1 maggio: di quale lavoro utile abbiamo bisogno
Non manca il lavoro, manca l’occupazione utile che potrebbe creare una vera ripresa economica per il nostro Paese e farci uscire dall’attuale situazione. Eppure di esempi reali ne abbiamo anche qui in Italia.
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Sanità USA: a Philadelphia l’Aria Health Hospital risparmia 9.000 dollari grazie all’impianto di Cogenerazione “Made in Italy”
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Felici e contanti o contenti?
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Isaia Sales e Simona Melorio: Le Mafie nel PIL
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Oltre la destra e la sinistra. Firenze, Teatro Verdi, 2 ottobre 2016
Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, nel corso della Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate.
Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. […] Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali.
A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».
Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che Marx, in un famoso passo del Capitale, definisce come il passaggio da un modo di produzione che può essere descritto con la formula M-D-M a un modo di produzione che può essere descritto dalla formula D-M-D1, dove la lettera M indica le merci e la lettera D indica il denaro. Nel modo di produzione pre-industriale, M-D-M, le attività produttive vengono svolte da artigiani che producono merci per clienti che le richiedono perché ne hanno bisogno, e ricevono in cambio del denaro che utilizzano per produrre altre merci richieste da altri clienti che ne hanno bisogno. Il fine del lavoro è la produzione di merci che hanno un valore d’uso e il denaro è il mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale, D-M-D1, i capitalisti investono del denaro, accumulato originariamente con varie forme di sopraffazione – colonialismo, schiavismo, privatizzazione delle terre comuni ed espulsione dei contadini dalle campagne per costringerli a diventare operai – per produrre con l’uso di macchine sempre più efficienti azionate da motori, quantità crescenti di merci che non sono state richieste da nessuno, allo scopo di venderle per ricavare più denaro di quello che hanno investito per produrle. Il valore di D1 deve pertanto essere superiore al valore di D, altrimenti il processo non avrebbe senso, e la differenza tra i due valori costituisce il profitto. Nel modo di produzione industriale si producono valori di scambio e il denaro diventa il fine della produzione.
La destra e la sinistra hanno valutato che il modo di produzione industriale costituisse un progresso rispetto al modo di produzione pre-industriale perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca di abbondanza senza precedenti. A partire da questa comune valutazione culturale, lo scontro tra i due schieramenti è stato politico e si è articolato su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso «la mano invisibile del mercato», come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra? La storia ha dimostrato che dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto sia cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa con la vittoria definitiva della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dai flussi interminabili di Trabant che portavano i tedeschi dell’est ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi stracarichi di merci tecnologicamente avanzate nella Germania dell’ovest.
Il mercato fa crescere la produzione di merci più della programmazione e dei piani quinquennali. L’economia che distribuisce in maniera più iniqua il profitto (la differenza tra D1 e D) riduce la quota destinata ai consumi e accresce la quota destinabile agli investimenti, per cui fa crescere la produzione di merci più di un’economia che, distribuendo in modi più equi il profitto, fa crescere di più la quota destinata ai consumi e riduce la quota destinabile agli investimenti. Se la sinistra condivide con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è strategicamente perdente. E ha perso. Ma la sua sconfitta non è la sconfitta della pulsione all’eguaglianza, che la sinistra ha incarnato per appena due secoli e mezzo. È la sconfitta dell’interpretazione storica che ne ha dato. Pertanto i sostenitori dell’eguaglianza non possono non domandarsi come il loro ideale possa trovare una nuova concretizzazione storica, liberandosi dai limiti, dagli errori e dai vincoli di quella interpretazione.
L’errore di fondo della sinistra è stato di credere che si potesse realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani distribuendo in maniera più equa il profitto generato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ovvero governando in maniera diversa dalla destra un sistema economico e produttivo che, come la destra, considerava un progresso perché attraverso i progressi della scienza e della tecnologia accresceva sempre di più il potere della specie umana sulla natura, consentendole di ricavare quantità sempre maggiori di risorse e di produrre quantità sempre maggiori di beni. Questa concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio, è stata teorizzata dal filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà seicento. Pochi anni dopo il filosofo francese René Descartes avrebbe sostenuto che gli esseri umani sono ontologicamente diversi da tutti gli altri esseri viventi, a cui li accomuna il corpo, la res extensa, ma da cui li distingue la capacità di pensare e la coscienza, la res cogitans, per cui non fanno parte della natura, ma vi agiscono come attori sulla scena di un teatro. La res cogitans, che condividono con Dio, li rende superiori a tutti gli altri viventi e li autorizza a considerare che tutti i viventi non umani siano stati creati per soddisfare le loro esigenze, per cui hanno il diritto di utilizzarli ai propri fini. Su questa concezione antropocentrica si è fondato lo sfruttamento crescente delle risorse naturali che ha consentito di finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e che, in poco più di due secoli, ha progressivamente aggravato la crisi ecologica fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana. Sulla base di questa concezione, che accresce le iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi, vegetali e animali, la sinistra ha ritenuto che la crescita delle merci prodotte di anno in anno costituisse la premessa per realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani.
Le conseguenze di questa concezione antropocentrica sono sotto gli occhi di tutti, a eccezione dei politici di destra e di sinistra, degli economisti, degli imprenditori e dei sindacati. La crescita della produzione di merci ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili, in particolare quelli di fonti fossili, accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, in particolare le emissioni di anidride carbonica, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica tossiche e non tossiche (le plastiche) non metabolizzabili dalla biosfera. La riduzione delle disponibilità delle risorse non rinnovabili ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo dove insistono i giacimenti più ricchi. I consumi delle risorse rinnovabili hanno superato la loro capacità di rigenerazione annua e per sostenere la loro crescita economica i popoli ricchi ne accaparrano quantità crescenti per sostenere i loro sprechi, sottraendo ai popoli poveri il necessario per vivere. Dal 2008 la globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale, che è indispensabile per continuare a far crescere l’economia in questa fase storica, ha strozzato la crescita economica e i costi dei tentativi di ripresa, sino ad ora fallimentari, sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri continuano ad essere privati del necessario per vivere, per cui sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre e a sottoporsi a sofferenze inenarrabili nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.
Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un’estensione della sopraffazione della specie umana sulla terra in quanto organismo vivente e su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente, in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani. Le conseguenze più gravi della crisi ecologica e della crisi economica vengono pagate e saranno pagate in misura sempre maggiore dai più poveri tra gli esseri umani. Solo una maggiore equità tra la specie umana e le altre specie viventi consente di accrescere l’equità tra gli esseri umani. Una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani si può realizzare soltanto abbandonando l’antropocentrismo che caratterizza la concezione occidentale del mondo e sviluppando una concezione del mondo biocentrica. Questo è il primo elemento di una nuova declinazione dell’uguaglianza rispetto all’interpretazione che ne ha dato storicamente, per 250 anni, la sinistra.
Un secondo elemento che caratterizza l’iniquità insita nella concezione dell’eguaglianza sviluppata dalla sinistra può essere riassunto con questa formulazione: non si può fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi sull’iniquità nei confronti delle generazioni a venire. I debiti pubblici accumulati dalla seconda metà del novecento per sostenere lo stato sociale sono il frutto di un patto non scritto, ma condiviso dalla destra e dalla sinistra, per accrescere il benessere materiale delle classi subalterne senza intaccare i profitti delle classi dominanti. Hanno garantito la crescita economica e la pace sociale a spese di chi non era ancora nato. Le politiche keynesiane, che ne sono state il suggello, hanno cancellato la consapevolezza che i debiti monetari contratti per continuare a far crescere la produzione e la domanda di merci nelle fasi in cui si inceppa, sono gli epifenomeni di debiti contratti nei confronti della natura e delle generazioni future. Se la spesa pubblica in deficit ha svolto questa funzione in passato, nella fase attuale crea più problemi di quanti ne risolva. A livello ambientale perché la produzione di merci a livello mondiale eccede già le capacità del pianeta di fornirle le risorse di cui ha bisogno e di metabolizzare i suoi scarti, per cui spingerla ulteriormente non può che aggravare la crisi ecologica fino al collasso. A livello sociale perché il sovraconsumo delle risorse che ha indotto, ha creato per le giovani generazioni prospettive di vita peggiori di quelle dei loro padri e dei loro nonni. Una nuova declinazione dell’uguaglianza, che consenta di superare questi problemi, richiede lo sviluppo delle tecnologie che riducono il consumo di risorse per unità di prodotto, ovvero una decrescita selettiva e guidata degli sprechi. Questo non è soltanto l’unico modo di creare occupazione, e quindi di restituire un futuro desiderabile ai giovani, ma l’occupazione che si crea in questo modo è utile perché riduce il consumo di risorse e paga i suoi costi d’investimento con i risparmi che consente di ottenere. Fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi senza prendere in considerazione le conseguenze negative che può scaricare sulle generazioni future, come ha fatto la sinistra, è una scelta della massima iniquità. Per superarla occorre riscoprire uno dei fondamenti della cultura contadina. I vecchi contadini piantavano, come lascito ai loro nipoti, alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti e lo facevano perché da bambini avevano mangiato frutti di alberi che erano stati piantati per loro dai loro nonni.
Un terzo elemento generatore d’iniquità che occorre rimuovere dall’interpretazione storica data dalla sinistra all’eguaglianza, è la convinzione che le diseguaglianze tra le classi sociali nei Paesi ricchi e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si misurino sostanzialmente con le differenze di reddito monetario. Tutte le statistiche sulla crescita della povertà su cui gli intellettuali di sinistra fondano le loro critiche alla concezione economica oggi dominante, che definiscono neo-liberismo, si fondano su dati monetari. In realtà il reddito monetario può essere considerato una misura adeguata della ricchezza soltanto nelle società che hanno finalizzato l’economia alla produzione di merci, cioè di oggetti e servizi fatti per essere venduti allo scopo di far crescere il profitto di chi li ha prodotti. Soltanto nelle società che finalizzano il lavoro umano non alla soddisfazione dei bisogni della vita, ma alla crescita del profitto, e fondano i rapporti sociali sulla competizione. In queste società l’autoproduzione di beni e i rapporti fondati sulla solidarietà e la collaborazione sono disprezzati e banditi, perché riducono la necessità di comprare e quindi fanno crescere di meno i profitti. Solo se si accetta questo sistema di valori e si pensa che tutto ciò che serve si può solo comprare, si può ritenere che le diseguaglianze si misurino con le differenze di reddito. Le merci sono indispensabili perché nessuno può autoprodurre tutto ciò di cui ha bisogno e nessuna comunità può essere totalmente autosufficiente. Ma le merci non possono soddisfare tutte le esigenze umane e, se tutto ciò che risponde a un bisogno si deve comprare, accrescono la dipendenza dal mercato, riducono l’autonomia delle persone e delle comunità, inducono a identificare il benessere col consumismo, lacerano i rapporti sociali fondati sulla solidarietà. Un sistema economico che si proponga di migliorare il benessere degli esseri umani e a ridurre le diseguaglianze non si lascia ingabbiare nella dimensione monetaria. Non trascura l’importanza del benessere materiale e si propone di creare le condizioni per cui tutti possano accedervi, ma sa che il benessere dipende in misura ancora maggiore dalla tutela dei beni comuni, dei più deboli, della bellezza dei luoghi in cui si vive, della sovranità alimentare, dell’autosufficienza energetica, del sapere tradizionale, delle possibilità di coltivare la propria creatività e di soddisfare le proprie esigenze di conoscenza disinteressata. In una parola di tutto ciò che non si può comprare col denaro e dà un senso alla vita molto più di ciò che si può comprare.
Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani devono comprare le quantità crescenti di merci che vengono prodotte, altrimenti non si potrebbe continuare a produrne, per cui devono identificare il benessere con il consumismo. Il consumismo deve diventare l’asse portante del sistema dei valori. La realizzazione umana degli individui deve identificarsi con la loro capacità di spesa, con la quantità e la qualità degli oggetti e dei servizi che possono comprare. Coloro che hanno di più diventano il modello di coloro che hanno di meno. Ciò genera uno stato di insoddisfazione permanente anche in chi ha molto più della media, perché c’è sempre qualcuno che ha di più. Il consumismo ha operato, per riprendere le parole di Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica, appiattendo gli esseri umani sulla dimensione materialistica e cancellando dal loro orizzonte mentale la spiritualità. Il recupero della dimensione spirituale è indispensabile per percepire l’intreccio delle relazioni che legano tutte le specie viventi tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, come insegna la scienza dell’ecologia. Per sentire come una sofferenza propria la sofferenza di chi non ha il necessario per vivere, dei giovani che non trovano un’occupazione, di coloro che non sono ancora nati per le condizioni in cui troveranno ridotto il mondo, degli animali negli allevamenti industriali, il taglio di un bosco, l’annullamento della fotosintesi clorofilliana sotto i sudari d’asfalto e di cemento, il sacrificio della bellezza al profitto. La spiritualità non è la fede, anche se non ci può essere fede senza spiritualità. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. Fede è sustanza di cose sperate è argomento delle non parventi, ha scritto Dante. Non tutti hanno la fede, ma la spiritualità è un elemento costitutivo della natura umana. Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica, la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile che consente di recuperare la dimensione della solidarietà non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi, e di conferire alla pulsione all’eguaglianza una connotazione non solo politica, ma esistenziale.
