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1 maggio: di quale lavoro utile abbiamo bisogno

Non manca il lavoro, manca l’occupazione utile che potrebbe creare una vera ripresa economica per il nostro Paese e farci uscire dall’attuale situazione. Eppure di esempi reali ne abbiamo anche qui in Italia.

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Altro che la guerra vecchi contro giovani raccontata dai giornali. Il conflitto che emerge dalla brexit non è generazionale, ma di classe. E per non farlo esplodere dobbiamo saperlo vedere

Andrea Coccia, Linkiesta, 29 Giugno 2016

 

È passata quasi una settimana dal referendum britannico sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa e, tra tutte le notizie false, le interpretazioni sbagliate, gli allarmismi, le esagerazioni e le non comprensioni di cui è stato vittima il mondo del giornalismo italiano e internazionale ce n’è una che sta diventando un pericoloso ritornello: quello che vede dietro la sconfitta del Remain e la vittoria del Leave un conflitto generazionale.

Il campo di battaglia sarebbe questo: da una parte le vecchie generazioni, quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni, i nati tra la battaglia della Somme e l’omicidio di Kennedy; dall’altra, le generazioni più giovani, quelle nate dai mesi della contestazione fino alla fine degli anni Ottanta. Sul ring, secondo tantissimi analisti, si sono sfidati i Babyboomers e la Generazione Erasmus. I genitori contro i loro figli. Vecchi contro giovani.

«Per un ragazzo di Londra, l’Europa è la fidanzata spagnola con cui ha amoreggiato durante l’estate del corso Erasmus a Barcellona. Per la vecchietta di Bristol citata dal capo degli ultrà nazionalisti Farage, l’Europa è il migrante nigeriano che attraversa la Manica per togliere il lavoro al figlio inglese della sua vicina ». Lo ha scritto sabato 25 giugno il direttore creativo de La Stampa Massimo Gramellini, uno a caso tra coloro che, non appena il dato ha iniziato a circolare, si sono aggrappati con le unghie ai paramenti del carro dei fini analisti, dei sociologi, degli scienziati politici.

«Ha vinto la vecchietta di Bristol», conclude laconico e retorico Gramellini, «perché ci sono più vecchiette che ragazzi, in questa Europa che non fa più bambini». Hanno vinto i vecchi. E pare veramente che la guerra civile generazionale sia veramente arrivata nelle case degli inglesi, almeno a leggere alcuni articoli del Guardian, che a distanza di quasi una settimana stanno ancora cavalcando quel discorso. Giusto martedì è uscito un articolo dal titolo che non lascia spazio alle libere interpretazioni: «Family rifts over Brexit: ‘I can barely look at my parents’», che in Italiano suona così: «Famiglie spezzate sulla Brexit: “Non riesco quasi a guardare i miei genitori”».

Eppure i fini analisti, i sociologi improvvisati e gli arguti scienziati politici di queste ore hanno preso un abbaglio che manco san Paolo sulla via di Damasco. E abbagliati si sbaglia, e qui lo sbaglio, oltre che macroscopico nel metodo, ha una portata pericolosa.

Questa storia, infatti, è falsa come una banconota da 30 euro. Primo, perché non esiste nessuno dato reale che può indicare la percentuale di voto per fasce d’età. Nessuno. I dati che sono stati usati per costruire questa storia della lotta generazionale sono il risultato di un’indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, ovvero una settimana prima del voto. E sapete quanto è largo il campione degli intervistati da YouGov? 1652 persone, di cui, gli over 65 erano 73.

Ricapitolando: a partire da un sondaggio fatto una settimana prima del voto su 1652 persone, i giornali di mezzo mondo stanno gridando al conflitto generazionale come a una guerra civile che potrebbe trasformare i salotti dei nostri genitori in campi di battaglia. Molto bene, ma non è verificabile in nessun modo. Il che fa di quei dati e di tutte le analisi che hanno generato un mucchio di roba inutile.

