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Destra e sinistra addio.

Il 21 gennaio 2016 esce il mio ultimo libro “Destra e sinistra addio. Per una nuova declinazione dell’uguaglianza, Lindau, Torino 2016.

E’ un lavoro a cui tengo molto e su cui desidero confrontarmi seriamente con chiunque desideri farlo in modo costruttivo.

Sarò certamente impegnato in giro per l’Italia per diverse presentazioni già stabilite e c’è ancora spazio per chiunque desideri organizzare una presentazione, una conferenza, un confronto nella città in cui vive.

Per darvi un’idea del lavoro che ho scritto, di seguito trovate la scheda del libro.

 

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione francese nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate. Negli ultimi due secoli il confronto politico tra le concretizzazioni storiche di queste due posizioni si è svolto a partire da una comune valutazione positiva del modo di produzione industriale, che sia la destra, sia la sinistra considerano un progresso rispetto alla precedente fase storica perché, grazie ai progressi  scientifici e tecnologici, ha accresciuto la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca d’abbondanza senza precedenti. La dialettica tra la destra e la sinistra si è articolata su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso la “mano invisibile del mercato”, come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra?

In questo libro si constata innanzitutto che, dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto è cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa definitivamente con la vittoria della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino. Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci la destra è strategicamente vincente. Ma la sconfitta della sinistra è la sconfitta della sua interpretazione storica dell’uguaglianza, non dell’idea di uguaglianza. Tuttavia, negli anni in cui si realizzava la vittoria strategica della destra, la crescita economica  ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle la quantità crescente di risorse di cui ha bisogno per continuare a crescere, ha superato le capacità del pianeta di metabolizzare gli scarti e le emissioni dei processi produttivi, ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo che contengono le riserve di materie prime e di energia, ha iniziato a suscitare nei paesi meno industrializzati ondate migratorie incontenibili, si è bloccata nei paesi industrializzati dal 2008 e sta facendo pagare alle classi lavoratrici i costi dei tentativi di ripresa.

Per attenuare le cause di questi processi distruttivi è necessario in primo luogo sviluppare tecnologie più evolute, finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui si trasformano le materie prime in beni, in modo di ridurne il fabbisogno e di ridurre le emissioni non metabolizzabili dalla biosfera. Occorre avviare una decrescita selettiva, fondata sulla riduzione degli sprechi e dell’impronta ecologica dell’umanità. Se si abbandona l’ideologia della crescita, che ha accomunato la destra e la sinistra, è anche possibile ridare forza alla tensione etica finalizzata a realizzare una maggiore eguaglianza tra gli esseri umani, liberandola dall’interpretazione perdente che le è stata data dalla sinistra e articolandola in maniera diversa. In secondo luogo è necessario ridurre il ruolo assunto dal denaro riscoprendo la possibilità di autoprodurre una parte dei beni di cui si ha bisogno e forme di economia basate sul dono reciproco del tempo. La riduzione dell’importanza del denaro comporta una rivalutazione della spiritualità, della creatività e del valore delle relazioni basate sulla solidarietà.

Del resto, come ha avuto un inizio storico, non si può escludere la diade “destra-sinistra” abbia fine con la fine della possibilità di continuare a far crescere la produzione di merci. In tutti i capitoli del libro, e in particolare nell’epilogo, vengono fornite indicazioni per intraprendere un percorso culturale e politico che consenta di aprire una nuova fase della storia, in cui un’economia non più vincolata alla distopia della crescita infinita consenta di ridurre le diseguaglianze non solo tra gli esseri umani senza farne pagare i costi alle generazioni future, ma anche tra la specie umana e le altre specie viventi. Ne risulta una critica alla gestione della destra di questa fase storica, ben più radicale di quella che fa la sinistra proprio perché non rientra nelle categorie culturali della sinistra. Un’attenta analisi dell’enciclica “Laudato sì”, posta in appendice all’ultimo capitolo suggerisce che, probabilmente, questo cammino è già iniziato.

 

 

Indice

 

Prologo

 

Capitolo 1. Destra e sinistra: qualche richiamo storico

 

Capitolo 2. La destra, la sinistra e il modo di produzione industriale

 

Capitolo 3. La guerra ai contadini, agli artigiani, ai rapporti comunitari. L’estensione del proletariato                  e le migrazioni.

 

Capitolo 4. La destra, la sinistra e la crescita

 

Capitolo 5. Progresso, cambiamento, innovazione, sviluppo, modernità

 

Capitolo 6. Povertà e ricchezza

 

Capitolo 7. La religione è l’oppio dei popoli?

 

Capitolo 8. Chi non è di destra non può che essere di sinistra? Chi non è di sinistra non può che essere di destra? Il paradigma culturale della decrescita

 

Capitolo 9. Per una nuova declinazione dell’idea di uguaglianza. Scheda: La concezione del mondo espressa nell’Enciclica Laudatosi‘ di Papa Francesco.

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Decrescita e demografia

Sulla mia pagina FB recentemente è sorto un piccolo dibattito sulla necessità o meno di una decrescita demografica.

