Occidente? Sarebbe un errore di analisi ritenere che la realtà europea sia socialmente, giuridicamente e politicamente assimilabile a quella di Ecuador e Bolivia, la cui peculiarità principale è la presenza di popolazioni indigene ed il loro retaggio culturale. Tuttavia, al fine di dare nuovo impulso alle politiche sull’ambiente può risultare utile guardare a Stati come Ecuador e Bolivia, ma non solo, poiché in termini giuridici simili si sono espressi anche India, Nepal ed Egitto.

L’ecologia potrebbe essere anche un tema attorno al quale implementare il dialogo inter-religioso, poiché nel Cattolicesimo, nell’Islam e nell’Ebraismo, nonché nel Buddismo, si rintraccia effettivamente una profonda attenzione per la Natura. A livello internazionale nel 2009 venne istituito dall’Assemblea Generale dell’Onu il forum ‘Harmony With Nature’: studiosi, pensatori ed altri esponenti delle società degli Stati stanno elaborando un nuovo paradigma culturale, sociale ed economico, che tenga conto dell’equilibrio delle tre E; Ecologia, Equità, Economia.

Per coinvolgere maggiormente la popolazione nelle questioni riguardanti l’ambiente, sarebbe importante rimarcare i contenuti della Convenzione di Århus del 1998 che sancisce il diritto alla trasparenza e alla partecipazione in materia ai processi decisionali di governo locale, nazionale e transfrontaliero concernenti l’ambiente.

 

(*) Nicolò Miotto: studente del secondo anno della facoltà di Scienze diplomatiche dell’Università di Trieste, con sede a Gorizia

 

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Riflessioni sulle migrazioni

lettera sulle migrazioni

Pubblichiamo la lettera che Angelo Bianchi, uno dei primi a condividere e sottoscrivere il nostro appello, ha inviato al direttore di Famiglia Cristiana, che l’ha pubblicata.

Egregio don Rizzolo, tempo fa ho inviato una lettera in riferimento agli auguri per l’anno nuovo, fatti sulla rivista,dal presidente della Confindustria Boccia. Non è stata pubblicata; certo non avevo questa pretesa sapendo delle molte lettere che ricevete e anche perché, mi sembra, che le cause relative a certi problemi dell’economia e alle sue ripercussioni sociali non siano affrontati adeguatamente su F.C.

Questa volta mi riferisco all’articolo del prof. Riccardi “Nessun muro ferma la disperazione”. Condivido questa affermazione, condivido meno il rimedio che, secondo il professore, sarebbe un maggior sviluppo, intendendo come modello, penso, lo sviluppo ottenuto per mezzo dei sistemi economici dei paesi occidentali.

Purtroppo mi rendo conto che noi non riusciamo a capire che è proprio questo sviluppo che costringe i popoli a emigrare. Le economie di sussistenza di gran parte delle popolazioni del mondo povero vengono stravolte dall’introduzione di metodi e strumenti che cambiano completamente i loro sistemi di vita. Molto spesso queste popolazioni vengono private della loro terra da parte di multinazionali agroalimentari, che utilizzano il loro suolo per dare spazio a colture che servono solo ai nostri consumi voluttuari. Le guerre stesse vengono in gran parte fomentate da potentati economici per il solo fine di incrementare la propria ricchezza.

Al di là della doverosa accoglienza delle persone in difficoltà che emigrano verso il nostro paese, dovremmo rendere evidenti le cause vere che sono all’origine di questo fenomeno, cominciando da quello che dobbiamo fare noi per rendere le nostre economie meno aggressive. I popoli poveri potranno allora costruire una speranza concreta per il loro futuro nei propri territori.

Siamo tutti indignati di fronte ai porti chiusi per l’accoglienza dei migranti, ma non una voce che faccia rilevare l’ingiustizia causata dall’economia dei paesi ricchi e la necessità di promuovere la sobrietà dei nostri consumi anziché parlare incessantemente di crescita, una crescita che andrà ad aumentare il divario tra ricchi e poveri, i problemi ambientali, il consumismo che diciamo di ridurre ma solo a parole. Crediamo davvero, come una copertina di F.C. diceva, di salvare i migranti dall’inferno facendoli venire nelle nostre città e passare così dal mondo degli sfruttati a quello degli sfruttatori? Condividendo i nostri stili di vita siamo sicuri che potranno guadagnarsi davvero il Paradiso? Anche lo slogan della Caritas: “liberi di partire o liberi di restare” mi sembra contraddittorio se in definitiva questi poveri cristi sono obbligati a scappare.