I discorsi di questa portata si fanno sulla realtà, non sulle speculazioni statistiche. E qui l’unica realtà consistente sono i dati ufficiali, quelli reali, quelli provenienti dai seggi dopo le operazioni di conteggio dei voti. Sono questi gli unici sui cui si possono basare ragionamenti di tale portata. Sono questi che possono essere interpretati a livello sociologico, confrontandoli con dati precedenti, per esempio, e comparandoli tenendo conto dei dati socio economici dei bacini elettorali che quei dati hanno generato. Il Guardian, da questo punto di vista, ha fatto un ottimo lavoro di sintesi grafica del voto.

Ne emergono dati interessanti che dimostrano — come mostrano i grafici del Guardian — come gli assi che sembrano aver condizionato più le decisioni degli elettori sono, nell’ordine, il livello scolastico, lo status sociale e la ricchezza procapite.

 

Capitale scolastico, capitale sociale, capitale economico. Guarda caso esattamente le categorie usate da Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese, per descrivere le dinamiche tra le classi sociali negli ultimi decenni del Novecento. Classi sociali, non classi di nascita.

 

Qualche esempio: a Londra, dove ha vinto bene il Remain, il Leave ha prevalso nei quartieri della working class dell’East London, «a Havering, Barking e Dagenham», scrive il Guardian e continua: «a Bexley e in molte aree della zona dell’estuario del Tamigi». Storicamente quelle sono zone labour, e alle ultime elezioni hanno visto un aumento del bacino pro Farage. È la working class. E, anche a Londra, ha votato Leave.

Un altro esempio: in città produttive come Manchester e Liverpool, il voto per il Remain ha prevalso nelle zone centrali, quelle più ricche e borghesi della middle class, mente il Leave ha vinto nelle periferie. Ancora una volta, i luoghi della working class. Stesso discorso anche per città come Birmingham, Leeds e Sheffield. Dinamica che si accentua nei centri operai, nel nord dell’Inghilterra, dove città come Doncaster e Middlesbrough il Leave ha vinto con percentuali superiori al 60 per cento.

Il discorso che emerge da queste analisi non c’entra niente con le età dei votanti. È un altro. E ci dice che, se veramente vogliamo fare i sociologi e cercare di capire le dinamiche del voto britannico, dobbiamo smettere di pensare, come fa Gramellini, ai ragazzi della generazione Erasmus, quelli con la fidanzatina spagnola, che sanno le lingue e sono cosmopoliti, che vengono sconfitti dai vecchi conservatori che non hanno visto il mondo. Per capire il voto britannico e trarre qualche lezione sul futuro della nostra Europa, infatti, il discorso che ci tocca fare riguarda un conflitto tra classi.

Owen Jones, columnist del Guardian, ha scritto: «Questo, che è forse l’evento più drammatico avvenuto in Gran Bretagna dalla fine della guerra, è stato, sopra ogni cosa, una rivolta della working class. Può darsi che non sia stata esattamente la rivolta della working class contro l’establishment politico, così come molti di noi pensano, ma è innegabile che questo risultato sia stato raggiunto grazie al sostegno dei voti di una working class alienata e furiosa».

Alienazione. Rabbia sociale. Conflitto di classe. Esattamente quella roba che negli ultimi trent’anni abbiamo cercato di seppellire sotto terra, come gli indiani con le asce di guerra, ma che sta tornando, anzi, non se n’è mai andato. Un fantasma si aggira per l’Europa, scrivevano una volta due che l’avevano vista lunga. Ecco, sono passati 150 anni, ma quel fantasma, forse, è ancora lì. E non è il caso di aspettare che prenda coscienza da solo. Perché quello che potrebbe succedere, non piacerebbe a nessuno.

 

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Reddito incondizionato. Riflessioni di Vincent Cheynet

Credo sia utile far conoscere in Italia queste riflessioni critiche sul reddito di cittadinanza, presentate da Vincent Cheynet in un video su You Tube. Le sue argomentazioni sono molto stimolanti, ma sarebbe utile integrarle con una proposta finalizzata a ridurre il numero dei disoccupati, soprattutto tra i giovani.