Su tale delicato argomento ho scritto in passato diverse cose che ho raccolto in un mio famoso e fortunato libro:

“La decrescita felice”, nuova edizione, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2009, pagg. 162-165

Qui di seguito riporto per tutti quanto voi l’estratto specifico. Spero possa servire per comprendere meglio la problematica e per aprire ulteriori piste di riflessione e ricerca.

 

“Se la preoccupazione per la crescita della popolazione mondiale è motivata dal fatto che comporta un consumo di risorse superiore alla capacità bioriproduttiva del pianeta, la decrescita della popolazione mondiale va perseguita in prima istanza nei paesi sviluppati, che hanno un’impronta ecologica pro capite molto superiore alla capacità bioriproduttiva del pianeta, e non nei paesi sottosviluppati, la cui impronta ecologica è molto più bassa. Si potrebbe obbiettare che in questi paesi è più alto il tasso di natalità, mentre in quelli è già basso. La domanda che ci si deve porre allora è per quale ragione ciò avvenga. A questo proposito occorre sgombrare il campo dalle interpretazioni culturali, che mettono l’accento sul maggior peso delle religioni nei paesi più poveri e arretrati, o meglio dell’oscurantismo religioso che ostacola le pratiche contraccettive, e sul basso livello d’istruzione che determina una ignoranza diffusa sia della fisiologia riproduttiva che delle pratiche contraccettive. Non che questi elementi non ci siano e non esercitino il loro peso, ma sicuramente una causa ben più importante è la consapevolezza dell’alta incidenza della mortalità infantile, che dipende dalla povertà reale, cioè dalla mancanza del necessario per vivere, per prevenire le malattie e per curarsi. La specie umana appartiene alla classe dei mammiferi e tutti i mammiferi generano un numero tanto maggiore di piccoli quanto più bassa è l’aspettativa che possano diventare adulti e procreare a loro volta per dare continuità alla specie. Quanto più alta diventa l’aspettativa della durata della vita, tanto più diminuisce il tasso di natalità. Non c’è religione o ignoranza che possano contrastare strategicamente questa tendenza, come dimostra la storia dei popoli occidentali nell’ultimo secolo, compresi quelli in cui il cattolicesimo è la religione dominante. Ma la possibilità di sopravvivenza dei piccoli dipende dal superamento della povertà reale, non monetaria, a cui i popoli sottosviluppati sono costretti dal fatto che la loro impronta ecologica pro capite è inferiore alla media perché l’impronta ecologica dei paesi sviluppati la supera, sottraendo loro ciò che è necessario per vivere. E ciò avviene non tanto perché a causa del loro egoismo e della loro insensibilità non si curano di sottrarre a chi non ha il necessario quanto serve per alimentare il loro superfluo e i loro sprechi, ma perché il sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci ha bisogno di un apporto crescente di risorse, altrimenti crollerebbe trascinando con sé nella rovina tutto il sistema sociale. Al contrario di quanto usualmente si pensa, non è vero che un’economia della decrescita non si può realizzare se non smette di crescere la popolazione mondiale, ovvero se non si riduce il tasso di natalità dei paesi sottosviluppati, mentre invece il tasso di natalità dei paesi sottosviluppati può smettere di crescere soltanto se l’economia dei paesi sviluppati non viene più finalizzata alla crescita. Non è la crescita demografica a impedire la decrescita economica, ma la crescita economica a impedire la decrescita demografica.

Affinché si riduca il tasso di natalità dei paesi con un’impronta ecologica pro capite inferiore alla media sostenibile dal pianeta, occorre che aumenti la loro aspettativa di durata della vita e, di conseguenza, la loro disponibilità di risorse. Affinché ciò avvenga senza aggravare l’insostenibilità causata dai paesi con un’impronta ecologica pro capite superiore alla media, occorre che l’impronta ecologica di questi paesi diminuisca. Affinché ciò avvenga senza causare uno sconvolgimento della loro organizzazione sociale e senza suscitare reazioni di massa negative, occorre uno sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui usano le risorse e un cambiamento profondo degli stili di vita in modo che la riduzione dell’impronta ecologica non comporti un peggioramento del benessere. Basta pensare che una parte significativa delle risorse utilizzate dalla percentuale dell’umanità con i consumi più alti non risponde a bisogni reali, ma alimenta sprechi che non sarebbe improprio considerare privi di senso, mentre invece un senso ce l’hanno perché sostengono la crescita economica aumentando sia l’offerta, sia la domanda di merci mediante il potere d’acquisto degli occupati nei settori dove si producono. Per sgombrare il campo dalle teorie che sostengono l’infinita espandibilità dei bisogni e si propongono di difendere la libertà di scelta degli acquirenti, basta prendere in considerazione gli sprechi senza alcuna utilità nei due settori strategici dei bisogni umani, l’energia e l’alimentazione, su cui sostanzialmente si basa il calcolo dell’impronta ecologica.