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Decrescita e democrazia nell’epoca della globalizzazione
Il 28 maggio 2013 la società finanziaria J P Morgan Chase&Co, leader nei servizi finanziari globali con sede a New York, ha reso pubblico un documento di sedici pagine, intitolato Aggiustamenti nell’area euro, in cui alle pagine 12 e 13 vengono indicati i problemi che, secondo i suoi analisti, rendono difficile applicare nei paesi dell’Europa meridionale le politiche di austerity, che essi ritengono indispensabili per far ripartire la crescita.
All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire una maggiore integrazione dell’area europea.
I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo.
I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; il diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. Le conseguenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali perché i loro esecutivi sono limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia).
La JP Morgan è stata una delle protagoniste dei progetti di finanza creativa che hanno provocato nel settembre del 2007 la crisi dei mutui subprime. Una crisi che, sebbene sia stata presentata come finanziaria, in realtà era di sovrapproduzione e derivava dal fatto che l’offerta di case era molto superiore alla domanda, per cui gli istituti di credito, per evitare fallimenti nel settore dell’edilizia che si sarebbero estesi a tutto il sistema produttivo, incentivavano a comprarle concedendo mutui anche a clienti che essi stessi classificavano nella categoria dei subprime, ovvero degli inaffidabili, perché erano stati protestati, o non avevano pagato bollette, o avevano fatto bancarotta. La crisi dei subprime è stata la causa scatenante della crisi economica che si è estesa a tutti i Paesi industrializzati a partire dal mese di settembre del 2008, ma le difficoltà del settore dell’edilizia riflettevano la situazione di tutto il sistema produttivo ed erano una conseguenza del processo di globalizzazione.
La globalizzazione: l’ultima fase dell’economia della crescita
La globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale,[1] costituisce l’ultima fase di una tendenza insita nella finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Per accrescere la produzione di merci è necessario ampliare progressivamente il numero dei produttori e dei consumatori di merci, che sono due aspetti della stessa figura sociale, perché i produttori di merci ricevono in cambio del loro lavoro un salario che li mette in condizione di comprare sotto forma di merci tutti i beni di cui hanno bisogno. Per ampliare il numero dei produttori/consumatori di merci le società industriali hanno incentivato e/o costretto quantità sempre maggiori di persone che autoproducevano gran parte dei beni necessari per vivere (i contadini), o producevano valori d’uso (gli artigiani), a trasferirsi dalle campagne e dai paesi nelle città, dall’agricoltura di sussistenza e dall’artigianato all’industria e ai servizi. Sin dai primordi la storia dell’industrializzazione è stata caratterizzata da flussi migratori che sono cresciuti in proporzione con la crescita della produzione industriale.[2] Poiché i produttori di merci non hanno la possibilità di lavorare per autoprodurre i beni di cui hanno bisogno, ma devono e possono comprarli sotto forma di merci, l’aumento del numero dei produttori fa aumentare sia l’offerta che la domanda di merci, ma non in misura proporzionale, perché contestualmente la concorrenza induce ad introdurre nei cicli produttivi innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività, cioè la produzione nell’unità di tempo, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Pertanto, se l’adozione di queste tecnologie non viene accompagnata da riduzioni degli orari di lavoro, il numero degli occupati per unità di prodotto diminuisce e agli incrementi dell’offerta non corrispondono analoghi incrementi della domanda. Da ciò deriva una tendenza intrinseca alla sovrapproduzione, che nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale è stata tenuta sotto controllo tenendo alta la domanda attraverso i debiti pubblici – le spese in deficit per i servizi sociali, l’assistenza, il sovradimensionamento del pubblico impiego, le pensioni di anzianità – e incentivando i debiti privati col credito al consumo. Ciò nonostante, il divario tra gli incrementi sempre maggiori dell’offerta e i più ridotti incrementi della domanda ha continuato ad aumentare. E ha ricevuto un forte impulso dall’aumento della concorrenza internazionale indotta dalla globalizzazione. Questa è la causa della crisi iniziata nel 2008, di cui dopo 8 anni non si intravede ancora la fine e non è escluso che possa ancora aggravarsi.
La globalizzazione ha coinvolto in tempi brevi, sostanzialmente dall’abbattimento del muro di Berlino (ottobre 1989) e dalla fine del socialismo reale che ne è conseguita, alcuni Paesi in cui vive metà della popolazione mondiale, i cosiddetti BRICS: Brasile, Russia, India, Cina (e sud est asiatico), Sud-Africa. La diffusione del modo di produzione industriale in questi Paesi ha aperto nuovi mercati alle aziende multinazionali dei Paesi occidentali ed è stata indispensabile per consentire all’economia mondiale di continuare a crescere, ma ha creato al contempo una serie di problemi politici, economici e ambientali, che non solo rendono sempre più difficile all’economia di continuare a crescere, ma riducono la desiderabilità di un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per sostenere la concorrenza esercitata dalle aziende industriali dei BRICS, dove le retribuzioni e le tutele sindacali sono inferiori a quelle dei Paesi di più antica industrializzazione, le aziende multinazionali che operano sul mercato mondiale hanno agito in tre direzioni:
– hanno utilizzato l’informatica per sviluppare innovazioni tecnologiche che sostituiscono i lavoratori con macchine automatiche e robot;
– hanno ridotto i salari e le tutele sindacali dei lavoratori dipendenti;
– hanno delocalizzato gli impianti nei Paesi in cui il costo del lavoro e le tutele sindacali sono inferiori.
Queste scelte comportano un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro nei paesi industrializzati: oltre alla riduzione delle tutele sindacali e dei redditi degli occupati, un aumento del numero dei disoccupati, una maggiore precarietà nei rapporti di lavoro, sempre maggiori difficoltà dei giovani a trovare un’occupazione. Queste dinamiche inevitabilmente conflittuali non possono essere gestite esclusivamente a livello sindacale, ma richiedono il sostegno di interventi legislativi. In particolare le modifiche nella legislazione sul lavoro che peggiorano le condizioni dei lavoratori dipendenti possono essere attuate solo da un’alleanza strategica tra governi e associazioni imprenditoriali. In Italia nel biennio 2014-2015 è stato approvato da un governo sedicente di sinistra il jobs act, che ha abolito lo Statuto dei lavoratori in vigore dal 1970 introducendo criteri di flessibilità nei rapporti di lavoro, con la conseguenza di renderli più precari senza aumentare l’occupazione, come era stato sbandierato per agevolarne l’accettazione sociale. In Francia nel 2016 un governo altrettanto sedicente di sinistra ha proposto l’adozione di alcune misure legislative analoghe che, quanto meno per rispetto della propria lingua, sono state raccolte sotto la definizione di loi travail. La proposta di legge ha suscitato una forte resistenza sindacale, che si è manifestata con scioperi e mobilitazioni di piazza in tutto il Paese, senza tuttavia intaccare la determinazione dell’esecutivo, che l’ha fatta approvare ricorrendo tre volte al quesito di fiducia per evitare il voto del Parlamento.
Contestualmente, per rilanciare la crescita le agenzie di rating, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e l’Unione Europea hanno imposto agli Stati maggiormente indebitati di ridurre i loro debiti pubblici, che nel 2013 ammontavano da un minimo del 90,6 per cento del prodotto interno lordo in Gran Bretagna, a un massimo del 175,1 per cento in Grecia, riducendo la spesa per i servizi sociali, adottando criteri privatistici nella loro gestione e/o favorendone la privatizzazione per consentire nuove opportunità di profitto agli operatori economici. Le linee guida degli interventi che sono stati imposti ai governi nazionali per ridurre i loro debiti sono state le seguenti:
– riduzione della spesa per i servizi sociali: pensioni, scuola, sanità, assistenza;
- aumento dei carichi di lavoro e riduzione delle retribuzioni dei dipendenti pubblici;
- – posticipazione dell’età pensionabile e riduzione dell’entità delle pensioni mediante il passaggio dal calcolo contributivo al calcolo retributivo;[3]
- privatizzazione dei servizi pubblici locali;
- introduzione di criteri di gestione privatistica nei servizi sociali: nella scuola, nella sanità e nei trattamenti pensionistici;
- svendita di importanti settori del patrimonio pubblico.
Il 29 settembre 2011 il presidente uscente e il presidente entrante della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, hanno scritto al Presidente del Consiglio italiano una lettera, che avrebbe dovuto restare segreta (in nome della trasparenza e della democrazia?) in cui indicavano le misure a loro parere indispensabili per rilanciare la crescita economica:
1.Vediamo l’esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. […] Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro. a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. […] c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
- Il Governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
L’obiettivo dovrebbe essere […] un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico. […] Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.
Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province) […]
[…] consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare […]
Queste misure concorrono a scaricare i costi della crisi e la riduzione dei debiti pubblici sui redditi delle classi lavoratrici e di ampi settori dei ceti intermedi. Nel loro insieme si configurano come un rilancio in grande stile della lotta di classe, condotta, al contrario di quanto ipotizzava il marxismo, dalle classi privilegiate contro le classi subalterne (con sviluppi che vanno oltre le analisi di Luciano Gallino, pubblicate nel libro La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012). Una lotta di classe che in Italia è stata aggravata da vere e proprie rapine dei piccoli risparmiatori da parte delle banche, con la complicità del potere politico. Il carattere di classe delle misure con cui sono stati scaricati sulle classi subalterne i costi di risanamento dei deficit pubblici, è stato occultato mediaticamente presentandole come le premesse per superare la crisi e rilanciare la crescita, mentre la riduzione dei redditi degli occupati con cui si è tentato di sostenere la concorrenza dei BRICS, è stata presentata come la premessa per affrontare il grave problema dell’occupazione giovanile. Queste linee sono state seguite senza sostanziali differenze da tutti i governi, indipendentemente dal fatto che fossero guidati da partiti di destra o da partiti di sinistra traslocati a destra.
Destra e sinistra addio
Nel tentativo di tenere sotto controllo la conflittualità sociale che sarebbe derivata dall’adozione di queste misure antipopolari, le già elencate istituzioni sovranazionali, private e pubbliche, preposte al governo dell’economia mondiale, hanno affidato la loro gestione ai partiti della sinistra moderata nei Paesi in cui questi partiti avevano mantenuto un consenso di massa. In Gran Bretagna e in Italia hanno inserito ai loro vertici rappresentanti dei loro interessi: Tony Blair nel Labour Party e Matteo Renzi nel Partito Democratico. In Francia si sono limitati a manovrare il Presidente della Repubblica, nonché segretario del Partito Socialista, François Hollande, che per la sua inettitudine poteva essere tenuto facilmente sotto controllo. Non hanno avuto bisogno di usare i partiti di sinistra in Germania e in Spagna dove i partiti di centro-destra hanno mantenuto la loro presa sull’elettorato; né, per le stesse ragioni, in Gran Bretagna, quando la destra è tornata al potere dopo che il Labour Party aveva messo in minoranza il loro rappresentante al suo interno, Tony Blair, costringendolo alle dimissioni da primo ministro; né negli Stati Uniti, dove i già labili confini tra destra e sinistra si sono dissolti quasi del tutto.[4]
In Grecia la gestione delle misure che, sotto l’etichetta apparentemente tecnico-economica dell’austerity, scaricano sulle classi popolari i costi del risanamento del bilancio statale, è stata affidata alternativamente alla destra e alla sinistra storiche, il partito liberal-conservatore Nuova Democrazia e il partito socialdemocratico PASOK, con scarsissima efficacia in un caso e nell’altro per l’incapacità di entrambi i raggruppamenti politici di stroncare le resistenze che hanno incontrato a livello sociale. Alle elezioni del 2015 la resistenza sociale alle misure antipopolari imposte dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale e dalle agenzie di rating ha dato la maggioranza a una nuova formazione politica di sinistra, Syriza, che, differenza del partito socialista, era dichiaratamente ostile alla loro applicazione. Dopo essere arrivato inaspettatamente al governo, il suo leader Alexis Tsipras le ha sottoposte a un referendum popolare che le ha respinte. In risposta, l’Unione Europea e le istituzioni bancarie sovranazionali lo hanno costretto a compiere una rapida mutazione genetica e a farle approvare dal parlamento, annullando l’espressione della volontà popolare espressa nel referendum.