Questa piaga, che amareggia la vita di una percentuale inaccettabile di persone per periodi di tempo sempre più lunghi, deriva dal fatto che l’orario di lavoro di 8 ore è rimasto immutato da quasi un secolo (in Italia è stato introdotto nel 1923), mentre le innovazioni tecnologiche hanno accresciuto in modo straordinario la produttività, riducendo al contempo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto.

Questo processo, se non è accompagnato da una riduzione dell’orario di lavoro, comporta un aumento dell’offerta di merci e una contestuale riduzione della domanda, perché soltanto gli occupati ricevono una retribuzione che li mette in condizione di acquistare le merci che vengono prodotte. Oltre la sofferenza di un numero crescente di persone che non riescono a soddisfare le loro esigenze vitali autonomamente, l’aumento della produttività senza un aumento dell’occupazione è la causa della crisi iniziata nel 2008 e ancora ben lungi dall’essere risolta, o quanto meno attenuata. Poiché, a mio modo di vedere, le argomentazioni di Vincent Cheynet sono culturalmente fondate, l’unica alternativa per aumentare il numero delle persone che si guadagnano dignitosamente la vita col loro lavoro è una drastica riduzione dell’orario di lavoro.

Questo sarebbe anche un modo molto efficiente, oltre che equo, di aumentare la domanda e, quindi, di attenuare la crisi. Ma si scontra con la remora culturale da parte degli occupati ad accettare una riduzione del loro orario di lavoro, non solo perché aprirebbe inevitabilmente una discussione sulla riduzione delle loro retribuzioni, ma soprattutto perché una società che identifica il benessere con la crescita della produzione tende ad appiattire gli esseri umani sulla dimensione di produttori e consumatori di merci, riducendo l’importanza della creatività, dell’arte, delle relazioni umane, della spiritualità, della conoscenza disinteressata.

In questo contesto la riduzione dell’orario di lavoro può essere percepita soltanto come una diminuzione del tempo impegnato nelle attività che danno un senso alla vita, come una riduzione della propria realizzazione esistenziale e della propria importanza sociale, mentre l’aumento del tempo in cui non si svolge il ruolo di produttore di merci o di fornitore di servizi non può che essere considerato un aumento del “tempo libero”, del tempo in cui ci si distrae, ci si riposa, o si cerca di “ammazzare il tempo” con qualche sottospecie di lavoro o di hobby. Non come un aumento del tempo disponibile per svolgere altri tipi di attività, non lucrative, ancora più importanti delle attività finalizzate alla sopravvivenza e alla soddisfazione delle esigenze materiali.

La definizione del paradigma culturale della decrescita non può prescindere dall’affrontare il tema del lavoro. Queste riflessioni di Vincent Cheynet costituiscono un importante contributo da approfondire.

Maurizio Pallante, 15 dicembre 2015

 

 

 

Buongiorno, mi chiamo Vincent Cheynet, sono il caporedattore del mensile francese La Décroissance. Sono anche l’autore di un nuovo saggio intitolato Décroissance ou décadence (Decrescita o decadenza), che è stato pubblicato nel 2014 alle edizioni Le Pas de côté.

Qui vorrei fare un chiarimento su un argomento esterno alla decrescita, che affronto nel mio libro. Questo argomento è il “reddito incondizionato”, definito anche “reddito di cittadinanza” o con altre denominazioni. Ce ne sono molte per indicarlo. Abbiamo visto negli ultimi anni alcuni attivisti che hanno cercato di inserire questa rivendicazione nel mondo dell’obiezione alla crescita presentandola come una sorta di chiave di volta della decrescita.