In relazione ai consumi energetici di fonti fossili, gli sprechi e le inefficienze in fase di trasformazione e negli usi finali ammontano almeno al 70 per cento. Raddoppiare l’efficienza nell’uso di queste risorse non presenta particolari difficoltà, per cui senza aumentare l’impronta ecologica è possibile raddoppiare il numero delle persone che ne possono disporre. Se a ciò si aggiungono le possibilità offerte dalle fonti rinnovabili, questo risultato si potrebbe ottenere anche con una riduzione dei consumi di fonti fossili. In relazione all’alimentazione tre sono i tipi di sprechi oggettivi che estendono l’impronta ecologica senza apportare alcuna utilità, creando anzi danni spesso irreversibili. In primo luogo nei paesi ricchi la quantità del cibo che si butta lungo la filiera che parte dalla produzione, passa attraverso la grande distribuzione e arriva ai consumatori, ammonta al 3 per cento del prodotto interno lordo. Secondo il rapporto Agrimonde dell’Inra (Institut National de la recherche agronomique), in questi paesi ogni giorno si buttano 800 calorie di cibo pro capite. Se così non fosse, tutti gli esseri umani potrebbero avere le 3000 calorie quotidiane necessarie al loro metabolismo. In secondo luogo l’agricoltura chimica e le filiere lunghe o lunghissime (sempre più spesso intercontinentali) hanno un’impronta ecologica tanto rilevante quanto inutile. Quanta energia brucia e che senso ha far arrivare da altri continenti cibi che possono essere coltivati nelle regioni in cui abita chi li utilizza? Altrettanto vale per il consumi di energia necessari a coltivare prodotti agricoli fuori stagione. In terzo luogo non bisogna dimenticare l’impronta ecologica dell’alimentazione carnea. Poiché il tasso di conversione delle proteine vegetali in proteine animali è molto basso e raggiunge il minimo nelle carni bovine dove è di 16 a 1, ovvero occorrono 16 proteine vegetali per ottenere una proteina animale, l’adozione di un regime alimentare vegetariano (più sano e meno nocivo per la salute umana) ridurrebbe l’impronta ecologica consentendo di vivere senza privazioni a 11 miliardi di individui, ben più dei 9 indicati dai demografi come il limite massimo che si raggiungerà nel 2050. Se prima di quella data la popolazione mondiale non si ridurrà in conseguenza di una riduzione dell’impronta ecologica dei popoli sviluppati che consenta di allungare le aspettative di vita dei popoli sottosviluppati.”

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Buon Natale

 

Da molti anni ho abolito nella mia vita la riduzione del Natale alla celebrazione di una frenesia consumistica senza senso, che non solo accentua la crisi ambientale e le ingiustizie nei confronti di chi non ha il necessario per vivere, ma per i cristiani, non per quelli che si limitano a dire di esserlo, assume anche una connotazione sacrilega. Ridurre l’anniversario dell’incarnazione di Cristo a un’occasione per esasperare i peccati capitali di una società che si fonda sull’avidità, sulla sopraffazione, sulla perdita del senso del limite, significa rafforzare il materialismo della vita di ogni giorno proprio quando si dovrebbe cogliere l’occasione per ridimensionarlo e restituire alla spiritualità la dimensione che le spetta nella vita umana.

Cosa significa fare gli auguri di Natale? Capisco augurare buon anno, ma non riesco a capire il senso di augurare buon Natale con un bigliettino, un sms, una mail, o un pacchetto regalo che si è cercato affannosamente affollandosi in strade piene di traffico, davanti a vetrine illuminate in maniera accecante, piene di oggetti che, quando questa celebrazione della follia sarà finita, verranno messe in vendita a metà prezzo. Scambiarsi gli auguri di Natale in questo contesto significa dirsi a vicenda, senza accorgersene: «Siamo dei babbei che si stanno facendo prendere in giro».

Per me trascorrere un buon Natale significa cogliere l’occasione per rinsaldare i rapporti comunitari, a partire da quelli familiari. Non una volta all’anno, come una parentesi all’interno di una vita dedicata principalmente al lavoro e al consumo, ma come il rinnovo annuale di una promessa reciproca a farli prevalere su tutte le pressioni che ci inducono a considerarli meno importanti del lavoro e del consumo. Come la conferma gioiosa e irridente di un patto di disobbedienza civile suggellato attorno a una tavolata e consacrato da una buona bevuta, laica, di vino. Così, del resto faceva Gesù, secondo quanto ci ha tramandato l’evangelista Matteo, 11,19: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco, è un mangione e un beone”». Da cui, ai tempi nostri, si può anche dedurre un invito a usare di meno l’automobile, come suggerito dallo striscione a lettere cubitali esposto da un oste di Alba (CN) fuori del suo locale: Guida poco devi bere.

Maurizio Pallante

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Rompere il cerchio crescita-migranti

I flussi di migranti che a rischio della vita, e pagando altissimi costi anche in denaro, attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste del nord-Africa e dell’Europa del sud, suscitano nell’opinione pubblica dei paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto dell’accoglienza che si traduce nella richiesta di riportarli nei luoghi da cui sono partiti o di usare la forza per impedire che partano.

La prima reazione è dettata da motivazioni religiose o da motivazioni politiche sostenute dalle frange più a sinistra della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che può essere innescata dall’arrivo di persone che non hanno nessuna risorsa per vivere e che l’istinto di sopravvivenza può indurre a tentare di tutto per riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe immotivata, ma qualche fondamento lo ha, viene ingigantita e strumentalizzata politicamente dai settori della destra più retriva. Ma né gli uni, né gli altri fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone fuggono dai luoghi in cui sono nate e si riversano nei paesi dell’Europa occidentale.

Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene perché non riescono più a ricavare da quei luoghi il necessario per vivere e, se non bastasse, sono diventati teatri di guerre tribali sanguinosissime e interminabili. D’accordo, ma perché non riescono più a ricavare da vivere dai luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati e perché quei luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le cause, non si può ovviamente nemmeno tentare di rimuoverle e se ci si limita a cercare di attenuarne le conseguenze, si può addirittura correre il rischio di rafforzarle. Le considerazioni che seguono sono un tentativo di dare una risposta a queste domande, risalendo dapprima velocemente alle cause remote, per poi svolgere altrettanto velocemente qualche riflessione sulle cause immediate.

La prima considerazione da fare è che le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che hanno finalizzato le attività produttive alla crescita della produzione di merci. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del settecento, quando in conseguenza di alcune leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono più a ricavare dalle loro terre ciò di cui avevano bisogno per vivere e furono costretti a emigrare nelle città, dove trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero reddito monetario che li metteva in condizione di comprare sotto forma di merci i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli ex-contadini, l’industria non avrebbe trovato non solo la manodopera di cui aveva bisogno per produrre merci, ma nemmeno un numero sufficiente di persone provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.

La crescita della produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un aumento costante dei produttori e consumatori di merci, che sono due facce della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto, ha sempre avuto bisogno di costringere, con la forza legale dello Stato integrata da forme di forza illegale, e contestualmente di convincere, con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, numeri crescenti di persone a passare dall’economia di sussistenza all’economia mercantile.

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del novecento), poi a livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del novecento), poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e dall’Africa. Per venire ai flussi migratori che hanno destato tanto allarme in questi giorni, l’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone, potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte».[1] Con una sintonia che potrebbe stupire, il dossier Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema, la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno fino a quando ce n’è bisogno. Cosa si può volere di più?

Nell’ultimo trimestre del 2015, in concomitanza con un’improvvisa accentuazione dei flussi migratori in diversi Paesi europei, si sono moltiplicati sui mass media gli interventi sui vantaggi che i migranti apportano alla crescita economica di questi Paesi, ai loro pensionati e al loro welfare state. A volte con argomentazioni in cui la malafede è troppo scoperta per essere consapevole: «Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060».[2] Ben peggio di un’ennesima conferma che il gran parlare d’accoglienza è un’ipocrisia: ai popoli ricchi serve che aumenti il numero dei rifugiati, di coloro che sono costretti ad andarsene dalle loro terre. Se gli Stati europei hanno questa esigenza, potranno adoperarsi per eliminare, o quanto meno ridurre, le cause che costringono i più poveri dei popoli poveri a intraprendere quei viaggi infernali che spesso si concludono con un naufragio? O faranno in modo di accentuarle? Brutto segno se di arriva a scrivere cose di questo genere, per di più in nome della solidarietà e dell’accoglienza. Per cortesia, lasciamo stare tutta questa retorica basata sui buoni sentimenti, sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma finisce col fare il cavallo di Troia di chi, invece, utilizza i migranti (che per lo più sono persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e braccia che potrebbero produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti.

Le migrazioni dai paesi non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che, per sostenere la crescita dei loro sistemi economici, i paesi industrializzati depredano i paesi non industrializzati delle loro risorse, istigano i popoli che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre comprandole per un tozzo di pane perché non esistono catasti, corrompono i loro governanti, li portano al potere d’imperio, li sostituiscono e li fanno uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi economici dei governi occidentali ai popoli in via di sviluppo per costringerli a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre li impoveriscono scientificamente, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare davanti ai loro occhi la possibilità di accedere alle meraviglie tecnologiche dei paesi industrializzati. Se i migranti se ne vanno dai loro paesi dove non riescono più a vivere e contribuiscono col loro lavoro a far crescere il prodotto interno lordo dei paesi industrializzati, contribuiscono ad accrescere la ricchezza di questi paesi e ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per procurarsele i paesi industrializzati continueranno a rapinarle ai paesi non industrializzati, continuando a utilizzare tutte le forme di violenza e sopraffazione con cui sottomettono i popoli poveri e accentuano la loro povertà inducendoli a emigrare per vivere. Le migrazioni tendono ad autoalimentarsi. Se non si preoccupano di intervenire sulle cause, le organizzazioni umanitarie in cui si impegna la componente più generosa della nostra società, contribuiscono a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità nei confronti dei più derelitti.

Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e, pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause è un dovere intellettuale. La comprensione delle cause che attivano i flussi migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema dei valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di pensiero nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le implicazioni culturali: «disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore».

Il futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che si autodefiniscono sviluppatiperché hanno un alto valore del prodotto interno lordo pro-capite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del prodotto interno lordo pro-capite, magari più vera e più capace di futuro. Non si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in Inghilterra.

L’unica possibilità per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare, seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori di merci per continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita, riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per autoconsumo, dell’agricoltura tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza, della contemplazione, della spiritualità.