Nella fase della globalizzazione la crescita della produzione di merci richiede che vengano posti limiti alla democrazia
Non era la prima, anche se è stata la più clamorosa attuazione delle indicazioni contenute nel documento in cui la J P Morgan ha sostenuto la necessità di porre limiti alla democrazia nei paesi in cui le costituzioni conferiscono alle istituzioni elettive, i parlamenti nazionali e regionali, o direttamente al popolo attraverso forme di democrazia diretta, il potere di impedire all’esecutivo l’attuazione delle riforme economiche e fiscali che la finanza internazionale, il grande capitale e le istituzioni sovranazionali ritengono indispensabili per superare la crisi, o in cui vigono «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e «il diritto di protestare se vengono proposte modifiche sgradite dello status quo».
Nel 2013 sono state avviate trattative segrete tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea per la definizione di un accordo denominato TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) finalizzato a far crescere gli scambi commerciali e gli investimenti tra le aziende multinazionali dei due continenti al fine di dare impulso alla crescita economica.[5] La bozza dell’accordo prevedeva di togliere agli Stati il potere di applicare le norme legislative nazionali che costituissero degli impedimenti alla piena attuazione del trattato, ad esempio le normative sanitarie e ambientali più rigorose poste alle attività produttive in uno Stato europeo rispetto agli Stati Uniti. Evidentemente si tratta di un testo funzionale alla globalizzazione, che subordina la democrazia alle esigenze della crescita economica.
In Italia nel 2011 un referendum popolare ha abolito le norme che consentivano alle aziende private la gestione dei servizi idrici a scopo di profitto, andando a colpire gli interessi delle aziende multinazionali del settore e delle società per azioni a prevalente capitale delle amministrazioni pubbliche locali: comuni, associazioni di comuni, province, regioni. Le più importanti di esse appartenevano a comuni amministrati da decenni dal Partito Democratico. Da allora all’esito del referendum non è ancora stata data attuazione, sia dalle amministrazioni di centro-destra, sia da quelle di centro sinistra, con le sole eccezioni di un capoluogo di regione e di un capoluogo di provincia, mentre almeno un’assemblea regionale ha votato una delibera che lo respinge.
In Francia nel 2010 e in Italia nel 2015 sono state istituite le città metropolitane, che di fatto consentono alle principali città capoluogo di assumere decisioni vincolanti anche per gli altri comuni che vi sono inseriti, riducendo la loro autonomia. Sempre nel 2015 in Italia sono state abolite le elezioni provinciali e la scelta dei consiglieri provinciali è stata affidata ai consiglieri comunali tra i consiglieri comunali dei Comuni insistenti nel loro ambito territoriale. Nel 2016 il governo italiano ha invitato i cittadini a boicottare il referendum sulle trivellazioni petrolifere in mare e sulla terraferma, cioè a non esercitare un potere decisionale previsto dalla costituzione, per non interferire con le decisioni prese dal governo in base al potere che il popolo gli conferisce pro-tempore. La stessa volontà di esautorare la democrazia e di concentrare il potere nell’esecutivo, secondo le indicazioni della J P Morgan, caratterizza la riforma costituzionale approvata in Italia lo stesso anno, utilizzando forzature procedurali e la forza dei numeri a scapito non solo della ragione, ma anche, in molti passaggi, della razionalità e della logica. Lo scopo principale sembra essere arrivare nel più breve tempo possibile a mettere di fatto nelle mani del governo la composizione degli organi istituzionali a cui, in base al principio della divisione dei poteri, è demandato il compito di controllare il suo operato e di impedire che fuoriesca dai suoi limiti: il Parlamento, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, la Presidenza della Repubblica. L’anno precedente era stata approvata una riforma elettorale che garantisce l’elezione dei capilista indicati dai partiti, riducendo drasticamente la possibilità da parte dell’elettorato di scegliere i suoi rappresentanti nel Parlamento, conferisce un premio di maggioranza esorbitante al partito che al ballottaggio riceva la percentuale più alta di voti senza indicare una soglia minima, esclude la possibilità di eleggere i senatori, che vengono scelti dai consigli regionali tra i consiglieri regionali e i consiglieri comunali dei Comuni insistenti sul territorio regionale.
I tentativi di ridurre la democrazia nei Paesi in cui questa forma istituzionale si è affermata duecentocinquanta anni fa insieme al modo di produzione industriale, rispondono all’esigenza di superare le difficoltà poste dalla globalizzazione alla crescita delle loro economie dalla fine del secolo scorso e al superamento della crisi che li affligge dal 2008. Poiché la scelta fatta dagli organismi della finanza internazionale e delle aziende multinazionali per rilanciare la crescita in questi Paesi presuppone, come si è detto, che i costi del risanamento dei loro bilanci statali siano sostenuti da una riduzione delle spese per i servizi sociali, e che la concorrenza con i costi del lavoro molto inferiori dei BRICS sia sostenuta da una riduzione delle tutele sindacali e delle retribuzioni degli occupati, queste misure di politica economica, industriale, amministrativa e sindacale così penalizzanti per le classi sociali subordinate, possono essere adottate soltanto riducendo il potere delle istituzioni democratiche che consentono ad esse di opporsi. In realtà, in conseguenza di questi interventi non solo non si è aperta una nuova fase di crescita nei Paesi industrializzati, ma la domanda è diminuita e si è accentuata la tendenza alla sovrapproduzione, per cui la crisi anziché attenuarsi si è aggravata. In questa fase storica, in cui il modo di produzione industriale ha raggiunto il suo apice, la globalizzazione è necessaria per far crescere la produzione di merci, ma inducendo a ridurre le retribuzioni nei Paesi di più antica industrializzazione, incentivando la delocalizzazione delle imprese nei Paesi in cui il costo della manodopera è più basso e riducendo la spesa pubblica fa aumentare la domanda meno dell’offerta, per cui la strozza. Di conseguenza, le tradizionali misure di politica economica finalizzate a rilanciare la crescita non possono consentire di superare la crisi, nemmeno se la loro applicazione viene facilitata dalla limitazione degli spazi democratici. Il fallimento dei tecnocrati portati al potere negli ultimi anni, scavalcando le procedure democratiche, lo ha già dimostrato. Senza, naturalmente ridurre di una briciola la loro supponenza.
L’economia della crescita ha bisogno delle migrazioni
Una conseguenza ancor più devastante della globalizzazione è stata l’attivazione d’imponenti flussi migratori dai Paesi dell’Europa dell’est, dell’Africa e del Medio Oriente verso i Paesi dell’Europa occidentale. Innanzitutto perché, come si è già detto, la crescita della produzione di merci richiede un aumento del numero dei produttori e dei consumatori di merci, che si può ottenere soltanto con forti trasferimenti di popolazione dalle campagne alle città, dall’economia di sussistenza all’economia mercificata. Anche in questa fase, come nelle precedenti, sono state utilizzate le due leve della persuasione e della costrizione. Per incentivare, soprattutto le fasce giovanili dei Paesi in cui ancora persistono ampie situazioni d’economia di sussistenza, a emigrare in cerca di fortuna nei Paesi industrializzati, sono stati utilizzati in maniera massiccia i mezzi di comunicazione di massa. Le reti televisive, soprattutto private, dei Paesi dell’Europa occidentale hanno svolto nei confronti di quelle popolazioni lo stesso ruolo del cinema americano nei confronti dei popoli europei alla metà del secolo scorso, diffondendo il desiderio d’imitazione degli stili di vita consumistici e disinibiti delle società industriali. Insieme a questo potentissimo strumento di persuasione, lo strumento di costrizione principale sono state le guerre combattute, direttamente o indirettamente, dai Paesi occidentali contro i Paesi in cui si trovano i giacimenti di fonti fossili e di altre materie prime indispensabili alle loro economie per crescere. Quando non intervengono con i loro eserciti supertecnologici, i Paesi occidentali fomentano le ostilità tra le differenti etnie, o confessioni religiose, che nel secolo scorso hanno incluso forzatamente all’interno degli stessi confini, per costringerle in uno stato di conflittualità permanente. La loro politica estera viene dettata dalle esigenze delle società multinazionali dell’energia, delle armi e dell’edilizia (che interviene per ricostruire quanto viene distrutto dalle guerre), quando non è gestita direttamente dai loro manager, e utilizza in maniera spietata la violenza e il terrorismo di massa per mantenere alti i profitti aziendali, garantire sostanziosi dividendi agli azionisti, consentire alle popolazioni di continuare a mettere benzina nelle loro automobili e trascorrere le domeniche nei centri commerciali.
Attratti dalle sirene di un consumismo di cui, a parte casi eccezionali, raccolgono solo le briciole, o costretti a fuggire dalle atrocità delle guerre, gli immigrati che arrivano nei Paesi europei, quando trovano un lavoro regolare svolgono le mansioni meno qualificate e meno retribuite, fanno crescere il prodotto interno lordo di questi paesi e non il benessere di quelli in cui sono nati, con i contributi sulle loro retribuzioni consentono di pagare le pensioni dei nativi. Una serie di vantaggi che sarebbe insensato rifiutare, come dicono i sostenitori di un’accoglienza tutt’altro che disinteressata. Ma molti lavorano in nero come schiavi e s’accampano in bidonvilles, o vivono di espedienti, non sempre legali, e trovano sistemazioni precarie per le strade e in edifici abbandonati dei quartieri periferici delle grandi città, aggravandone il degrado a cui già sono ridotti dal disinteresse delle amministrazioni comunali. Tra gli abitanti di quei quartieri, dove la sofferenza sociale raggiunge i picchi più elevati, l’inserimento di gruppi di immigrati in condizioni precarie provoca tensioni e acuisce il risentimento per le differenze crescenti tra le pessime condizioni in cui sono costretti a vivere e il benessere delle classi sociali privilegiate che abitano nei quartieri dove quei problemi non esistono.[6] Rimaste prive di rappresentanza politica dalla mutazione genetica dei partiti di sinistra, che condividono con quelli della destra moderata la valutazione della globalizzazione e, quindi, delle migrazioni, come fattore di crescita, progresso, modernità e ricchezza culturale, inevitabilmente queste classi sociali si sono rivolte alle formazioni politiche, in particolare le destre xenofobe, che le valutano negativamente e cercano di contrastarle, facendo leva cinicamente sulla paura e alimentando l’odio verso lo straniero, spesso nelle maniere più becere, per accrescere il loro consenso elettorale.
La resistenza alle limitazioni della democrazia nell’epoca della globalizzazione
Nel pieno dell’offensiva finalizzata a ridurre gli spazi della democrazia per imporre le scelte di politica economica che la finanza internazionale e le società multinazionali ritengono necessarie per rilanciare la crescita, due scadenze elettorali nel mese di giugno del 2016 hanno dimostrato che la strategia messa in atto per applicarle incontra forme di resistenza inaspettate e rischia di provocare un effetto Wile Coyote.[7] In Italia, il Partito Democratico, che da difensore degli interessi dei lavoratori si è trasformato in docile esecutore delle volontà del capitale internazionale, è stato sconfitto inaspettatamente alle elezioni amministrative della città di Torino e in misura inaspettata alle elezioni amministrative della città di Roma, dal Movimento 5 Stelle, un soggetto politico dalla fisionomia non del tutto definita, ma sicuramente alternativa ai due schieramenti di destra e di sinistra, su cui si è articolata la dialettica politica nel novecento fino all’abbattimento del muro di Berlino, che ormai rappresentano due sfumature parzialmente differenti del pensiero unico dominante in tutto il mondo. In Gran Bretagna la maggioranza della popolazione ha inaspettatamente votato di uscire dall’Unione Europea in un referendum promosso dal primo ministro per consolidare il suo consenso politico, in cui la quasi totalità dei principali esponenti dei partiti di destra e di sinistra avevano sostenuto la necessità di restare. In Francia la contrapposizione tra la popolazione e il blocco dei partiti di destra e di sinistra si è manifestata a livello politico con il consenso elettorale crescente al partito nazionalista di estrema destra Front National, a livello sociale con gli scioperi di massa e le manifestazioni di piazza contro la loi travail. In Spagna, nel bipolarismo tra il Partito Popolare di centro-destra e il Partito Socialista di centro-sinistra, che si era formato dopo la fine della dittatura franchista, si è introdotto inaspettatamente con un peso elettorale equivalente a quello dei due partiti storici, il movimento politico Podemos, che si è fatto interprete delle istanze espresse dalle grandi manifestazioni di massa, per lo più giovanili, degli indignados contro la classe politica. In Grecia l’esito politico delle manifestazioni di piazza contro le politiche di austerity imposte dall’Unione Europea è stata la vittoria elettorale del partito di sinistra Siryza, immediatamente stroncata dall’intervento congiunto di Unione Europea, Banca centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.