La rivendicazione di un “reddito incondizionato”, cioè di uno stipendio pagato per tutta la vita dallo Stato, sia se si scelga di lavorare o no, trova un’eco in alcuni attivisti di sinistra, tra gli ambientalisti, gli “alter-mondialisti”, ma anche di destra e fino alla “destra della destra”. Il papa dei “neo-pagani”, Alain de Benoist, ha dichiarato che questa idea “merita di essere studiata da vicino”. E le ha dedicato un approfondimento nel numero di gennaio 2014 della sua rivista Eléments (Elementi).

Presentata ingenuamente o abusivamente da alcuni attivisti con le connotazioni di un’idea di “sinistra”, questa rivendicazione sembra, in realtà, totalmente trasversale allo spartiacque tradizionale. Così l’assemblea costituente del “Movimento francese per un reddito di base” si è svolta sotto la direzione congiunta di una personalità come Patrick Viveret, classificato tra gli intellettuali alter-mondialisti, e quella di Christine Boutin, presidente del “Parti chrétien-démocrate (Partito Cristiano-democratico), di destra.

In effetti, questo progetto di reddito incondizionato ha le sue radici molto più nel pensiero liberale e ultra-liberale, come vedremo.

Recentemente, Laurent Joffrin, il famoso (in Francia) direttore del quotidiano Libération si è entusiasmato per questa idea di “reddito incondizionato”, sotto l’influenza di una stella ascendente dell’ultra-liberalismo in Francia, Gaspard Koenig, che è il creatore del think tank liberale “GenerationLibre”(Generazione libera).

Il 22 luglio 2015, Laurent Joffrin ha spiegato nel suo giornale che la proposta è stata “originariamente concepita da Milton Friedman e destinata non solo a eliminare la grande miseria, ma anche di riformare da cima a fondo uno Stato-provvidenza che questi intellettuali considerano obeso e inefficace”. Ricordiamo che Milton Friedman è uno dei più famosi esponenti del liberalismo economico. È il fondatore della Scuola di Chicago, che ha diffuso le idee ultraliberali in tutto il mondo.

Ma Libération non è l’unico giornale a difendere questa idea di reddito incondizionato. Dall’altro lato della Manica, il Financial Times, cioè il giornale dell’alta borghesia inglese, si domandava nel numero del 5 Maggio 2015 come potrebbe essere un programma “conservatore radicale”. La sua risposta: gettare alla spazzatura tutte le prestazioni sociali e sostituirle con un reddito minimo per tutti di 8.000 sterline all’anno cioè circa 11.000 euro. Sarebbe la fine dei contributi sociali, la fine della sicurezza sociale. La privatizzazione completa della scuola. Eccetera. Dunque è molto logico che troviamo come promotori del reddito incondizionato dei personaggi del liberalismo e ultra-liberalismo come Alain Madelin (famoso in Francia per essere un politico dell’ultra-liberalismo) e il suo figlio spirituale in Francia Gaspard Koenig, o negli Stati Uniti Milton Friedman. Però questa proposta trova dei sostenitori anche nella destra moderata in personalità come Dominique Villepin e Christine Boutin, e nei grandi media, come abbiamo visto.