Questo recupero di valori e di modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse della terra, in modo da renderne compatibile il consumo con la loro capacità di riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono nei processi che le trasformano in beni atti a soddisfare le esigenze vitali della specie umana. Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la loro necessità di risorse, evitare che le sottraggano ai popoli poveri utilizzando forme inenarrabili di violenza di massa nei loro confronti, evitare di costringerli a emigrare rischiando la vita perché non riescono più continuare a vivere, come i loro avi, con le risorse della terra in cui sono nati. Solo una decrescita con quelle caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future. Nell’enciclica Laudato si’, con cui Papa Francesco già dal titolo ha voluto sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata, seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore equità tra i popoli. «[…] è arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella crescita economica, ma indica soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire di aumentare la disponibilità delle risorse necessarie a soddisfare i bisogni vitali dei popoli poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo.

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La visione del mondo espressa nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco.

L’Enciclica Laudato si’ (=LS) analizza le cause e gli effetti dei più gravi problemi ambientali con un’accuratezza scientifica che non trova riscontri in nessun altro documento firmato da un leader politico o religioso. Tuttavia è riduttivo considerarla un testo ecologista, perché la crisi ecologica viene analizzata come la manifestazione più grave di una crisi di civiltà che sta causando sofferenze sempre maggiori non solo alla specie umana, ma a tutte le specie viventi. «Ciò che sta accadendo – scrive Papa Francesco – ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale».[1] E, citando la Carta della Terra, approvata all’Aja nel 2000, afferma: «Come mai prima d’ora nella storia il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio» (n. 207). In tutta l’Enciclica questo concetto viene ribadito più volte: siamo alla fine di un’epoca storica ed è necessario costruire su fondamenta culturali completamente diverse una nuova fase della storia umana. Nella premessa vengono indicati gli assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica:

 

«L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (n. 16).

 

Il secondo di questi assi, «la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso», che ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella fitta rete di relazioni in cui tutte sono inserite, ha il suo fondamento nell’ecologia, la disciplina scientifica che studia le interazioni degli organismi viventi tra loro e con gli ambienti in cui vivono, fondata nella seconda metà del diciannovesimo secolo dal biologo e zoologo tedesco Ernst Haeckel. Da questa concezione fondata scientificamente deriva una conseguenza di carattere filosofico, da cui il papa deduce anche un’indicazione etica e comportamentale

 

«Poiché tutte le creature sono connesse tra loro, di ognuna deve essere riconosciuto il valore con affetto e ammirazione, e tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ogni territorio ha una responsabilità nella cura di questa famiglia, per cui dovrebbe fare un accurato inventario delle specie che ospita, in vista di sviluppare programmi e strategie di protezione, curando con particolare attenzione le specie in via d’estinzione». (n. 42)

 

Nell’Enciclica il valore in sé di ogni specie vivente non viene riconosciuto soltanto filosoficamente sulla base delle acquisizioni scientifiche dell’ecologia, ma riceve una connotazione spirituale, derivante dalla concezione del mondo come creato e dei viventi come creature, a cui il Creatore ha assegnato una collocazione specifica nel suo disegno divino. Non è necessario credere nella visione religiosa di Papa Francesco per capire che in questo contesto tutti i viventi ricevono una valorizzazione ulteriore:

 

«Dunque, si capisce meglio l’importanza e il significato di qualsiasi creatura, se la si contempla nell’insieme del piano di Dio. Questo insegna il catechismo: «L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e diseguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre». (n. 86)

 

Se ogni specie vivente ha una funzione insostituibile nella rete delle relazioni che la interconnettono a tutte le altre, il male subito da ognuna di esse si ripercuote su tutte, anche su chi lo commette:

 

«… essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge a un rispetto sacro, amorevole e umile. Voglio ricordare che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione». (n. 89 che cita Francesco, Esort. Ap. Evangeli gaudium, (24-11-2013), n. 215).

 

La consapevolezza della pari dignità di ogni specie vivente e della necessità di ognuna di esse nella fitta trama delle relazioni che le connettono tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, non consente di considerarle risorse al servizio della specie umana, come è stato fino ad ora nelle società industriali.

 

«Oggi la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in se stesse e noi potessimo disporne a piacimento. Così i Vescovi della Germania hanno spiegato che per le altre creature “si potrebbe parlare di priorità dell’essere sull’essere utili”». (n. 69).

 

La convinzione che tutte le specie viventi siano al servizio della specie umana, non è soltanto la causa di fondo della crisi ecologica, ma genera anche gravi conseguenze sociali, perché induce gli esseri umani a competere per impadronirsene e favorisce i più forti a danno dei più deboli.