La città di Torino è stata governata dal 1993 al 2016 da un blocco di potere in cui sono confluite le componenti politiche di centro-sinistra che hanno faticosamente costituito il Partito Democratico, le associazioni imprenditoriali, il mondo della finanza, le istituzioni culturali pubbliche e i mass media.[8] Nello stesso periodo un blocco di potere analogo, con un sostegno mediatico analogo, ha governato la città di Roma, con l’interruzione degli anni 2008-2013, quando il centro-sinistra è stato temporaneamente sostituito dal centro-destra, senza che il blocco di potere subisse modificazioni e mutassero gli orientamenti amministrativi. L’unica differenza rilevante tra le due esperienze, durate quasi un quarto di secolo, è stato un sostanziale rispetto della legalità nella gestione amministrativa della città di Torino, mentre la gestione amministrativa di Roma è stata pesantemente infiltrata dalla malavita organizzata. Alle elezioni del 2016 il Partito Democratico ha superato il 50 per cento dei voti solo nei quartieri ricchi delle due città e ha registrato le percentuali più basse nei quartieri popolari, dove la sinistra era sempre stata maggioritaria. Sarebbe miope vedere nella sua sconfitta ai ballottaggi con Movimento 5 Stelle, che si è ripetuta in altri 17 comuni per un totale di 19 su 20, solo una bocciatura della politica perseguita dalle amministrazioni comunali di centro-sinistra. A Roma questa motivazione ha avuto certamente un suo peso, che a Torino è stato molto minore. Nell’orientamento dell’elettorato hanno influito due fattori di carattere generale. In primo luogo il voto per il Movimento 5 Stelle è stato motivato non solo dal dissenso nei confronti delle politiche amministrative locali, che hanno perseguito la riduzione dei deficit tagliando soprattutto le spese per i servizi sociali, le manutenzioni, il decoro e la vivibilità dei quartieri periferici, ma dalla consapevolezza che quelle scelte erano l’applicazione a livello locale della strategia seguita dal Partito Democratico a livello nazionale, di ridurre il debito pubblico scaricandone i costi sulle classi popolari, in ottemperanza alle direttive delle istituzioni politiche, economiche e finanziarie internazionali. E il Movimento 5 Stelle si è presentato come l’alternativa politica al Partito Democratico, non solo nelle amministrazioni locali, ma anche livello governativo. Inoltre nella scelta elettorale ha influito l’indignazione per il divario crescente tra i disagi sempre maggiori in cui gli abitanti dei quartieri periferici erano costretti a vivere in conseguenza di quelle decisioni, e i privilegi di cui continuavano a godere gli appartenenti ai blocchi di potere che le avevano assunte. Significativamente l’ex sindaco di Torino, sconfitto alle elezioni, ha sostenuto che il voto al Movimento 5 Stelle sia stato dettato dall’invidia sociale. Qualche giorno dopo l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, in un dibattito televisivo ha usato la stessa locuzione di invidia sociale per definire l’indignazione suscitata dall’assunzione del fratello del Ministro dell’Interno alle Poste, senza concorso e con una retribuzione annua lorda di 160 mila euro all’anno.[9] Gli esponenti dell’ancien régime non avrebbero usato parole diverse.[10]
Promuovendo un referendum popolare sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, il primo ministro inglese David Cameron era sicuro della vittoria dei favorevoli, tra cui si annoverava insieme a tutta l’élite economica e finanziaria. Era convinto di rafforzare in questo modo il suo consenso e di ridimensionare il peso politico di coloro che sostenevano la necessità di uscirne, in particolare il partito nazionalista dell’eurodeputato Nigel Farage. La vittoria dei contrari è stato un fulmine a ciel sereno che ha suscitato reazioni isteriche da parte dei perdenti. La maggioranza dei mass media ha improvvisato un’analisi del voto sostenendo che i fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea erano stati gli anziani, le persone con bassi livelli culturali e gli abitanti delle zone rurali, mentre a favore della permanenza avevano votato i giovani, le persone colte e gli abitanti delle grandi città. I dati utilizzati per costruire la storia della contrapposizione generazionale erano il risultato di una indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, una settimana prima del voto, su un campione di 1652 persone, di cui appena 73 sopra i 65 anni. Sulla base di questi elementi, su cui nessuna persona che si proponga di capire le dinamiche sociali in corso farebbe il minimo affidamento, i mass media hanno scatenato una campagna di stampa accusando i vecchi di essere egoisti, raccontando di lacerazioni all’interno delle famiglie tra genitori chiusi mentalmente e figli aperti alle innovazioni e al futuro. Alcuni sono arrivati a mettere in discussione il diritto di voto su questioni così delicate a persone ignoranti e arretrate culturalmente, come notoriamente sono i contadini. L’economista di fama internazionale Mario Monti, ex presidente dell’Università Bocconi, più volte commissario europeo, nominato senatore a vita dall’ex Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, ex presidente del Consiglio, socio dei più importanti consessi finanziari internazionali, lo ha detto con estrema chiarezza: «Non sono d’accordo con chi dice che questo referendum sia una splendida forma di espressione democratica. Sono contento che la nostra Costituzione, quella vigente e quella che forse verrà, non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei trattati internazionali».[11] Gli hanno fatto eco autorevoli giornalisti, mettendo in discussione il suffragio universale e paventando sfracelli economici e sociali in conseguenza della confusione della democrazia col populismo (uno di loro è arrivato a scrivere che con l’esito del referendum l’Inghilterra era tornata a essere un’isola!). È stata avviata una raccolta firme per rifare la consultazione, a cui i giornali hanno dato per giorni un rilievo straordinario come se fosse possibile e facendo sparire di colpo la notizia quando l’assurdità dell’iniziativa è diventata palese.
Un’analisi dei dati provenienti dai seggi dopo le operazioni di conteggio dei voti ha dimostrato che in realtà le decisioni degli elettori erano riferibili, nell’ordine, al loro livello scolastico, allo status sociale e alla ricchezza pro-capite.[12] Dalle sintesi grafiche pubblicate sul Guardian è risultato che il voto contrario alla permanenza nell’Unione europea proviene dalle zone in cui vivono le classi lavoratrici, anche nelle grandi città. A Londra ha prevalso nei quartieri periferici, mentre i favorevoli hanno prevalso nei quartieri centrali. E così è avvenuto anche Manchester, Liverpool e in tutte le principali città del Regno Unito. La similitudine con quanto è avvenuto nelle elezioni amministrative in Italia 15 giorni prima è troppo evidente per non essere presa in considerazione.
Il 27 giugno 2016, all’incontro annuale del comitato Bretton Woods il vicedirettore del Fondo Monetario Internazionale David Lipton ha detto senza mezzi termini che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea decretata dal risultato del referendum è «l’inizio della fine della globalizzazione». Probabilmente si tratta dell’interpretazione più adeguata di quanto è avvenuto, che spiega anche le motivazioni di tanto accanimento contro l’esito referendario e la proposta indecente di ridurre la democrazia, impedendo alle classi subordinate dei Paesi industrializzati di dire no alle scelte con cui il potere economico e finanziario pretende di scaricare su di loro i costi necessari a sostenere l’illusione di rilanciare la crescita mediante la globalizzazione.
Wile Coyote
La cesura storica segnata dall’abbattimento del muro di Berlino ha sancito che il capitalismo è il sistema di gestione del modo di produzione industriale più efficiente, cioè più adeguato a far crescere la produzione di merci. Di conseguenza i partiti di sinistra, che hanno condiviso con i partiti di destra l’identificazione del progresso con la crescita della produzione di merci, chiamata anche pudicamente sviluppo, hanno abbandonato ogni riferimento al socialismo e si sono progressivamente spostati a destra, aderendo all’ideologia liberista. Con estremo sprezzo del ridicolo, alcuni dirigenti dei partiti di sinistra hanno rivendicato di averla sempre condivisa, anche mentre la combattevano! In conseguenza dello spostamento della sinistra a destra, il capitalismo ha ritenuto di aver stroncato ogni alternativa,[13] senza rendersi conto che le ingiustizie sociali e i problemi ambientali causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci avrebbero fatto emergere altri antagonisti, diversi e più radicali, perché, a differenza della sinistra, non si sarebbero limitati ad avversare la gestione di un modello economico e produttivo di cui condividono le finalità, ma avrebbero visto nel modello in sé stesso la causa dei problemi da risolvere. Problemi che non investono soltanto le relazioni degli esseri umani tra loro, che tutto sommato si possono affrontare anche tentando di ridurre a forza gli spazi della democrazia, ma coinvolgono il rapporto della specie umana con l’ecosistema terrestre, dove le prove di forza politiche e militari non possono essere utilizzate. Nella critica alle conseguenze negative che la globalizzazione ha prodotto nei paesi industrializzati e nell’ecosistema terrestre, sono confluite sensibilità e orientamenti politici molto diversi: il rimpianto delle fasce anziane delle popolazioni per la perdita della sicurezza sociale e la riduzione del benessere, l’angoscia dei giovani che non trovano lavoro e dei ceti medi per il peggioramento delle loro condizioni lavorative e retributive, la preoccupazione per la gravità della crisi ecologica derivante dall’estensione di un modello economico e produttivo che ha già superato i limiti della compatibilità con le risorse della terra, la paura del terrorismo, la difesa delle identità nazionali minacciate dai flussi migratori, la difesa dei beni comuni, la lotta contro l’aumento delle diseguaglianze sociali, contro la riduzione della democrazia, contro il potere della finanza internazionale e delle società multinazionali. Uno schieramento composito e disomogeneo, che sta frapponendo una resistenza inaspettata alle scelte politiche funzionali alla globalizzazione e sta riproponendo la valorizzazione delle economie locali, anche se in due prospettive molto diverse tra loro: una prospettiva finalizzata a soddisfare la maggior parte delle esigenze vitali dei gruppi umani con le risorse degli ambienti in cui vivono, senza eccedere il valore 1 dell’impronta ecologica, e una prospettiva nazionalistica, che ripropone rapporti conflittuali e di prevaricazione tra i popoli. In relazione ai Paesi europei queste due tendenze sono rappresentate da chi dice no a questa organizzazione dell’Unione Europea e da chi dice no all’Unione Europea. La storia induce a credere che la seconda abbia più possibilità di affermarsi, ma solo la prima ha capacità di futuro ed è anche in grado di recuperare in positivo le pulsioni che l’altra tende a indirizzare in senso distruttivo, come la valorizzazione delle identità culturali di ogni popolo, ovvero dei modi in cui le generazioni precedenti si sono rapportate con i luoghi in cui vivevano, hanno organizzato le relazioni umane e rapporti sociali, hanno elaborato il sistema dei valori, i modelli di comportamento, il rapporto col sacro. Non perché si ritengano superiori ad altri modi, ma perché le società si organizzano in modi differenti in relazione alle differenti caratteristiche dei territori in cui vivono.
I limiti che i sostenitori della globalizzazione vogliono porre alla democrazia, accentrando il potere negli esecutivi e riducendoli a esecutori di decisioni prese da organismi internazionali non elettivi che rappresentano gli interessi del grande capitale, sono la risposta all’inaspettata resistenza sociale incontrata dalle misure di politica economica finalizzate a rilanciare la crescita mediante l’estensione del modo di produzione industriale in tutto il mondo. Ma questa strategia si basa su un errore di fondo e può dare un esito opposto a quello che si propongono i suoi promotori.
L’errore di fondo consiste nel credere che gli ostacoli alla globalizzazione provengano principalmente dalle resistenze delle classi sociali che dovrebbero pagarne i costi, che pure non possono essere sottovalutate. In realtà sono costituiti da due fattori oggettivi che non dipendono dalla volontà degli esseri umani e, quindi, non sono gestibili né politicamente, né militarmente. In primo luogo, come si è ripetuto più volte, la globalizzazione potenzia la tendenza, insita nel modo di produzione industriale, a far crescere la domanda meno dell’offerta e, quindi a determinare crisi di sovrapproduzione, che sino ad ora sono state superate grazie alla progressiva estensione dell’economia di mercato a paesi in cui l’economia era ancora fondamentalmente di sussistenza. Con la globalizzazione questi margini stanno per finire. In secondo luogo il sistema produttivo industriale ha già superato la capacità dell’ecosistema terrestre di fornirgli le risorse di cui ha bisogno per continuare a crescere e la sua capacità di metabolizzare gli scarti, liquidi, solidi e gassosi che emette. Questi margini sono finiti. La crescita della produzione di merci non può che aggravare entrambi i problemi e portare in tempi più brevi di quanto si immagini all’autoannientamento dell’umanità.