Siamo aperti all’accoglienza e non solo per i motivi che ci convengono (pagamento delle pensioni agli italiani, esecuzione lavori che qui non vogliamo fare, ecc.), ma nello stesso tempo mettiamo in evidenza le cause di questo fenomeno che le economie globalizzate hanno originato con una intensità mai riscontrata prima.

Angelo Bianchi – Pomarance

 

 

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IL FEMMINILE E LA SUA IMPORTANZA NELLA RIVOLUZIONE ECOLOGICA

femminile

di Giuliana Mieli

Quando parliamo del pericolo di estinzione che corre l’umanità, quando denunciamo l’ineguaglianza nella distribuzione delle ricchezze, quando chiediamo che l’economia passi dalla produzione di merci sostenuta dalla competitività e dalla sete di denaro alla sua vera funzione di sforzo per il miglioramento delle condizioni di vita, quando ci preoccupiamo giustamente per il destino delle generazioni future, quando ci battiamo per il recupero della spiritualità, in realtà alludiamo alla necessità di una profonda rivoluzione culturale.

Dobbiamo allora convenire che il neoliberismo è l’espressione ultima di un processo filosofico iniziato secoli fa all’insegna della superiorità del pensiero razionale e del suo dominio sulla natura attraverso il suo sfruttamento senza limiti: una superiorità umana guadagnata attraverso l’uso della scienza che scalza la razionalità teistica medioevale e la sostituisce con un’antropologia dell’onnipotenza dell’uomo e della sua ragione.

Si tratta di una imperdonabile semplificazione nell’interpretazione del reale che trascura completamente qualsiasi considerazione scientifica del mondo dei sentimenti e delle emozioni relegati nella competenza dell’interpretazione religiosa della vita. Infatti tutte le scienze sistematizzate dopo il Rinascimento hanno preso il paradigma galileiano-newtoniano come paradigma scientifico di interpretazione della realtà cui uniformarsi: anche le cosiddette “scienze umane”, medicina, biologia, antropologia, sociologia, economia.

Solo nel ‘900 Einstein e Heisenberg, ognuno nella specificità del proprio campo di indagine, dovevano superare il modello deterministico-meccanicistico imperante come inadatto a comprendere e descrivere la complessità dell’universo nella dimensione dell’estremamente grande e dell’estremamente piccolo. Compariva improvvisamente – a ridimensionare la fiducia umana nell’obiettività distaccata dell’osservatore – il concetto di “soggettività” che enfatizzava la posizione dell’uomo nell’universo come parte e non come padrone. L’uomo dunque avrebbe dovuto rivolgere verso se stesso uno sguardo scientifico non riduttivo e cercare di comprendere anche la propria natura per poterla servire adeguatamente.

La psicologia, che era arrivata buona ultima con il pensiero freudiano a pretendere per sé un carattere di scientificità si era però accontentata di uno schema interpretativo deterministico-meccanicistico in armonia con la fisica ottocentesca. Fu solo nel ‘900 – di nuovo – che un altro grande, John Bowlby, proponeva e dimostrava una interpretazione dell’affettività umana basata sulla relazione sociale e non sullo sfogo dell’istinto individuale: al principio del piacere si sostituisce la sicurezza della buona relazione. A partire dall’osservazione dei neonati rimasti orfani a Londra durante la seconda guerra mondiale, che morivano inspiegabilmente anche se nutriti e scaldati, si scoprì che soltanto il sincero coinvolgimento emozionale delle nurses che li accudivano riportava il sistema immunitario dei piccoli a funzionare per potersi difendere dalle epidemie. Dunque solo allora fu chiaro che la condizione necessaria per la sopravvivenza della specie umana è l’essere parte significativa all’interno di un rapporto d’amore e di preoccupazione affettiva. Ed essendo la cura del piccolo condizione necessaria per la sua sopravvivenza, Bowlby postulò che la natura non avesse lasciato al caso le modalità della cura per iscrivere invece gli atteggiamenti affettivi di base nella nostra costituzione biologica: i codici affettivi sono iscritti nella nostra corporeità, nel cervello limbico, nel sistema neuroendocrino, nel nostro substrato ormonale.