 

«Sarebbe […] sbagliato pensare che gli altri viventi debbano essere considerati come meri oggetti sottoposti all’arbitrario dominio dell’essere umano. Quando si propone una visione della natura unicamente come oggetto di profitto e di interesse, ciò comporta anche gravi conseguenze per la società. La visione che rinforza l’arbitrio del più forte ha favorito immense diseguaglianze, ingiustizie e violenze per la maggior parte dell’umanità, perché le risorse diventano proprietà del primo arrivato, o di quello che ha più potere: il vincitore prende tutto. L’ideale di armonia, di giustizia, di fraternità e di pace che Gesù propone è agli antipodi di tale modello, e così Egli lo esprimeva ai poteri del suo tempo: «I governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra di voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt, 20, 25-26). (n. 82)

 

La visione del mondo e dei rapporti tra la specie umana e le altre specie viventi delineata da questi passaggi dell’Enciclica capovolge i due capisaldi, strettamente interconnessi tra loro, su cui si è fondata la cultura europea a partire dal diciassettesimo secolo e si è successivamente sviluppata la rivoluzione industriale:

  • una concezione dell’antropocentrismo come superiorità ontologica della specie umana su tutte le altre specie viventi, da cui deriverebbe il suo diritto di utilizzarle ai suoi fini, che trovò la sua formulazione filosofica più compiuta nel pensiero del filosofo francese René Descartes (Discorso sul metodo, 1637);
  • una concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi, che fu formulata dal filosofo inglese Francis Bacon qualche anno prima (Novum Organum, 1620).

 

Questa concezione dell’antropocentrismo, che papa Francesco definisce deviato, è stata dedotta da un’interpretazione di due passi del libro della Genesi in cui viene descritta la creazione dell’uomo. Nel primo racconto più recente (sec. VI-V a.C.) si legge che Dio, dopo averlo creato a sua immagine e somiglianza, gli affidò il compito «di dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». (Gen 1,26)

Nel secondo racconto (più antico, sec. IX-X a.C.) è scritto che «il Signore rapì l’uomo e lo depose nel giardino dell’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse». (Gen 2,15) Commentando questi passaggi, Papa Francesco respinge l’interpretazione che attribuiscano agli esseri umani il compito, e quindi il diritto, di dominare e utilizzare ai propri fini gli altri viventi, come è stato sostenuto in passato dalla Chiesa stessa, ma sostiene che il potere derivante dal fatto di essere gli unici viventi ad essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio, un Dio che agisce per amore («l’amor che move il sole e l’altre stelle», scrive il papa citando (cfr n. 77) La Divina Commedia di Dante (Par. XXX, 145), conferisca ad essi la responsabilità di proteggere e avere cura di tutti gli altri:

 

«Dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature. […] Mentre coltivare significa arare o coltivare un terreno, «custodire» vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e di garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future. In definitiva, «del Signore è la terra» (Sal 24,1), a Lui appartiene «la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti (Lv 25,23)». (n. 67)

 

Non solo Papa Francesco respinge la lettura antropocentrica di questi passaggi biblici, ma ne ricava due indicazioni che conferiscono una connotazione spirituale alle scelte comportamentali e politiche rispettose confronti della terra. La prima: «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future», definisce la differenza tra l’agricoltura organica, che potenzia e regolarizza la naturale fertilità dei suoli arricchendone il contenuto humico, e l’agricoltura chimica, che per estrarne la maggiore produzione possibile li impoverisce mineralizzandoli.

La seconda: «Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta: “Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lv 25, 23)», conferisce un valore universale a scelte storiche e giuridiche come l’articolo 42, comma 2, della Costituzione italiana, che recita: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Per capire la rivoluzione culturale insita nella lettura fatta da Papa Francesco di questi passaggi della Bibbia, occorre leggere l’interpretazione che ne è stata, data appena cinquant’anni prima, da un altro Papa, Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio.

 

«“Riempite la terra e assoggettatela”, (Gen 1, 28): la Bibbia, fin dalla prima pagina, ci insegna che la creazione intera è per l’uomo, cui è demandato il compito d’applicare il suo sforzo intelligente nel metterla a valore e, col suo lavoro, portarla a compimento, per così dire, sottomettendola al suo servizio. […] Il recente concilio l’ha ricordato: «Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, di modo che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia, ch’è inseparabile dalla carità. (Const. past. Gaudium et spes, n. 69)». (Pop. Pro., n. 1)

 

Paolo VI era indotto a scrivere queste righe nel 1967 dalla constatazione delle profonde diseguaglianze esistenti tra una minoranza dell’umanità, i popoli ricchi, che disponeva di una quantità sovrabbondante di beni, e la maggioranza dei popoli, a cui mancava il necessario per vivere dignitosamente, o semplicemente per vivere. Attraverso l’Enciclica chiedeva ai popoli ricchi, che dal 1949, a partire dal discorso d’insediamento alla Casa Bianca del presidente americano Harry Truman, venivano definiti sviluppati, di aiutare i popoli poveri a superare la miseria in cui vivevano, di favorire il loro sviluppo, fornendo ad essi l’assistenza tecnologica necessaria per ricavare dalla natura le risorse necessarie ad aumentare la quantità di beni a loro disposizione.

Paolo VI ha esercitato i suoi mandati al vertice della Chiesa cattolica, come pro-segretario di Stato dal 1944 al 1954, come arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963 e come papa dal 1963 al 1978: nei trent’anni dal 1945 al 1975 che gli economisti francesi chiamano gloriosi, in cui nei paesi europei e negli Stati Uniti si è realizzata una crescita economica straordinaria, priva di corrispettivo negli altri Paesi del mondo. La cultura progressista di quel periodo riteneva che il modello economico e produttivo dei paesi ricchi fosse buono, anzi il migliore mai apparso nella storia, perché creava ricchezza, ma che fosse ingiusto perché non la distribuiva equamente.