Il risultato molto diverso da quello sperato che possono dare le misure finalizzate a ridurre la democrazia e ad accentrare il potere politico nell’esecutivo è costituito dal già citato effetto Wile Coyote. Non è detto che i risultati elettorali diano la maggioranza ai partiti che vogliono concentrare in questo organo costituzionale un potere incontrollabile dal potere legislativo e dal potere giudiziario. Gli esiti delle elezioni amministrative in Italia e del referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea sono un’anticipazione di ciò che può accadere. Non si può escludere che nella trappola preparata per gli oppositori finiscano coloro che l’hanno predisposta con cura. Come succede a Wile Coyote, che finisce con l’essere regolarmente vittima degli attentati che prepara al road runner Beep Beep.
Se la volontà di porre limiti alla democrazia risponde a una necessità intrinseca della crescita nell’epoca della globalizzazione, come testimoniano il documento della J P Morgan, la lettera di Trichet e Draghi al presidente del Consiglio italiano, l’intervento della Troika per annullare l’esito del referendum in Grecia, il TTIP, la riforma del sistema elettorale e della Costituzione italiana, le proposte di limitare il diritto di voto, il jobs act, la loi travail e tutti gli altri interventi nell’ottica della decostituzionalizzazione e della deparlamentarizzazione, per usare le definizioni du Barbara Spinelli, allora la difesa della democrazia diventa un tassello della rivoluzione culturale della decrescita.[14] In un tornante della storia in cui l’umanità, appiattita sulla dimensione materialistica e accecata dall’avidità, ha posto le premesse del suo autoannientamento, l’accusa di voler imporre scelte esistenziali basate sul pauperismo e sulle rinunce che alcuni sostenitori della crescita rivolgono a chi ritiene che solo una decrescita felice, cioè selettiva e governata, ci può salvare, acquista connotazioni grottesche, perché sono stati i sostenitori della crescita a uniformare i modelli di comportamento di massa usando spregiudicatamente la pubblicità, sono i sostenitori della crescita a cercare oggi di ridurre gli spazi democratici, mentre le persone libere, autonome e orgogliose di esserlo fino all’irriverenza, che si rifiutano di subordinare le loro scelte esistenziali al pensiero unico e agli imperativi del consumismo, non possono non essere democratiche. E oggi non possono non schierarsi tra coloro che difendono la democrazia da chi, nella vana speranza di rilanciare la crescita, sta usando tutti i mezzi di cui dispone per ridurne i poteri.
[1] Nel modo di produzione pre-industriale il lavoro è finalizzato a produrre beni per soddisfare dei bisogni, sia nel caso in cui vengano prodotti per autoconsumo (i contadini), sia nel caso in cui siano prodotti per essere venduti a clienti che li richiedano (i prodotti artigianali e le eccedenze agricole rispetto al fabbisogno dei contadini). Pertanto il denaro è un mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale il lavoro è finalizzato a produrre merci, cioè oggetti e servizi da vendere, allo scopo di ricavare più denaro di quanto ne sia stato investito per produrle. Pertanto il denaro diventa il fine della produzione e la misura della ricchezza. L’indicatore con cui si misura il benessere di una nazione diventa il prodotto interno lordo, ovvero il valore monetario delle merci a uso finale prodotte e comprate in un periodo di tempo determinato.
[2] Questo processo è iniziato in Inghilterra nel Settecento con le leggi sulla recinzione dei campi e la privatizzazione delle terre comuni, che hanno impedito ai contadini di continuare a praticare un’economia di sussistenza e li hanno costretti a diventare operai nelle fabbriche. È proseguito con la concorrenza esercitata dalle prime fabbriche tessili nei confronti degli artigiani. Da allora si è esteso progressivamente. Su questo tema, di cui analizzo brevemente le caratteristiche attuali in un capitolo di questo libro, mi permetto di rimandare al mio pamphlet Decrescita e migrazioni, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2009, e al mio libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 20016, capitolo 3: La guerra ai contadini, agli artigiani e alle comunità, pagg. 49-81.
[3] In Italia le modifiche al regime pensionistico sono state introdotte dalla legge Fornero (gennaio 2013)
[4] A questo proposito mi permetto di rimandare al mio libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 2016
[5] «L’obiettivo del TTIP è far crescere il commercio e gli investimenti tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, da cui ci si aspetta il risultato di creare occupazione e crescita economica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Dato questo obiettivo, in primo luogo valutiamo l’impatto economico derivante dal TTIP. Ci sono alcuni studi sull’impatto economico del TTIP. Il principale, preparato per l’EC, è il CEPR (2013), che stima, quando il TTIP sia a pieno regime, una crescita del PIL tra lo 0,3 e lo 0,5 per cento in più rispetto a quella che si avrebbe se il TTIP non fosse in vigore». Un incremento davvero strepitoso. Il testo è tratto dal documento Initiating a public dialogue on environment protection in the context of the Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP negotiations). Background Report. AAVV. Institute for European Environmental Policy. April 2016
[6] Dopo aver perso le elezioni, l’ex sindaco PD di Torino Piero Fassino ha detto di aver verificato per esperienza diretta che l’immigrazione è problema «più sentito nella aree a maggiore sofferenza sociale, dove gli immigrati sono visti in competizione per la casa, il lavoro, il welfare. Si tratta delle stesse aree nelle quali abbiamo avuto i risultati peggiori. Per esempio nell’assegnazione delle case popolari, il criterio basato sulla composizione dei nuclei familiari premia sempre più spesso le famiglie immigrate, che fanno più figli. Bisogna domandarsi fino a quando la graduatoria unica è sostenibile. Questo per non alimentare conflitti tra chi quel diritto lo esige». Repubblica Torino, 9 luglio 2016
[7] Personaggio di un fumetto che, per catturare il suo antagonista, il road runner Beep Beep, escogita una serie di trappole, per lo più a base di esplosivi, di cui finisce regolarmente per essere vittima. È stato evocato in un dibattito televisivo dall’onorevole Gianni Cuperlo del Partito Democratico, per commentare la sconfitta del suo partito e la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative del 2016, paventando che un risultato analogo possa ripetersi al referendum sulla riforma costituzionale, voluta a tutti i costi dal primo ministro italiano Matteo Renzi per rafforzare il suo potere politico e annullare quello dei suoi avversari. L’immagine si attaglia perfettamente anche al primo ministro inglese David Cameron, che ha promosso il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea convinto di vincerlo e di indebolire strategicamente i suoi avversari antieuropeisti, col risultato di aver subito una sconfitta che ha concluso anzitempo la sua carriera politica.
[8] Alle elezioni comunali del 1993 la sinistra moderata sostenuta dal grande capitale e dalla finanza si presentò con una lista alternativa a una lista di sinistra impedendole di eleggere il sindaco al primo turno e superando di poco, inaspettatamente, la lista di centro-destra. Al ballottaggio con la lista di sinistra, che al primo turno aveva ricevuto quasi il doppio dei suoi consensi, raccolse i voti del centro-destra ed elesse il sindaco.
[9] La retribuzione annua lorda di un insegnante di scuola media con 35 anni di servizio è circa 26.000 euro.
[10] In un’intervista rilasciata a Sebastiano Messina e pubblicata su Repubblica on line il 21 giugno 2016, Piero Fassino ha dichiarato: «Il Movimento 5 Stelle ha la responsabilità di aver alimentato l’invidia sociale, in questi anni». Gabriele Albertini ha usato le stesse parole il 7 luglio nella trasmissione televisiva Omnibus sulla rete 7.
[11] Dichiarazione rilasciata al quotidiano La Stampa il 18 giugno 2016.
[12] Andrea Coccia, Altro che la guerra vecchi contro giovani raccontata dai giornali. Il conflitto che emerge dalla brexit non è generazionale, ma di classe. E per non farlo esplodere dobbiamo saperlo vedere, Linkiesta, 29 Giugno 2016
[13] È nota l’affermazione di Margaret Tatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990: There is no alternative, entrata nel linguaggio politico con l’acronimo TINA.
[14] Barbara Spinelli, L’apatia della democrazia, in Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2015
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La decrescita non è e non può essere uno slogan
Di Alessandro Perosa
- In principio era un grido di battaglia
Sluaghghairm, da cui slogan, è una parola di derivazione gaelica – composta dai termini ghairm ‘grido’ e sluagh ‘guerra’ – che significa grido di battaglia lanciato dai componenti di una tribù o di un clan contro i propri nemici. La sua prima attestazione in italiano risale al 1905, quando il termine viene usato per significare sentenza o massima, così come anche talvolta leitmotiv, parola d’ordine di una causa o linea di partito.
Parallelamente a questi significati, nel XX secolo, il mondo occidentale ha declinato il termine slogan anche – e soprattutto – in ambito pubblicitario come sinonimo di motto creato per caratterizzare un prodotto. E così, nel processo di onnimercificazione compiuto negli ultimi duecento anni dalla razionalità capitalista, prima, e da quella tecnologico-capitalista[1], poi, da originario grido di battaglia ha finito per significare in modo quasi esclusivo «frase ad effetto, brevissima e incisiva, della pubblicità commerciale»[2].
L’orizzonte semantico contemporaneo lo considera, quindi, uno strumento espressivo sintetico, rapido ed efficace, spesso orecchiabile, pronunciato con l’intento di enunciare un concetto, magari risaputo e spesso ovvio, destinato a restare impresso il più possibile nella mente del destinatario. Si tratta di una frase fatta, di una locuzione che serve a blandire, a circuire le persone, persino a confonderle, e non certo a coinvolgerle in un processo relazionale paritetico e linguisticamente significante. Chi ha interesse a spostare l’attenzione delle masse su un oggetto o su un fatto minore, usa la tecnica dello slogan come arma di «distrazione» collettiva. Così come chi vuol convincere i consumatori della bontà di un prodotto, ne esalta a dismisura le qualità con frasi ad effetto, che colpiscono l’attenzione e condizionano i gusti di chi ascolta.
Si pensi, a tal proposito, al fenomeno commerciale delle mode o alla tecnica con cui il potere economico riesce a garantirsi ‘nuove’ crescite del volume d’affari, attraverso la spinta compulsiva all’acquisto, stimolata dall’obsolescenza percepita e sorretta dalla pubblicità, che dello slogan si nutre.
Nella società dell’immagine, in cui ci troviamo a vivere, il ‘grido di battaglia’ non può che essere suadente e capace di orientare il senso estetico e i bisogni delle masse, facendosi ben presto strumento di tortura psicologica. Chi opera nel mondo pubblicitario sa che una «frase fatta» e una rima ben assestata consentono di memorizzare senza sforzo un prodotto, che diventa desiderabile principalmente in quanto portatore di novità. Perché il nuovo, in un mondo abitato da chi crede di camminare nel solco dell’innovazione continua e illimitata, è sempre meglio del vecchio. E lo slogan serve proprio a convincere l’acquirente che il prodotto stipato nello scaffale sia davvero il migliore in circolazione: «Acquistalo, e non rimarrai deluso!», è il refrain più noto. «Non seguire il gregge, fai la pecora nera e compra la nostra auto», recitava uno spot di una nota casa automobilistica: salvo però omettere che se tutti i possibili acquirenti fanno le pecore nere, finiscono inevitabilmente per seguire il gregge, non si distinguono più dagli altri e si conformano al gusto mediano.
La «parola pubblicitaria» serve a comunicare messaggi e simboli in modo rapido, attraente e facilmente comprensibile. Per questo motivo, anche il suo stile è linguisticamente mediocre: non si tratta di fare letteratura, di affascinare con narrazioni raffinate, o di viaggiare verso l’utopia coi piedi ben piantati in cielo fra i sogni. Qui si deve solo persuadere l’acquirente della bontà del prodotto: e per farlo non resta che elaborare frasi fatte, facilmente memorizzabili e semplici nella sintassi.
Se si osserva con attenzione il contesto relazionale entro cui agisce questo tipo di linguaggio, ci si accorge però che proprio il proliferare di discorsi concisi e orecchiabili produce una degenerazione sociale e politica. Perché questo tipo di linguaggio non solo controlla e orienta i comportamenti economici della massa, ma finisce per trasformare per intero la lingua – e con essa l’orizzonte culturale – della società.
