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Politica agraria ed alimentare

Biodiversità

La politica agricola, oggi ancora più che in passato, non può essere svincolata dalle politiche ambientali, economiche e sociali del Paese. Così come non può esserlo una politica alimentare, naturalmente connessa alle produzioni agricole. Pertanto la visione di agricoltura del futuro deve incastrarsi in una visione complessiva che tenga conto della rilevanza che può assumere questo settore così marginalizzato dalle politiche che si sono succedute fino a oggi.

Oggi la priorità della politica (non solo quella italiana ma di tutto il pianeta) è la riduzione delle emissioni di gas serra, di conseguenza tutti i comparti produttivi devono concorrere a raggiungere l’obiettivo. Secondo un rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) le filiere agro-alimentari, sono responsabili di oltre il 20% delle emissioni totali, dovute principalmente al trasporto dei prodotti (CO2), agli allevamenti intensivi (CH4) e alle fertilizzazione chimica (N2O). Questo dato basta e avanza per indicare la direzione verso la quale dovrebbe essere orientata la politica agraria e alimentare. Di contro in agricoltura è possibile, allo stato attuale, individuare delle filiere con una carbon footprint positiva, cioè in grado assorbire CO2 in misura maggiore rispetto a quella emessa. Il saldo positivo diventa più netto nelle coltivazioni estensive e in territori soggetti ad abbandono. Le aeree interne, a torto considerate marginali, sotto questo profilo hanno un potenziale enorme e inesplorato.

In estrema sintesi perciò potremmo dire che la nostra agricoltura deve essere in grado di garantire, nell’ordine, tutela ambientale (con particolare riferimento alle riduzioni di gas serra), benefici sociali (salubrità e maggiore autosufficienza alimentare) e adeguata redditività agli agricoltori.

Lo strumento più importante su cui far leva per consentire all’agricoltura del futuro di svolgere al meglio questo compito è senza dubbio la biodiversità. L’unico modo per non perdere biodiversità, e quindi aggravare ulteriormente gli equilibri naturali, è coltivarla. La diversità delle piante, secondo la FAO, rappresenta la chiave per affrontare e ridurre l’impatto delle calamità quali siccità, salinità, caldo, inondazioni sempre più frequenti con i cambiamenti climatici.

Oggi la minaccia più grande che viene portata alla biodiversità è un mercato globale che riduce gran parte delle produzioni agricole in commodity e di conseguenza si fa passare il concetto che tutte le produzioni sono uguali dappertutto, puntando di conseguenza su poche varietà, più produttive e tecniche di produzione più intensive e quindi più impattanti dal punto di vista ambientale, scoraggiando e talvolta cancellando diversità, peculiarità territoriali, tradizioni e qualità.
L’ultima PAC (Politica Agricola Comune) 2014-2020 ha introdotto il ‘greening’ che prevede, solo per i seminativi, il rispetto di pratiche benefiche per il clima e l’ambiente da parte degli agricoltori che accedono ad alcuni contributi. E’ una misura senza dubbio lodevole, ma evidentemente non sufficiente e bisogna spingere con maggiore vigore su alcuni aspetti, legati alla diversificazione produttiva e all’introduzione sistematica di cultivar locali negli ordinamenti produttivi delle aziende.

Le cultivar locali, tra l’altro, costituiscono lo strumento principale per valorizzare adeguatamente l’agricoltura delle aree interne e per sottrarre gli agricoltori da una competizione globale che li vede comunque sempre perdenti, a causa dello strapotere contrattuale dell’industria alimentare. È paradossale infatti che il maggior numero di aziende agricole e di allevamenti che soccombono, in un meccanismo competitivo dove a prevalere è solo il prezzo più basso, si trovano nelle zone montane e collinari del Paese, dove cioè vi sono le migliori condizioni per garantire standard qualitativi elevati delle produzioni alimentari. Tra l’altro in un paese come l’Italia, caratterizzato da un lato dalla presenza di numerose aziende agricole di piccole dimensioni e dall’altro di un patrimonio di cultivar locali enorme, le economie di scala non possono essere una soluzione ai problemi del settore, soluzione che invece può arrivare proprio dalle identità delle produzioni.
Di pari passo e in coerenza con la tutela della biodiversità (e dalla valorizzazione delle produzioni di piccola scala) vi è la necessità di diffondere i laboratori di trasformazione nelle aziende agricole. Ci sono già aziende agricole che trasformano direttamente le proprie produzioni, ma in numero molto esiguo rispetto al totale e per lo più concentrate su determinate filiere (vino e formaggi su tutte, non a caso filiere dove il sistema delle Denominazioni d’Origine ha assolto adeguatamente la propria funzione). L’introduzione dei laboratori di trasformazione nelle aziende agricole è complementare alla valorizzazione delle cultivar autoctone, in quanto sottrae gli agricoltori dalla morsa dell’industria alimentare che non è disposta a pagare alcun surplus rispetto al prezzo di mercato, su produzioni e varietà qualitativamente più valide, con un vantaggio collaterale non da poco, sotto il profilo sociale, legato alla minore incidenza del trasporto dei prodotti dalle aziende agricole presso gli stabilimenti di trasformazione. I PSR (Programmi di Sviluppo Rurale) che pure incentivano gli investimenti nelle aziende agricole, si sono rivelati fino a oggi parzialmente inefficaci sotto questo profilo, in quanto le nuove tecnologie introdotte sono state indirizzate prevalentemente a facilitare la meccanizzazione delle operazioni colturali (o comunque ad agevolare quanto già esiste nelle aziende agricole) e poche volte sono state utilizzate per integrare il ciclo produttivo all’interno della stessa azienda. Il passaggio verso un modello di agricoltura prevalentemente produttrice di cibo anziché di materie prime per l’industria alimentare comporta pertanto interventi normativi volti ad adeguare piani di investimento pubblico, burocrazia ed etichettatura dei prodotti. Ma è necessario anche un nuovo approccio nella ricerca scientifica e in particolare nella produzione di innovazioni tecnologiche funzionale a questo modello di agricoltura.