A partire da queste premesse Paolo VI sollecitava i Paesi sviluppati a sostenere con l’apporto delle loro tecnologie i Paesi sottosviluppati, affinché potessero aumentare la loro capacità di sfruttare le risorse della terra e trasformarle in beni. Le componenti progressiste della cultura industriale pensavano che l’obbiettivo etico di una maggiore equità tra gli esseri umani si potesse ottenere aumentando il dominio della specie umana sulle altre specie viventi, perché la percezione che questo dominio fosse una iniquità era stata cancellata dalla convinzione che esse nell’ordine divino fossero state poste al suo servizio.

In meno di cinquant’anni le applicazioni tecnologiche fondate su un antropocentrismo così duro e assoluto hanno sortito l’effetto contrario di impoverire sempre di più i popoli sottosviluppati, a cui i popoli sviluppati hanno sottratto in misura sempre maggiore «i beni della creazione» per alimentare la loro crescita economica, hanno persuaso i popoli sviluppati che il senso della vita consista nell’acquistare quantità sempre maggiori di merci da buttare nei rifiuti sempre più in fretta, hanno causato sofferenze indicibili a un numero sempre più ampio di specie animali, hanno superato la capacità della terra di fornire alla megamacchina industriale le materie prime da trasformare in merci e di metabolizzare gli scarti generati dalla produzione e dall’uso delle merci.

Oltre ad aggravare le ingiustizie nei confronti dei popoli sottosviluppati, le tecnologie finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, hanno provocato alterazioni sempre più gravi degli ecosistemi, in particolare dei fattori climatici, che verranno pagate in misura sempre maggiore dai popoli sottosviluppati, accrescendo ulteriormente le loro sofferenze e la loro povertà. L’iniquità della specie umana nei confronti di tutte le altre specie viventi oltre ad essere stata la principale causa della crisi ecologica, ha aumentato anche le iniquità tra gli esseri umani.

A cinquant’anni di distanza, Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ capovolge la visione antropocentrica sostenuta da Paolo VI affermando che tutto nel mondo è intimamente connesso, che le altre specie viventi non sono risorse a disposizione della specie umana, ma hanno la loro necessità e la loro dignità, che il male fatto a ognuna di esse si ripercuote su tutte le altre, esseri umani compresi, in particolare sui più poveri. E ne deduce che la riduzione delle iniquità tra gli esseri umani e la riduzione delle iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi sono intrinsecamente correlate, che non si può perseguire l’una senza perseguire anche l’altra, che l’aggravamento di una aggrava anche l’altra. Nel Cantico delle Creature la percezione dei legami che connettono tutte le specie viventi tra loro, con i fattori abiotici e con i luoghi in cui vivono, è espressa da San Francesco in termini di rapporti fraterni. Dà una valenza ulteriore, empatica ed etica, alla consapevolezza scientifica che ne abbiamo oggi. Scrive il papa che salendo al soglio pontificio ha voluto prendere il nome del poverello di Assisi:

 

«[…] quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità. Di conseguenza, è vero anche che l’indifferenza o la crudeltà verso le altre creature di questo mondo finiscono sempre per trasferirsi in qualche modo al trattamento che riserviamo agli altri esseri umani. Il cuore è uno solo e la stessa miseria che porta a maltrattare un animale non tarda a manifestarsi nella relazione con le altre persone». (n. 92)

 

Il modo di perseguire l’equità indicato da Paolo VI costituisce la variante progressista cattolica della cultura industriale. Il modo indicato da Francesco I è una critica radicale del modo di produzione industriale. Per riprendere le argomentazioni sviluppate da Norberto Bobbio nel suo libro Destra e sinistra: ragioni e significati di una distinzione politica, la destra rappresenta la tendenza culturale e politica che ritiene naturali e immodificabili le diseguaglianze esistenti tra gli esseri umani, mentre la sinistra è la tendenza opposta che si propone a favorire l’eguaglianza.

Pertanto la posizione di Paolo VI, per quanto possa sembrare strano sostenerlo, rientra culturalmente nell’ambito della sinistra. È la componente della sinistra che fonda la pulsione all’eguaglianza sull’idea della fratellanza umana. Non ha niente a che fare con la componente della sinistra che si propone di perseguirla con la lotta di classe, anzi ne è sempre stata l’antagonista vincente. La posizione di Papa Francesco non rientra nella sinistra, anche se è stata interpretata così, sia dalla sinistra, sia dalla destra, perché non si limita a criticare l’iniquità con cui i più forti gestiscono ai danni dei più deboli un modello economico di cui si valuta positivamente la capacità di creare ricchezza e benessere, ma indica esplicitamente nella finalizzazione della produzione al profitto, che caratterizza questo modello, la causa sia dell’iniquità sociale, sia del degrado ambientale che accresce ulteriormente l’iniquità sociale perché le sue conseguenze più gravi vengono pagate dai più poveri.