Il parlare è un atto originario di fondamentale importanza. Chi parla e nomina le cose in modo compiuto e col rispetto necessario, conferisce a queste stesse cose realtà. La realtà quindi non è data una volta e per sempre, ma è parlata. Ovvero, una res è proprio quella res, e non un’altra, perché nell’atto di nominarla s’innesca un percorso di ri-conoscimento linguistico che costituisce la cosa stessa e la rende vitale. La realtà non sarebbe ciò che appare – e non si darebbe a ognuno di noi nelle forme in cui siamo abituati a ri-conoscerla – se non esistesse la possibilità di dire le cose (enti) che appaiono, chiamandole per nome. E dare un nome agli enti significa de-finirli, porli in ordine, collocarli all’interno di un contesto ontologico unitario, costituito dai variegati ‘modi d’essere’ (forme delle res), che chiamiamo realtà.
Non è certo il caso di aprire in queste righe una riflessione sul rapporto generativo tra il parlante e la «cosa nominata», ma è pur sempre utile notare che la parola pronunciata modifica il mondo che abitiamo, e il mondo, a sua volta, condiziona il nostro modo di esprimerci.
Per questo motivo, chi impoverisce il linguaggio attraverso il sistematico ricorso allo sluaghghairm trasforma anche l’orizzonte in cui vive, rendendolo sempre più uniforme e monodimensionale. In un contesto sociale in cui lo slogan assurge a gesto linguistico prioritario, l’intero orizzonte sociale, culturale e politico non può far altro che mostrare lo spazio sloganistico come segno del tempo. Se tutto è riconoscibile linguisticamente attraverso lo slogan, diventano tali anche le parole che nominano l’amore, le relazioni sociali, politiche, le dinamiche interpersonali, che per mostrarsi in forma realmente umana avrebbero invece bisogno di profondità, di riflessione, di pazienza linguistica, di tempo generativo. Un amore soggetto a slogan può essere consumato, ma non certo vissuto con la pienezza necessaria. Lo slogan è il sesso che vince sull’eros; è il bisogno che schiaccia il desiderio; è l’oppressione che annulla la libertà di un’esperienza vissuta in pienezza e gratuità: perché l’atto di donare all’altro tutto se stesso palesa una complessità irriducibile e non rappresentabile in uno spot. Quando tutto è slogan, la donazione di sé diventa anch’essa sloganistica: lo slogan quindi trasforma il mondo e l’uomo in res condizionate dal «grido di battaglia» del mercato. Dove tutto ha un prezzo, soggetto alla domanda e all’offerta.
Ora, non è necessario essere dei raffinati glottologi per capire che la semplificazione linguistica sta trasformando radicalmente gli esseri umani e le relazioni che essi costituiscono con l’ambiente circostante. E d’altra parte, chi ha un minimo di profondità intellettuale, comprende molto bene che questo tentativo di compiere una sorta di reductio ad unum linguistica e culturale è volto a uniformare gusti e orientamenti, in vista di una maggiore ottimizzazione del sistema produttivo. La comunicazione per slogan serve a divertire e a rendere orecchiabile un’idea, una pro-posta commerciale (che diventa surrettiziamente im-posta), un messaggio pubblicitario, che puntano a collocare in tutto il mondo i medesimi prodotti. Chi parla non si preoccupa di sapere se la merce reclamizzata o l’ostentazione di una certa idea sia (almeno per lui) davvero buona o nociva, condivisibile o inaccettabile, dispotica o conviviale, sostenibile o distruttiva. L’importante è che la frase ad effetto resti piantata bene in mente agli ascoltatoti, e sappia sovrastare le altre «grida di battaglia» che si affacciano nell’agone con sempre maggior violenza, tenacia e ostinazione.
In un mondo in cui le informazioni sono sovrabbondanti, è necessario andare rapidamente al dunque, e per farlo bisogna ridurre il vocabolario ai soli termini che abbagliano. Per questo motivo, l’uso reiterato di questa tecnica comunicativa finisce per imbarbarire il linguaggio, che punta soltanto all’eufonia e alla pronta memorizzazione, conseguite attraverso metodiche di costruzione sintattica prese in prestito – non prima di averle stravolte – dalla poesia[3]. D’altra parte lo slogan è spesso in rima e costruito secondo una metrica che gli conferisce un andamento ritmico suadente, tale da prestarsi alla facile memorizzazione. La sua fortuna è anzitutto musicale: strutturalmente è di certo più vicino al rap che alla musica «colta». Ovvero, si presenta con un’idea schematica e superficiale, che si esprime in poche formule approssimative[4]. La musica ritmica e le parole eufoniche si fanno jingles, si insinuano nei meandri della memoria e consentono di accomunare una frase ad effetto a un determinato prodotto.
Chi abita dentro l’orizzonte tecnologico-capitalista fa ogni giorno esperienza di questa neolingua. Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno può pensare di farla franca, neppure chi crede di appartenere all’élite culturale. Perché gli stessi pubblicitari sono vittime dei messaggi che inventano: d’altronde se il limite del mio linguaggio è il limite del mio mondo, chi inventa o parla per slogan finisce per vivere irrimediabilmente nel mondo sloganistico che ha creato. Egli ne è parte, ne viene condizionato come tutti gli altri. È questa, se si vuole, la vittoria dello strumento sulla razionalità: è il dominio del mezzo che prende pieno possesso dell’essere umano, trasformandolo dalle fondamenta.
Lo slogan s’impadronisce di tutti noi rendendoci marionette in mano altrui. Slogan è la voce del potere impersonale, è la voce di chi vuole massimizzare il dominio e punta dritto al sodo, ben sapendo che questo sodo è violenza, sopruso, proprietà: ma disconoscendo, al contempo, che proprio quel sodo a cui aspira è la lama affilata con cui l’homo publicitarius sta tagliando il ramo sul quale è seduto.
- Lo slogan è la forma violenta della parola economica
Lo sluaghghairm è una lama di coltello che entra nel cuore dell’essere, fino a sfibrarlo; è uno strumento linguistico feroce, che abita la scissione ontologica, se ne nutre, e cibandosene approfondisce il solco che separa il singolo dal contesto in cui si trova[5]. Per colmare questa frattura violenta è necessario portare a compimento l’orizzonte entro cui si rende pensabile ogni parola, ogni azione, ogni istituzione, ogni potere del «nostro» mondo ontologicamente frammentato; è necessario condurre al tramonto l’occidente, ovvero farlo morire, ch’è poi un portarlo alle estreme conseguenze, per vederlo finalmente schiantare sulla linea estrema del proprio mondo; sì che lì, al confine tra cielo e terra, possano scorgersi un giorno le luci di una nuova alba utopica.
Se lo slogan porta all’eccesso la frammentazione ontologica (ovvero la scissione fra l’Io e il contesto naturale, fra l’Io e l’altro da sé: umano e non umano), il logos paziente, rispettoso e pronunciato sottovoce – quasi sibilando – apre le porte a una relazionalità conviviale e fraterna di tipo orizzontale, in cui tutti si riconoscono reciprocamente come parlanti. La parola, che si affranca dalla voracità, conferisce una pacifica realtà al mondo; il discorso conviviale fa partorire lentamente le cose, le ordina sullo spazio esperienziale e le pone in una relazione costitutiva non-violenta: le une senza le altre sarebbero impensabili, perché ogni cosa è proprio quella cosa in virtù dei rapporti ontologici e linguistici che la parola stessa costituisce con l’essere circostante. Mentre il tecnicismo sloganistico scinde i legami e s’impone sulla scena come un Deus ex machina che condiziona il mondo, manipolando le facce esterne (che sono gli elementi formali chiamati significanti) e talvolta anche quelle interne (i significati) dei termini. Per questo lo slogan è lo strumento prediletto dall’ideologia, che pretende di dire il vero e costringe la realtà poliedrica ad entrare all’interno di uno schema preordinato, sfinendo la realtà stessa e coartando la libertà d’ognuno.
Chi vuole liberare il proprio linguaggio dalla violenza non può far altro, allora, che ripensare dalle fondamenta nuove forme sintattiche capaci di «prendere tempo». Il discorso paziente e-duca i parlanti, che dalla relazione conviviale traggono nuova linfa esistenziale; si vive nel discorso, perché le parole che nominano le cose, consentono un reciproco riconoscimento. Chiamare qualcosa col proprio nome significa dargli realtà, portarlo in superficie, relazionarsi al suo modo d’essere, ovvero alla sua forma. E non è forse proprio questa l’idea di Simone Weil, quando nel ragionare sul bene e sul male scrisse: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»[6]?
L’uso sistematico dello slogan non è ristretto al solo ambito economico, ma in una società dell’onnimercificazione tutto viene ridotto a mercato e a relazioni mercantili. Si pensi ad esempio al condizionamento subito dallo sport e dalla politica, che dello slogan continuano a fare ampio uso con conseguenze incalcolabili sulla riduzione dell’immaginario sociale. Il motto politico imbarbarisce il discorso e lo rende commerciale. Le proposte programmatiche si trasformano in banali consigli per gli acquisti, in promesse vuote, anche se magari di particolare effetto. E non è un caso che la politica sia scomparsa ormai da tempo dalle sedi di partito, dai luoghi storici d’aggregazione, dalle piazze, dai cortei, dai luoghi di cultura, finendo relegata negli angusti ambiti dei talk show televisivi. Luoghi fittizi in cui maschere parlanti urlano e cercano il consenso senza curare minimamente la profondità della riflessione e il rigore del pensiero.
Ma c’è di più. Un di più rappresentato dal web, ch’è ormai la dimensione principale in cui si trova a vivere l’homo technologicus. E questo di più è una voragine senza fondo, che rischia di inghiottire ciò che incontra, ricacciandolo nel ventre dell’insignificanza. Perché la parola pronunciata nello spazio virtuale è parola che vive a nessun dove: ma questa, più che anelare all’utopia, spinge difilato verso la distopia ideologica del potere tecnico che sottomette ogni cosa all’incremento del suo dominio.
Quando si ragiona sul linguaggio in rapporto al mondo virtuale, è necessario cercare di capire quale sia la dimensione verbale di quel mondo. O per dirla altrimenti: dato che i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio, quando mi trovo a chattare sui social, che tipo di parole uso? E che mondo è quello dei social? Dove si trova? E che valore hanno le parole mediate da una tastiera e da uno schermo? E l’altro, con cui entro in relazione, esiste davvero, è una persona che conosco e che immagino stia parlando con me in questo momento, o ignorando chi sia (perché non lo conosco, non l’ho mai visto, non so neppure dove abiti), io suppongo che il tizio con cui credo di parlare esista sul serio, quando invece potrebbe essere un fake, magari anche autogenerato dal computer?
Ma non è ancora tutto. La tecnologia ha finito per trasformare dalle fondamenta il mondo, e con esso anche l’essere umano: le sue abitudini, il suo linguaggio, le sue passioni. A fronte di una scissione ontologica, di una frantumazione della relazione sociale, si cerca la connessione continua col mondo virtuale. Nessuno è più in grado di stare con se stesso, di abitare il silenzio, e paradossalmente ciò avviene all’interno di un contesto sociale che spinge sempre più alla frammentazione, alla disgregazione dei legami sociali. Perché quando si è soli si è anche più facilmente preda del mercato. E così, l’homo technologicus abita da ignaro la separazione, il rintanamento sociale, per poi connettersi alla grande rete virtuale che collega singole monadi in tutto il mondo. Egli incarna realmente la solitudine, per vivere relazioni artificiali sui social. E nel percorrere a perdifiato la contemporaneità tecnica, arriva al paradosso per cui i ritmi di vita sono così pressanti e disumani da rendergli impossibile qualunque altro tipo di rapporto che non sia mediato dallo schermo di un computer. Perché deve lavorare, consumare, produrre a ritmi sempre più sostenuti. E al contempo – è qui l’inganno – crede a torto che quello spazio di vita sociale perduto, lo possa recuperare in maniera fittizia navigando in internet: con l’illusione di avere il vento in poppa e il mondo a portata di mano.
Ma sui social non si può parlare davvero, ed è impossibile esprimere un ragionamento sul serio, un pensiero profondo che abbia un minimo senso, che intenda esprimere un sentimento, una visione, una lettura del mondo e della vita. Davanti allo schermo non ci sono gli occhi dell’altro a guardarti. Non si sente il suo respiro affannato o gioioso, non vedi le emozioni scintillargli dagli occhi, e non esiste il mondo con le sue luci e i suoi colori cangianti. Hai solo uno spazio bianco virtuale su cui scrivere uno stato (d’animo?) che qualcuno commenterà, probabilmente senza neppure averlo letto bene. D’altra parte non c’è tempo, e le parole sono sempre troppe. Così, per fare in fretta, non resta che esprimersi per slogan, per frasi fatte, masticate e vomitate una miriade di volte da pubblicitari che intendono orientare gusti e bisogni. Frasi che non significano niente, perché sono decontestualizzate, perché non si ha l’agio di difenderle, di argomentarle, di criticarle. Nei social è come se le parole calassero dall’alto, da un altrove insondabile, sconosciuto. E allora tutto diventa inutile: non ha più senso distinguere, articolare pensieri, ragionare. La parola non significa più niente, ma serve soltanto a lanciare un grido. Che maschera spesso un’accorata richiesta di riconoscimento. D’altronde cos’altro è la lotta per emergere sugli altri, per scalare la piramide sociale, per la fama? Cos’è la rincorsa al successo televisivo e mediatico in genere? È un disperato bisogno di vedersi riconosciuti in un mondo che ha distrutto le relazioni ontologiche, i legami sociali e familiari, lasciando tutti soli e in balia del mercato.