A partire dalla nascita l’atteggiamento di cura materno è assolutamente cruciale per sostenere la maturazione del cervello del piccolo umano che viene al mondo gravemente prematuro rispetto a ogni altro mammifero: l’imprinting fondamentale per il benessere fisico ed emotivo dell’individuo si situa nei primi tre anni di vita e costituisce la “base sicura” che permette la crescita, la fiducia nella vita e sostiene la creatività precipua di ognuno. Ci sono prove inconfutabili del danno arrecato dall’assenza o dalla sospensione delle cure che si trasmette e influenza l’intera vita creando immaturità, mancanza di identità, insicurezza, dipendenza: in tal modo rendendo più facile l’assoggettamento dell’individuo alle seduzioni del sistema.

Si potrebbe dire, assumendo un altro punto di vista, che l’Occidente nel suo lento svolgersi filosofico abbia trascurato totalmente la comprensione e la valutazione del ruolo della donna. Spingendola ai margini e riservandole la cura della casa e della prole, non si è reso conto che escludeva dalla conoscenza e dalla scala dei valori una funzione cardine per la sopravvivenza di tutti. Lo sguardo femminile sul mondo è uno sguardo valoriale diverso, complementare: il femminile privilegia il sentire al pensare non per escluderlo ma per ispirarlo. In prove sperimentali, di fronte a uno stato di stress, il maschio si allerta e prepara alla lotta e alla difesa, la femmina, invasa dall’ossitocina, riorganizza il campo vitale a favore e protezione dei più fragili. Il femminile è capace di identificarsi con l’altro da sé, protegge il più piccolo, esprime generosità e partecipazione, condivide e pacifica: la donna racchiude e protegge dentro di sé qualità fondamentali per la relazione e la sopravvivenza, istinti di base dell’essere umano quanto l’esplorazione e la creatività manuale e mentale.
In questo senso il femminile non è la donna anche se è la donna che racchiude maggiormente questi valori nella sua funzione e attenzione: c’è un femminile nel maschio che lo predispone a comprenderla e a condividere gli obiettivi della sopravvivenza così come c’è un maschile nella donna che le permette di saldarsi e cooperare con l’uomo. Dobbiamo ripulire questi codici affettivi dalla distorsione culturale che hanno subito e siccome la distorsione è andata nel senso di una ipervalorizzazione del pensiero astratto dobbiamo ristabilire la concretezza di uno sguardo capace di curare il mondo.

Nella lotta per la parità e per i diritti la donna non deve rinunciare alla propria originale espressione per spalmarsi sui modelli maschili egoipertrofici esistenti: deve invece rivendicare e conservare orgogliosamente la propria specificità senza considerarla una tara per la realizzazione di sè, ma anzi una ricchezza non solo spendibile nel mondo privato della vita sentimentale e della cura ma anche in campo sociale, nella politica e nell’economia per collaborare a trasformarle in strumenti che lavorino veramente per la sopravvivenza e il benessere, nel miglioramento delle relazioni fra gli esseri umani.

Un primo passo in questo senso parte da una valorizzazione emotiva della nascita che va liberata da una medicalizzazione eccessiva tesa a sottrarre alla donna non solo la propria innata creatività ma la comprensione della sacralità del suo ruolo.

Un altro passo è la necessità che l’economia comprenda il valore aggiunto di una genitorialità rispettata e protetta che garantisca la crescita di cittadini sani sia fisicamente che mentalmente con un non trascurabile risparmio economico. Nei primi tre anni di vita del bambino entrambi i genitori dovrebbero essere messi nelle condizioni di curare la loro creatura con una riduzione cospicua del loro orario di lavoro – che riguardi il padre o la madre – senza che questo si traduca in una impossibilità di sopravvivenza economica o di affermazione lavorativa.
La diffusione acritica degli asili nido a partire dai primi mesi di vita, sostenuta da tutti i partiti politici, svela la non conoscenza di uno sviluppo del sapere psicologico, sostenuto dalla epigenetica e dalla psiconeuroendocrinologia, che situa il benessere emotivo dell’individuo nell’ambiente affettivo relazionale in cui si sviluppa e cresce, sorretto dalla presenza amorosa del grembo che lo ha contenuto e che lo accompagna gradualmente verso un incontro felice con la vita nell’intreccio con l’esempio e la scorta preziosa della figura paterna.

Senza trascurare il fatto che il cammino maturativo verso la piena autonomia occupa secondo l’OMS 24 anni durante i quali la presenza di adulti partecipi è fondamentale per una crescita equilibrata e sicura: e ciò riguarda in primis i genitori e secondariamente gli insegnanti e tutti gli adulti significativi che il bambino e poi il ragazzo incontra sul suo cammino di crescita. La deprivazione di una presenza genitoriale amorevole e partecipe segna per tutta la vita.