E qui veniamo alla decrescita. Nel mio nuovo saggio, ho scritto a questo proposito: «Il ruolo dei sostenitori del reddito e della gratuità incondizionati sarà di sovvertire ciò che vi è di sovversivo nella decrescita, cioè la possibilità di svezzamento: tenteranno di rivoltare la decrescita contro sé stessa per farne il supporto di una teoria del ritorno alla fase orale. È sintomatico questo mantenimento nell’età del seno. Di connotazione matriarcale, trova in queste condizioni un terreno fertile per svilupparsi. È altrettanto rivelatore che i libertari del Parti pirate (Partito pirata) abbiano subito adottato questa proposta. Rimanere un geek mantenuto in vita dalla poppata di un papà e una mamma odiati, questo programma non poteva che entusiasmare questi cyber umani».[1] Secondo questa prospettiva, non è sorprendente che un “politologo” deleuziano, politologo tra virgolette molto grandi, legittimi costantemente questa rivendicazione nei suoi interventi in nome del “ricordo del seno della madre”. Alain Valterio, psicologo junghiano, osserva: “Quando si sogna un altro mondo, è sempre l’ideale di un mondo più materno che viene in mente.” Questa rivendicazione, in nome del “ricordo del seno della madre ” rimanda direttamente alle tesi da Zbigniew Brzezinski e della Commissione Trilaterale. Ecco quanto si può leggere su Brzezinski e la Commissione Trilaterale su Wikipedia: « La parola tittytainment è stata utilizzata nel 1995 dal democratico Brzezinski, membro della Commissione Trilaterale ed ex consigliere di Jimmy Carter, nelle conclusioni del primo Stato del Forum mondiale al Fairmont Hotel nella città di San Francisco. L’obiettivo dell’incontro era analizzare lo stato del mondo, suggerire degli obiettivi e degli obiettivi desiderabili, proporre delle attività iniziali per raggiungerli e definire politiche globali per ottenere la loro attuazione. I dirigenti riuniti a San Francisco (Gorbaciov, Bush, Margaret Thatcher, Bill Gates, Ted Turner, eccetera), sono arrivati alla conclusione che “nel prossimo secolo, due decimi della popolazione attiva basterebbero a mantenere l’attività dell’economia globale”. Il problema che si porrà allora sarà il modo di governare l’80 per cento della popolazione restante, superflua nella logica liberista, priva di lavoro e di opportunità di qualsiasi tipo, una condizione che alimenterà una frustrazione crescente. È qui che è entrato in gioco il concetto proposto da Brzezinski. Brzezinski ha proposto il “tittytainment” una miscela di alimento fisico e psicologico che addormenterebbe le masse e controllerebbe le loro frustrazioni e proteste prevedibili. Lo stesso Brzezinski spiega l’origine del termine tittytainment, come una combinazione delle parole “tit” (“seno” in inglese) o “titillate” (“stuzzicare per eccitare gentilmente” in inglese) ed “Entertainment” (intrattenimento), che in nessun caso , deve essere interpretato con una connotazione sessuale, ma invece come allusione all’effetto soporifero e letargico che l’allattamento materno produce nel bambino quando poppa». Ecco, relegare una gran parte della popolazione davanti agli schermi in un mondo virtuale, fornendole l’imbeccata minima grazie a questo reddito incondizionato si inserisce perfettamente in questa logica. È già purtroppo in opera per un segmento crescente della popolazione. È inoltre buffo osservare le persone  più pronte a volere la distruzione di uno Stato designato come “intrinsecamente totalitario”, reclamare il suo seno per tutta la loro esistenza. Interpellato su questa idea, il filosofo anti-liberal Jean-Claude Michea sostiene che questa proposta di reddito incondizionato non potrebbe “certamente essere il fondamento etico di una società socialista.” (La Décroissance, numero 100, giugno 2013).