Per tutta questa serie di motivi sin qui discussi, la decrescita felice – che si propone di ricucire le scissioni ontologiche, riequilibrando i rapporti fra gli esseri umani e il resto della natura – non può assumere in alcun modo le caratteristiche di una «parola bomba», né tanto meno venir confusa con lo slogan. Perché lo slogan è la forma violenta della parola economica.
[1] Per comprendere in quale senso debbano essere intese la cultura capitalista e quella tecnologico-capitalista si rimanda al saggio: A. Pertosa, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014, (si veda in particolare il capitolo III).
[2] M. Cortellazzo – P. Zolli, Il nuovo etimologico, Zanichelli, Bologna 2015, p. 1540 (nota relativa alla voce slògan).
[3] Cfr. F. Sabatini, Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, «Il Ponte» 24 (1968), pp. 1046-1062 (il saggio è stato ristampato in Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità. Antologia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma 1987, pp. 91-98; poi in Chiantera 1989, pp. 121-138); A. Stefinlongo, L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Aracne, Roma 2008, pp. 195-219.
[4] Il vocabolario Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2003, p. 1690.
[5] Della scissione ontologica ho parlato diffusamente in Pertosa, Dall’economia all’eutéleia, cit. (si vedano in particolare i capitoli III e V).
[6] S. Weil, Quaderni (volume primo), Adelphi, Milano 2010, p. 199 (or. Cahiers, I, Librairie Plon, Paris 1970).
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Beni e merci: è così difficile da capire?
La crescita economica, occorrerà ripeterlo fino allo sfinimento ma non basterà, non è l’aumento della quantità dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico e produttivo in un periodo di tempo determinato, perché il parametro con cui si misura, il Prodotto Interno Lordo, è un valore monetario che si calcola sommando i prezzi degli oggetti e dei servizi a uso finale (consumi e investimenti) scambiati con denaro, cioè comprati e venduti, in quel periodo di tempo. La crescita del PIL è pertanto l’incremento percentuale di quel valore monetario rispetto al valore monetario del PIL calcolato nell’identico periodo temporale precedente.
La parola che definisce gli oggetti e i servizi scambiati con denaro è merci; la parola che definisce la compravendita di oggetti e servizi è commercio; il luogo in cui avvengono gli scambi commerciali è il mercato.
La motivazione che induce le persone a comprare un oggetto o un servizio è l’utilità, vera o presunta, oggettiva o soggettiva, che pensano di ricavarne. La parola che definisce un oggetto o un servizio da cui le persone pensano di ricavare un’utilità è bene.
I concetti di bene e di merce indicano pertanto due caratteristiche diverse di un oggetto o di un servizio. Diverse non significa contrarie, perché il contrario di merce non è bene, ma oggetto o servizio non scambiato con denaro, e il contrario di bene non è merce, ma oggetto o servizio che non offre alcuna utilità. Nello stesso oggetto non possono coesistere due caratteristiche contrarie, ma sono compresenti normalmente due o più caratteristiche diverse. Una merce non può non essere comprata e un bene non può essere inutile o dannoso, ma un oggetto o un servizio che si acquista perché offre un’utilità, reale o presunta, è un bene che si ottiene sotto forma di merce.[1]
Ci sono però anche beni, cioè oggetti e servizi utili, che non si comprano, o per scelta perché si preferisce autoprodurli o scambiarli sotto forma di dono, o perché non si possono comprare: i beni relazionali, o perché appartengono alla comunità di cui si fa parte e si ha diritto a usufruirne: i beni comuni. I beni autoprodotti, i beni scambiati sotto forma di dono, i beni relazionali, i beni comuni non non rientrano nella categoria delle merci. Di contro, alcuni oggetti e servizi che si comprano e rientrano, pertanto, nella categoria delle merci, non hanno nessuna utilità, per cui non sono beni: gli sprechi dovuti a inefficienza tecnologica o organizzativa, come l’energia che si disperde dagli edifici mal coibentati (almeno il 70 per cento di quella che si utilizza), e il cibo che si butta.
Un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci, che identifica il benessere con la crescita del PIL, cioè con l’aumento del valore monetario delle merci a uso finale scambiate con denaro in un periodo di tempo determinato, non può, per definizione, non tendere a ridurre con tutti i mezzi possibili la produzione di beni che non sono merci e aumentare la produzione di merci anche quando non sono beni. Cancella dall’ambito del sapere condiviso il saper fare necessario all’autoproduzione, valorizza la concorrenza tra gli individui, distrugge le comunità e le famiglie, usa la scuola, la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa per persuadere che il modo migliore di avere un bene è comprarlo, identifica il benessere col possesso di cose e l’innovazione col miglioramento, mercifica i beni comuni, riduce il lavoro alla produzione di merci in cambio di un reddito, eliminando dall’immaginario collettivo la possibilità di lavorare per produrre almeno una parte dei beni di cui si ha bisogno, trasforma il denaro da mezzo per acquistare i beni che si possono avere solo sotto forma di merci a fine della vita.
Se si ritiene che la crescita della produzione di merci abbia superato la capacità della biosfera di fornirle le risorse che le sono necessarie e di metabolizzare gli scarti che genera, che sia la causa delle guerre per il controllo delle fonti energetiche fossili di cui ha bisogno, della crisi climatica, delle iniquità crescenti tra le classi sociali, tra i popoli, tra la specie umana e le altre specie viventi, non si può non operare per contrastarla e rallentarla, strappandole la maschera seducente con cui nasconde il suo vero volto agli occhi dell’umanità. Questo è l’obbiettivo che si è posto il variegato mondo di coloro che sostengono la necessità di una decrescita. Su come si possa raggiungere le opinioni non sono concordi, come inevitabilmente accade nelle fasi nascenti di un paradigma culturale alternativo a quello vigente, a cui ognuno approda a partire dalla sua formazione culturale e dai suoi precedenti orientamenti politici. Questo non è un limite, ma un valore paragonabile alla biodiversità che, attraverso il confronto consente di depurare il paradigma culturale nascente dai residui del paradigma culturale precedente insiti in ogni percorso individuale. Solo così è possibile farlo emergere progressivamente dal bozzolo in cui è rinchiuso, come le statue che, secondo Michelangelo, erano contenute nel blocco di marmo da cui lo scultore le libera a forza di togliere.
In relazione alle ipotesi formulate dal movimento della decrescita felice, che costituisce una di queste componenti, Serge Latouche ha scritto e ribadito più di una volta lo stesso concetto, più o meno con le stesse parole:
[…] bisogna intendersi esattamente su che cosa debba decrescere. Per la maggioranza degli obiettori di crescita la risposta è che bisogna relegare in secondo piano l’indice-feticcio della crescita, cioè il PIL. È ciò che sostiene esplicitamente Maurizio Pallante, autore di un manifesto della decrescita felice. Per Pallante è necessario ridurre la produzione dei beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nel calcolo del PIL e aumentare quella dei beni e servizi non commerciali che non vi rientrano: autoproduzione, economia del dono e della reciprocità. Dal canto loro, gli adepti della semplicità volontaria e, in Francia i discepoli di Pierre Rabhi, sostengono una posizione analoga, ma meno precisa, con lo slogan «meno beni, più legami». Meno precisa perché dal punto di vista economico il legame può essere considerato come produttore di servizi non commerciali, e dunque di beni (nel senso di Pallante).[2]
In questo passaggio, tratto dal suo ultimo libro pubblicato in Italia, La decrescita prima della decrescita (2016), Latouche ha ripreso quanto aveva già scritto più volte nel corso degli ultimi anni. La prima volta nel 2011, nella prefazione alla traduzione in francese del libro di Maurizio Pallante, La decrescita felice, dove si era espresso così:
Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice la decrescita è un concetto positivo, che può essere definito come la diminuzione del PIL, ovvero la riduzione dei consumi dei beni e dei servizi scambiati con denaro (merci), ma è felice, perché al contempo comporta un aumento di beni e servizi non mercificati (beni), che procurano vere soddisfazioni. Ne risulta che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete.[3]
Nel 2012, nel libro Per un’abbondanza frugale aveva ribadito il concetto:
È vero che alcuni obiettori di crescita, come Maurizio Pallante in Italia, sembrano pensare che la decrescita – e in primo luogo quella del PIL – sia compatibile con l’economia capitalistica di mercato, ma questa non è l’idea della maggioranza dei decrescenti. Per Pallante, fondatore della corrente della decrescita felice, la decrescita è un concetto positivo che può essere definito con la riduzione del PIL, cioè la diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso c’è un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Questa concezione tende a ridurre la rottura della crescita all’obiettivo dell’autoproduzione, il che la avvicina all’idea della semplicità volontaria.[4]
Nel 2013, nella prefazione del libro di Mauro Bonaiuti La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, non aveva perso l’occasione per ribattere il chiodo:
Per il fondatore della corrente italiana della decrescita felice, non si tratta tanto di uno slogan provocatorio che vuole indicare la rottura con la società della crescita, quanto di un obiettivo già applicabile a un contenuto concreto. La decrescita secondo Pallante è un concetto positivo che può essere tradotto in riduzione del PIL, cioè in diminuzione del consumo e della produzione di beni e servizi mercantili (merci), ma è anche felice, perché al tempo stesso corrisponde a un aumento di beni e servizi non mercantili (beni) che procurano vere soddisfazioni. Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso.[5]
In realtà, sin dalla prima formulazione di questa teoria nel libro La decrescita felice, pubblicato nel 2005 e ristampato più volte, la decrescita è stata definita come una riduzione del PIL che si può ottenere non con la diminuzione della produzione e del consumo di merci, ma delle merci che non sono beni, oltre che con l’aumento della produzione e dell’uso di beni autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, quando sia vantaggioso farlo, non solo per ridurre i costi, il consumo di risorse e le emissioni di scarti, ma anche per recuperare un saper fare che riduce la dipendenza dal mercato e per ricostruire i legami sociali lacerati dall’onnimercificazione. La riduzione del consumo di merci che non sono beni e l’aumento dell’uso di beni che non sono merci comportano una riduzione dell’impatto ambientale, un miglioramento della qualità della vita e una riduzione del bisogno di denaro, che consente una riduzione del tempo di lavoro e un aumento del tempo che si può dedicare alle relazioni umane e alla creatività. Una decrescita del PIL ottenuta in questo modo aumenta il benessere: è una decrescita felice.
La riduzione della produzione delle merci che non sono beni, cioè degli sprechi e dei danni che ne conseguono, richiede lo sviluppo di tecnologie con una finalità diversa da quelle che accrescono la produttività, ovvero la quantità della produzione in una unità di tempo e, di conseguenza, la produzione totale di merci. Queste tecnologie sono finalizzate ad accrescere il dominio della specie umana sulla natura, secondo la concezione della scienza formulata in modo organico per la prima volta nella storia dell’occidente dal filosofo Francesco Bacone all’inizio del XVII secolo. Non a caso sono per lo più derivazioni a uso civile di innovazioni tecnologiche sviluppate in ambito militare. Le innovazioni tecnologiche che consentono di ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale per unità di prodotto sono invece finalizzate ad aumentare l’efficienza con cui i processi produttivi utilizzano le risorse della terra, in modo da non eccedere la sua capacità bioriproduttiva annua, da ridurre le emissioni biodegradabili a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana, da eliminare le emissioni non biodegradabili. Lo sviluppo di queste tecnologie non soltanto costituisce l’unico modo di accrescere significativamente l’occupazione nei paesi industrializzati, ma crea occupazione in lavori utili (perché creare occupazione non è un valore in sé, anzi può essere un danno se si crea nelle fabbriche delle armi o in processi produttivi devastanti). Le innovazioni tecnologiche finalizzate a una decrescita selettiva e governata degli sprechi costituiscono una proposta di politica economica e implicano un cambiamento di paradigma culturale. Qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.