Con buona pace del neoliberismo.

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PENSIONI: DALLA RENDITA DIFFERITA AL SISTEMA DI SOSTEGNO ALLA TERZA ETA’

Pubblichiamo una riflessione sul tema del sistema pensionistico inviataci da Maurizio Franca, uno dei sottoscrittori dell’appello.

Il principio di ogni sistema pensionistico attuale è quello di accantonare parte del proprio reddito da lavoro per poter avere un sostegno nell’ultima parte della vita in cui siamo fuori dal sistema produttivo.

Salvo casi di evasione fiscale, il sistema pensionistico fino ad oggi è finalizzato a garantire condizioni economiche simili a quelle che abbiamo avuto durante la nostra attività lavorativa: chi ha avuto un significativo reddito nel lavoro potrà continuare a vivere in modo sereno, mentre chi ha dovuto cavarsela con lavori saltuari e/o poco pagati, continuerà a vivere in modo precario.
Ma il futuro appare ancora più complesso perché sembra ampliarsi la platea delle persone che arriveranno all’età pensionabile con un accantonamento esiguo.
Il problema infatti che si pone sempre di più è quello della precarietà del lavoro che non sembra in grado, per una parte consistente dei futuri pensionati, di creare quella rendita adeguata a offrire risorse economiche sufficienti a garantire una prosecuzione dignitosa della propria esistenza.
Non potendo disporre di risorse significative per poter affrontare l’emergenza che si creerà, occorre pianificare una rivoluzione del sistema pensionistico da realizzare progressivamente nei prossimi 20/30 anni finalizzata ad effettuare una progressiva traslazione dal concetto di pensione come rendita differita a pensione come sostegno alla dignità delle persone nella cosiddetta “terza età”.

Parliamo di rivoluzione e di uno sviluppo decennale del processo di cambiamento perché dobbiamo essere in grado di modificare tutto l’assetto legislativo che oggi impedisce di effettuare interventi immediati se questi vanno a toccare i cosiddetti “diritti acquisiti”, salvo che si tratti di interventi emergenziali, coerenti e limitati nel tempo.
Dovremo quindi pensare ad un periodo piuttosto lungo che preveda una progressiva mutazione della finalità dei contributi pensionistici versati che li trasformi in accantonamenti collettivi necessari a creare risorse per sostenere la comunità nel suo insieme, offrendo così a tutti la possibilità di avere risorse economiche per vivere serenamente la parte restante della propria esistenza.
Non parleremo quindi più di pensioni, ma di un sostegno di dignità che decresce fino ad azzerarsi in presenza di rendite da capitale oltre un certo importo (es. 15.000 annui netti), tenendo presente che già oggi per una parte delle pensioni si parla di pensioni “minime” o di “reversibilità” che non scaturiscono direttamente dai contributi versati da quel contribuente.
Le somme disponibili che eccedono questa prima distribuzione andranno ad aumentare il sostegno in proporzione alla contribuzione che ogni persona avrà dato durante la sua vita lavorativa continuando a creare meccanismo di riduzione in presenza di rendite aggiuntive fino al possibile azzeramento e prevedendo comunque un importo massimo netto mensile (es. € 2.000). Cioè l’idea è di mantenere una certa differenziazione in considerazione dei contributi versati, ma ponendo un limite massimo e prendendo in considerazione anche eventuali altri redditi che vanno a ridurre il sostegno “pubblico”.

Per la definizione del sostegno minimo, di quello massimo e delle riduzioni in presenza di altri redditi sarà auspicabile definire delle attività di adeguamento nel tempo in considerazioni delle proiezioni future sviluppate in base all’andamento dell’economia e delle aspettative di vita al fine di garantire la sostenibilità del sistema nel tempo.
Teniamo presente che persone che hanno goduto di redditi elevati che in base al sistema attuale avrebbero “diritto” ad un sostegno più elevato potranno contare comunque su capitali finanziari capaci di arrotondare la propria capacità di spesa.