Nel suo giornale Fakir, il giornalista della “sinistra della sinistra” François Ruffin ricordava che «anche noi siamo attaccati a questa “moralità politica”: ” Tu non consumerai più di ciò che produci”, o ancora, come ha scritto Michel Clouscard: “Non lavorate mai”, che equivale a dire chiaramente “Lasciate o fate lavorare gli altri”. E François Ruffin metteva in guardia che: «il reddito di base – o anche la sua rivendicazione – non scavi ancora più il divario tra occupati produttori di beni e servizi (nel terzo mondo o qui), e una piccola borghesia culturale consumatrice, affinché questo passo avanti serva all’emancipazione di tutti e non sia il supporto all’edonismo di una classe agiata». (Fakir, numero 64, Febbraio 2014). In effetti, il padre della critica del liberal-libertarismo, il filosofo Michel Clouscard, vicino al Partito comunista, presentava questo tipo di rivendicazione come il prodotto dell’antropologia capitalista: voler consumare senza produrre, ovvero l’aspirazione della piccola borghesia a elevarsi nelle classi sociali raggiungendo l’aristocrazia oziosa e la grande borghesia che vive di rendita. François Brune, il “papa dell’anti-pubblicità” e collaboratore di Le Monde Diplomatique osserva : «Ciò che mi stupisce, di tutti coloro che reclamano un “reddito universale” è l’idea che ho il diritto a tutti i miei diritti senza dovermi preoccupare di tutti i miei doveri. La giusta nozione sarebbe di definire ciò che in cambio di un “reddito universale” dovrei fornire come lavoro universale! Sotto la copertura di un’opinione progressista, questi utopisti estendono a tutti l’ideologia del “vivere di rendita” che caratterizzava l’ambizione dei borghesi del 19° secolo! Ogni uomo che vuole vivere degnamente desidera meritare col suo lavoro i mezzi della sua sussistenza: è il disprezzo di considerare la possibilità di essere un assistito a vita». Ci sarebbe ancora molto a dire su questa rivendicazione portata da «ribelli» per raggiungere la «classe agiata» esente dal dovere di produrre, che vive da parassita sulle spalle delle classi lavoratrici e della natura. Questa aspirazione è stata l’argomento dell’economista e sociologo statunitense Thorstein Veblen (1857-1929) nel suo capolavoro The Theory of the Leisure Class (Teoria della classe agiata) pubblicato nel 1899. La presenza di Patrick Viveret, teorico e messaggero dei famosi “Creativi culturali”, tra i più ferventi sostenitori di questo progetto di reddito incondizionato è ovviamente anche molto rivelatrice.

Il movimento operaio ha sempre sacralizzato il lavoro – come i tempi di riposo per altro – e non era tenero con gli oziosi. Per documentarlo, ricordiamo soltanto qualche parola dell’Internazionale: «L’ozioso andrà alloggiare altrove. È della nostra carne che essi si nutrono». È quindi particolarmente buffo sentir utilizzare la vecchia retorica stalinista di “deriva di destra” da parte di alcuni attivisti del reddito incondizionato che respingono così ogni obiezione al loro progetto. I tentativi di intimidazione, il terrorismo intellettuale, procedono speditamente. Sono certo l’antitesi di ciò che deve essere il dibattito, la dialettica, soprattutto per la decrescita.

Non di meno è vero che un visionario precursore della decrescita come Andrée Gorz è stato un sostenitore di questa idea di reddito, come è stato cieco al pericolo del condizionamento digitale. Essere fedeli a queste grandi menti critiche, è saper essere critici di fronte al loro lavoro, non santificarli e limitarsi a interrogarli. Per farlo, è sufficiente convocare altri grandi precursori della decrescita come Tolstoj, Gandhi, Lanza del Vasto, eccetera, per i quali la difesa del lavoro era al centro della loro opera. Infatti, il lavoro non è solamente un tripalium, cioè uno strumento di tortura (da cui derivano il francese travailler, lo spagnolo trabajar e nei dialetti italiani il siciliano travagghiari e il sardo traballari, nota del traduttore), è anche un mezzo di realizzazione di sé, di realizzazione sociale.

Che dire per concludere ? I grandi media hanno bisogno di due grandi rappresentazioni per denigrare e squalificare la decrescita. La prima è rappresentare gli obiettori alla crescita come una sorta di adepti di un revival hippy che vivono nudi nei boschi. La seconda è quella di ideologi avulsi da ogni realtà. Di conseguenza le poche volte che si volgono verso la decrescita, lo fanno verso questi tipi di rappresentazione. Chiunque capirà bene il perché, dato il loro inquadramento economico attuale e gli interessi per cui lavorano. Questa idea demagogica di un reddito incondizionato, soprattutto in piena crisi del debito, è una manna dal cielo per loro, come per tutti i detrattori della decrescita, che fanno di tutto per presentarla come una sorta di coalizione d’irresponsabili infantili.

[1]              Geek: è un termine di origine anglosassone che indica una persona eccentrica o non collocabile nella massa, con una forte passione o esperienza nel campo tecnologico-digitale o in un altro speciale campo di interesse, che lo porta a essere percepito come troppo intellettuale.