L’aumento della produzione di beni che non passano attraverso la mercificazione è una proposta che presenta profonde affinità con le riflessioni di Ivan Illich sul vernacolare
«Vernacolare» – ha scritto Illich nel 1978 – viene da una radice indogermanica che contiene l’idea di «radicamento» e «dimora». È una parola latina che, nell’epoca classica, indicava qualsiasi cosa allevata, coltivata, tessuta o fatta in casa. […] Io vorrei oggi resuscitare in parte l’antico significato del termine. Abbiamo bisogno di una parola che esprima in maniera immediata il frutto di attività non motivate da considerazioni di scambio; una parola che indichi quelle attività, non legate al mercato, con cui la gente soddisfa dei bisogni, ai quali nel processo stesso del soddisfarli dà forma concreta.[6]
E nel 1979, nel saggio Le tre dimensioni della scelta pubblica, pubblicato nello stesso volume, ha ribadito:
[…] io propongo […] l’idea di lavoro vernacolare: attività non pagate, che garantiscono e incrementano la sussistenza, ma totalmente refrattarie a ogni analisi basata sui concetti dell’economia formale. «Vernacolare» è un termine latino, che ha assunto oggi una connotazione quasi esclusivamente linguistica. Nell’antica Roma, fra il 500 a. C. e il 600 d. C., esso indicava qualsiasi valore creato nell’ambito domestico e derivante dall’ambiente di uso comune, valore che una persona poteva proteggere e difendere, ma non poteva né vendere né acquistare sul mercato. Io suggerisco di recuperare questo semplice termine, per contrapporlo alle merci […].[7]
L’autoproduzione di beni e gli scambi non mercantili basati sul dono e la reciprocità sono atti di disobbedienza civile che riducono la dipendenza dal mercato, restituiscono dignità culturale al saper fare che costituisce una caratteristica esclusiva della specie umana, consentono di superare l’appiattimento sulla dimensione materialistica e di valorizzare la spiritualità, possono mettere in crisi l’economia della crescita facendo diminuire la domanda di merci. Anche su questo versante qualcosa di più di una scelta individuale riconducibile alla semplicità volontaria.
La proposta di ridurre la produzione e il consumo di merci che non sono beni implica l’introduzione di criteri di valutazione qualitativa del fare umano. Non significa credere che il meno sia meglio di per sé, ma scegliere il meno quando è meglio, che è cosa ben diversa dalla proposta di una generica riduzione della produzione e del consumo di merci. La rivalutazione delle capacità di autoproduzione di beni per ridurre la dipendenza dal mercato e ricostruire i legami sociali distrutti dall’onnimercificazione, è un atto di ribellione alla riduzione degli esseri umani a fantocci nevrotici che non sanno fare nulla, non conoscono nulla e sono capaci soltanto di comprare, buttare via e ricomprare.
Fraintendimenti così sostanziali della decrescita felice possono derivare soltanto da una lettura poco attenta, a cui sono sfuggite alcune parole, o dal fatto di dare inconsapevolmente all’aggettivo diverso il significato di contrario e dedurne che le merci non possono essere beni e i beni non possono essere merci. Solo se si pensa che le merci non possano essere beni si può confondere – non una volta per disattenzione, ma ripetutamente – la riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni con la riduzione della produzione e del consumo di merci tout court. Solo se si pensa che i beni non possono essere merci si può dire che «i beni sono i beni e i servizi non mercantili». Mentre chiunque sa che molti beni – cioè oggetti e servizi utili – si possono comprare e alcuni beni, quelli che richiedono tecnologie evolute e competenze professionali specializzate, si possono solo comprare.
Non so, e poco importa sapere, se la ripetuta deformazione e banalizzazione della decrescita felice da parte di Latouche dipenda da una lettura superficiale o da un’incomprensione. Quello che conta è dove va a parare: alla critica del fatto che in questa versione «la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete» (prefazione a La décroissance heureuse, 2011); «Ne deriva che la decrescita si traduce immediatamente in iniziative concrete: decrescita dei valori di scambio e crescita dei valori d’uso» (prefazione al libro di Mauro Bonaiuti, La grande transizione, 2013). A parte il fatto che dedurre proposte operative dalle riflessioni teoriche non è un limite ma un merito, anche quando siano incomplete o discutibili, a cosa serve denunciare la gravità dei problemi ambientali, economici e sociali causati dalla crescita senza porsi il problema di come bloccarla? Senza
impegnarsi a formulare proposte concrete che vanno dal sovvertimento dei valori su cui ha uniformato gli stili di vita delle popolazioni nei paesi industrializzati, al superamento dell’antropocentrismo e di una concezione della tecnologia come strumento di dominio della specie umana su tutte le altre specie viventi, alla definizione di un paradigma culturale alternativo, all’elaborazione di proposte di politica economica finalizzate ad avviare una decrescita che non sia austerità e pauperismo, ma consenta di realizzare condizioni di vita più soddisfacenti proprio perché si propone di ridurre gli sprechi e non i beni, di rivalutare capacità mortificate e di ripristinare relazioni umane solidali?
Poiché la crescita consiste in una progressiva estensione della mercificazione a un numero sempre maggiore di aspetti della vita di un numero sempre maggiore di esseri umani, le società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci hanno bisogno che si perda la percezione della differenza tra il concetto di bene e il concetto di merce, affinché il maggior numero delle persone ritenga che tutto ciò di cui ha bisogno si possa solamente comprare e che il benessere si misuri con la crescita della quantità di cose che si possono comprare. Nella lingua inglese la differenza tra i due concetti è ormai sparita. Sui dizionari la parola merce è tradotta con la parola goods, che significa beni. Di conseguenza uno dei pilastri su cui non si può non fondare la rivoluzione culturale della decrescita è proprio il ripristino della differenza tra il concetto di merce e il concetto di bene. Solo se non si fonda su questa pietra angolare si può pensare che possa essere ridotta a uno slogan, a una «parola bomba», buona per titillare la vanità di quegli intellettuali di sinistra che si piccano di essere anticonformisti e di non farsi intortare dall’ideologia del potere, ma inutile per sterzare il volante e cambiare la direzione di marcia di una macchina che si sta dirigendo a tutta velocità verso il precipizio.
Maurizio Pallante
[1] Aristotele scrive nella Metafisica, libro V (1017b 25 – 1018b 10): «Opposti si dicono i contraddittori, i contrari, i relativi, privazione e possesso, gli estremi da cui si generano e si dissolvono le cose. Opposti si dicono anche quegli attributi che non possono trovarsi insieme nello stesso soggetto, che pure li può accogliere separatamente […]. Il grigio e il bianco, infatti, non si trovano insieme nello stesso oggetto, perciò gli elementi da cui derivano sono opposti.
Contrari si dicono quegli attributi differenti per genere che non possono essere presenti insieme nel medesimo oggetto, quelle cose che maggiormente differiscono nell’ambito del medesimo genere, quegli attributi che maggiormente differiscono nell’ambito dello stesso soggetto che li accoglie…
Diverse secondo la specie si dicono quelle cose che pur appartenendo allo stesso genere, non sono subordinate le une alle altre, quelle che pur appartenendo allo stesso genere, hanno una differenza, quelle che hanno una contrarietà nella loro sostanza». Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000, pp. 217-221, traduzione di Giovanni Reale.
[2] Serge Latouche, La decrescita prima della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pag. 15
[3] Maurizio Pallante, La décroissance hereuse, Nature & Progrès, Namur 2011, Prefazione di Serge Latouche, pag. 16.
[4] Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pag. 76
[5] Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2013, Prefazione di Serge Latouche, pp. 13-14. Può essere utile precisare en passant che i concetti di bene e di merce non sono sovrapponibili ai concetti di valore d’uso e di valore di scambio utilizzati da Marx, perché una merce, quando è prodotta da un artigiano per un cliente che gliela chiede in cambio di denaro è un valore d’uso (un bene ottenuto sotto forma di merce). Secondo Marx, il modo di produzione preindustriale può essere sintetizzato dalla formula «merce – denaro – merce». È nel modo di produzione industriale che le merci diventano valori di scambio, prodotti non finalizzati a soddisfare un’esigenza espressa da qualcuno, ma a far crescere attraverso le vendite il valore monetario investito per produrli. Pertanto il modo di produzione industriale può essere sintetizzato con la formula «denaro – merce – denaro», dove la quantità di denaro alla fine del processo deve essere maggiore di quella all’inizio.
[6] Ivan Illich, Nello specchio del passato, Red edizioni, Como 1992, pp. 122-23
[7] Ibidem, pagg. 97-98.
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Attacco a una comunità guarani in Brasile, un morto e cinque feriti
Ricevo dal movimento mondiale per i diritti umani Survival questo appello che mi sento di condividere e che invito tutti a leggere, approfondire e condividere presto.
Un gruppo di sicari ha attaccato una comunità guarani nel Brasile meridionale uccidendo un uomo e ferendone almeno altri cinque, tra cui un bambino. È solo l’ultimo di una serie di assalti violenti alla tribù.
L’attacco è avvenuto ieri (14 giugno) nella comunità di Tey’i Jusu. Alcuni abitanti Guarani Kaiowá sono riusciti a filmare l’attacco da lontano. Dal video si possono sentire spari e urla, e sembra che siano stati incendiati i campi vicini.
Video: L’attacco dei sicari alla comunità di Tey’i Jusu
L’uomo ucciso è stato riconosciuto come Clodiodi Aquileu, un ventenne della comunità, che aveva il ruolo di operatore sanitario.
L’attacco fa probabilmente parte dei crescenti tentativi dei potenti agricoltori e allevatori locali – strettamente legati al governo ad interim nominato di recente – di sfrattare illegalmente i Guarani dalla loro terra ancestrale e intimidirli con violenza genocida e razzismo.
Due giorni fa Survival aveva ricevuto – grazie al progetto Tribal Voice – un audio dei Guarani della comunità di Pyelito Kue che documentava un altro attacco dei sicari al loro villaggio.
Video: La reazione delle famiglie guarani all’attacco al villaggio di Pyelito Kue
Sono arrivate notizie anche da un’altra comunità guarani nella stessa regione, conosciuta come Apy Ka’y, che rischia lo sfratto dopo aver rioccupato la sua terra sotto la guida della leader Damiana Cavanha nel 2013. Le nove famiglie della comunità avevano ricevuto un’ordinanza di sfratto la scorsa settimana, ma non è ancora noto se siano riuscite a restare nella loro terra – che gli spetta di diritto secondo la legge brasiliana e quella internazionale.
© Campanha Guarani
“È in corso un lento genocidio. C’è una guerra contro di noi. Abbiamo paura” ha detto il mese scorso il leader guarani Tonico Benites in occasione di una visita in Europa. “Uccidono i nostri capi, nascondono i loro corpi, ci intimidiscono e ci minacciano.”
“Continuiamo a lottare per la nostra terra. La nostra cultura non permette violenze, ma gli allevatori ci uccideranno piuttosto che restituirci la terra. Gran parte di essa ci è stata presa negli anni ’60 e ’70. Gli allevatori sono arrivati e ci hanno cacciato via. La terra è di buona qualità, con fiumi e foreste. Ora è preziosa.”
Negli ultimi decenni, i Guarani hanno subito violenza genocida, schiavitù e razzismo da parte di chi vuole derubarli di terre, risorse e forza lavoro. In aprile Survival ha lanciato la campagna “Fermiamo il genocidio in Brasile” per portare all’attenzione del mondo questa crisi terribile e urgente, e dare alle tribù brasiliane un palcoscenico da cui parlare al mondo nell’anno delle Olimpiadi.
“Assistiamo a un attacco brutale e continuato ai Guarani, che sta crescendo di intensità. Persone potenti in Brasile stanno cercando di ridurre al silenzio i membri della tribù, terrorizzandoli affinché rinuncino alle loro rivendicazioni territoriali” ha dichiarato oggi il Direttore generale di Survival, Stephen Corry. “Ma i Guarani non si fermeranno. Sanno di rischiare la morte cercando di tornare alla loro terra ancestrale, ma l’alternativa è così terribile che non hanno altra scelta se non quella di affrontare i sicari e le loro pallottole. Il governo ad interim del Brasile deve fare di più per porre fine a questa ondata di violenza che sta seminando morti.”
Aiuta i Guarani del Brasile
Il tuo sostegno è vitale per la sopravvivenza dei Guarani. Ecco cosa puoi fare:
Scrivi al presidente del Brasile per chiedergli di demarcare le terre dei Guarani e fermare l’assassinio dei loro leader;
Sostieni la campagna di Survival per i Guarani. Ogni euro raccolto aiuterà i Guarani a difendere i loro diritti umani, a riconquistare le terre ancestrali, a difendere le loro vite, a ripristinare i loro orti. Nessun importo sarà mai troppo piccolo.
Scrivi all’ambasciata brasiliana in Italia
Per altre forme di collaborazione, contatta Survival
Fonte: Survival
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