Se parliamo di numeri prendendo come riferimento i dati sulle pensioni del 2015 che vedono un esborso di circa 280 mld., tenendo presente la consistente ricchezza privata detenuta dalle famiglie si può ipotizzare una ridistribuzione delle risorse verso il basso che permetta ai circa 8 mil. di pensionati che si trovano nella prima fascia (max € 501,89 al mese) di arrivare a € 700/800 euro. Calcoli più precisi si potranno fare avendo a disposizione i dati sulle ricchezze finanziarie e patrimoniali.
La rivoluzione ipotizzata deve necessariamente rappresentare un tassello di una rivoluzione sistemica che rimette al centro l’interesse per il sostegno dell’intera comunità in termini di dignità, solidarietà, sussidiarietà in cui altri importanti temi da trattare con lo stesso approccio devono essere il sistema fiscale, il mercato del lavoro, la sobrietà retributiva, servizi essenziali pubblici e la compatibilità ambientale del nostro sviluppo.

Maurizio Franca

 

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Decrescita non è recessione. TAV non è progresso

Sono arrivato alle 17 in una piazza Castello già gremita, tant’è che ci incitavano ad avvicinarci verso il palco per consentire di entrare a coloro che stavano arrivando. Ero partito alle 14,15 e la parte finale del corteo aveva appena lasciato la piazza del concentramento iniziale, davanti alla vecchia stazione di Porta Susa. L’ingresso in piazza Castello riservava un colpo d’occhio incredibile a chi, salendo su uno dei blocchi di cemento utilizzati per impedire il transito delle automobili, riusciva a superare l’altezza media delle persone che già la riempivano, a sinistra tra la facciata di Palazzo Madama e la cancellata di Palazzo Reale, a destra tra la fiancata di Palazzo Madama e i portici oltre via Roma. Alle spalle, per tutta la lunghezza di via Pietro Micca che si riusciva a vedere, la strada era piena di persone che continuavano ad affluire. Mi ero fermato a metà del percorso per oltre 40 minuti, aspettando d’inserirmi nello spezzone del corteo in cui stavano sfilando gli iscritti al Movimento per la Decrescita Felice. Era dietro uno striscione artigianale preceduto da un furgoncino in cui due DJ sparavano canzoni ballabili di cantautori italiani che inducevano i manifestanti a procedere a passo di danza.

Davanti a me erano passati gruppi di persone che nel loro insieme rappresentavano le varietà sociali, culturali, politiche del nostro popolo: donne e uomini di mezza età, piccola borghesia, operai e pensionati (molti dei quali incontrati in altri cortei tanti anni fa, dalle fisionomie ancora riconoscibili, invecchiati senza perdere i loro ideali), giovani di tutte le fogge, colorati, sorridenti ed eccitati come quando si va in gita, coppie con bambini in carrozzina, bambini che facevano giochi in comune, militanti politici di sinistra-sinistra con le loro bandiere rosse variamente personalizzate, sindacalisti della CGIL e dei Cobas, militanti di associazioni ambientaliste, tante tante bandiere No Tav che sventolavano o indossate come scialli e mantelli, slogan creativi ma non aggressivi, una banda musicale, un altro furgoncino con la musica.

Insomma una grande festa popolare, una gioiosa testimonianza di quel settore decisivo della nostra gente non appiattita dalla smania del consumo e della sua ostentazione, non omologata sulla spinta nevrotica della competizione interpersonale, non annoiata nei riti del passatempo ma creativa anche nelle minime cose della vita, con un’idea di progresso diversa da quella della potenza tecnologica e del dominio sulla natura. Lasciavano intravedere anche loro i loro luoghi comuni, quel bisogno di sentirsi parte di un gruppo che induce al conformismo sulle idee che lo identificano. Li percepivi uniti dalla distanza che li separava dal modo di vivere di coloro che, qualche decina di metri più in là, affollavano nelle vie commerciali attirati dall’euforia dei consumi natalizi. Li percepivi anche divisi dall’indeterminatezza delle prospettive di futuro a cui tendevano, ma non competitivi tra loro. Trasmettevano nelle loro differenze il senso di un rifiuto determinato e comune della prospettiva di futuro devastante indicata dalla scelta del TAV. E il desiderio confuso di una prospettiva alternativa di cui immaginavano connotati differenti, ma ancora indeterminati. E forse alla lunga compatibili. Due pulsioni che non trasmettevano ansia, ma tranquillità. Tutti i negozi erano aperti. Gli avventori dei bar lungo il percorso sedevano come ogni giorno festivo ai tavolini sotto i portici nel tiepido pomeriggio di una giornata invernale. Senza pensare quanto fosse gelido l’inverno a Torino venti anni fa. Ignari della drammaticità di questo cambiamento.

Nel gruppo dei sostenitori della decrescita una ragazza innalzava un cartello in cui ho ritrovato quello che per me era il senso della manifestazione: Decrescita non è recessione. TAV non è progresso.

Maurizio Pallante