 

«Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento». (n. 195)

 

Individuando la causa del degrado ambientale nella finalizzazione dell’economia al profitto, la critica di Papa Francesco non si appunta sul capitalismo, che non viene mai nominato nella Laudato si’ (a differenza della Populorum Progressio, che invece lo chiama in causa), ma si riferisce al modo di produzione industriale, di cui il capitalismo è la variante vincente a livello mondiale, dopo la sconfitta della variante socialista, sancita definitivamente nel 1989 dall’abbattimento del muro di Berlino. La sua critica ha per oggetto la razionalità strumentale, da cui sono accomunate entrambe le varianti del modo di produzione industriale: il capitalismo e il socialismo.

 

«La razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è presente sia quando assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore». (n. 195)

 

L’Enciclica di papa Francesco supera la contrapposizione tra l’ideologia liberista e l’ideologia socialista, che ha caratterizzato la dialettica culturale e politica nell’epoca storica in cui si è sviluppato e si è gradualmente esteso a tutto il mondo il modo di produzione industriale. Indica nella finalizzazione dell’economia al profitto la causa di una crisi ambientale e di una crisi sociale interdipendenti tra loro, che non possono essere risolte all’interno di questo modello economico e produttivo. Propone alcuni cambiamenti radicali, nella tecnologia, negli stili di vita, nella concezione del progresso, nel sistema dei valori, come anticipazioni di un paradigma culturale alternativo da costruire. «Si attende ancora – scrive il papa – lo sviluppo di una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli». (n. 121).

Impossibile non capire che si riferisca alla contrapposizione tra le varianti dell’ideologia liberista e le varianti dell’ideologia socialista. Inevitabile che suscitasse diffuse incomprensioni, per lo più da sinistra, critiche rabbiose, per lo più da destra, interpretazioni distorte. Ma anche un grande interesse in tutti coloro che non sono stati appiattiti dal consumismo sulla dimensione materialistica della vita e hanno mantenuto viva la loro spiritualità. Di coloro che non ritengono che lo scopo della vita sia produrre sempre di più per consumare sempre di più e consumare sempre di più per poter continuare a produrre sempre di più.

La finalizzazione dell’economia alla crescita del profitto richiede l’uso di tecnologie sempre più potenti che aumentano in continuazione la produzione di merci. E di conseguenza il prelievo di risorse da utilizzare nei processi produttivi e le emissioni di sostanze non metabolizzabili dalla biosfera. Se l’economia continuerà ad essere finalizzata alla crescita, la crisi ecologica e la crisi sociale si aggraveranno fino al collasso perché le risorse della terra non sono infinite, né è infinita la sua capacità di metabolizzare le emissioni dei cicli produttivi e dell’uso dei prodotti.

 

«Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». [Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 462]». (n. 106)

 

Anche se non ne è diffusa la consapevolezza, scrive Papa Francesco, la causa di fondo della crisi ecologica è la crescita economica. E, se la crisi ecologica è strettamente interconnessa con la crisi sociale, come viene ripetuto più volte nell’Enciclica, è inevitabile dedurne che è anche la causa delle iniquità tra gli esseri umani e tra i popoli. «Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica». (n. 109)

Non dovrebbe stupire che da queste premesse il pontefice abbia dedotto, suscitando l’indignazione delle vestali della crescita e di chi ne ricava benefici e potere, che sia «[…] arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti» (n. 193). In questa frase i termini crescita e decrescita non vengono usati nel loro significato economico di aumento e diminuzione del valore monetario dei beni finali scambiati con denaro nel corso di un anno, e quindi con l’aumento e la diminuzione del reddito pro-capite, perché, se così fosse, si ricadrebbe nell’interpretazione dell’equità come estensione ai popoli poveri del modello economico dei popoli ricchi, basato sulla crescita dell’iniquità nei confronti di tutti gli altri viventi.

Il concetto è espresso in termini di risorse, cioè di una diminuzione dei consumi di risorse della terra da parte dei popoli che hanno più del necessario, al fine di aumentare la quantità di risorse utilizzabili dai popoli che hanno meno del necessario per sostenere una loro crescita economica sana, cioè diversa da quella non compatibile con i limiti della biosfera dei popoli ricchi.

Anche se sarebbe stato auspicabile un approfondimento di questi concetti, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo.

Dopo due secoli e mezzo di esaltazione acritica della crescita da parte di tutte le correnti di pensiero, di destra, di sinistra e della stessa Chiesa cattolica, a fronte dell’irrisione riservata sino ad ora alla decrescita da politici, imprenditori e intellettuali che pure si vantano della loro formazione cattolica (e, per quanta buona volontà ci mettano, non riescono dal 2008 a far ripartire la crescita economica), questa apertura di Papa Francesco indica il nuovo inizio che, secondo la Carta della Terra, approvata all’Aia nel marzo del 2000, il destino comune ci obbliga a cercare.

 

24 novembre 2015

 

 

 

 

[1]             Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato sì’, (24 maggio 2015), n. 114; cfr anche n. 63. D’ora in poi la citazione avverrà nel testo con l’indicazione del numero arabo che accompagna i relativi paragrafi.