Questo percorso è possibile se di pari passo viene avviata una politica alimentare coerente, capace di valorizzare le diversità e di considerare la qualità del cibo non più un lusso per i più facoltosi ma una necessità per assicurare salute e benessere agli esseri umani e agli altri esseri viventi. Come non è più derogabile l’adozione di provvedimenti più efficaci nella riduzione degli sprechi che determinano un costo ambientale e sociale che non possiamo più permetterci.

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Politica Energetica

Efficienza energetica la balena è l'animale più efficiente

La politica energetica deve essere finalizzata alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica evitando che questa scelta, resa indifferibile e urgente dai mutamenti climatici in corso, si traduca in una drastica riduzione dei servizi finali dell’energia e in un forte aumento dei loro costi, perché queste conseguenze non sarebbero accettate socialmente.

L’opzione più efficace per ridurre le emissioni e le importazioni di fonti fossili, a parità d’investimento, non è la sostituzione del petrolio col metano e delle fonti fossili con fonti rinnovabili, ma una strategia in tre fasi in cui la priorità è costituita dalla riduzione degli sprechi che si può ottenere utilizzando innovazioni tecnologiche che aumentano l’efficienza dei processi di trasformazione energetica e degli usi finali dell’energia.

Nei Paesi industriali che si autodefiniscono tecnologicamente avanzati, gli sprechi dell’energia contenuta nelle fonti fossili ammontano fino al 70 per cento. L’incremento dell’efficienza consente di ridurre i consumi di energia alla fonte a parità di servizi finali, per cui riduce i costi delle bollette energetiche in misura tanto maggiore quanto maggiore è la riduzione delle emissioni, senza ridurre il benessere. La riduzione dell’impatto ambientale che consente di ottenere è direttamente proporzionale ai vantaggi economici che offre. Le tecnologie con cui si possono ottenere questi risultati non hanno bisogno di sussidi di denaro pubblico perché sono in grado di ripagare i loro costi d’investimento in tempi economicamente competitivi con i risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici.

Il secondo passaggio è la soddisfazione del fabbisogno residuo con fonti rinnovabili. Se la sostituzione delle fonti avviene in un contesto di riduzione dei consumi, si riduce la potenza da installare e il loro costo diventa ammortizzabile in tempi economicamente accettabili senza contributi di denaro pubblico.

Il terzo passaggio è lo sviluppo delle fonti rinnovabili in piccoli impianti di proprietà dei consumatori, con vendita dei Kilowattora eccedenti nelle ore in cui i consumi sono inferiori alla produzione e acquisto dei Kilowattora mancanti nelle ore in cui la produzione è inferiore ai consumi. Il prosumer (il produttore consumatore dell’energia che produce) garantisce la massima efficienza nella gestione dell’energia autoprodotta perché è suo interesse utilizzarla nei modi più efficienti per consumarne il meno possibile e poterne vendere il più possibile.

Ridurre i consumi di Kilowattora mediante un aumento dell’efficienza costa meno che sostituire i Kilowattora prodotti da fonti fossili con Kilowattora prodotti da fonti rinnovabili. Pertanto a parità d’investimento le emissioni di anidride carbonica si riducono di più aumentando l’efficienza che sostituendo le fonti.

Una politica energetica che abbia come priorità la sostituzione delle fonti, e non la riduzione della domanda, oltre a ridurre di meno le emissioni climalteranti non può prescindere da sostegni di denaro pubblico. Gli incentivi pubblici allo sviluppo delle fonti rinnovabili vengono pagati con incrementi dei costi sulle bollette energetiche e si traducono in un trasferimento di denaro da chi non ha i capitali per effettuare gli investimenti necessari a installarle a chi i capitali li ha. Dai poveri ai ricchi. I tentativi di potenziare l’offerta con l’idrogeno, con la fusione nucleare, o con altre presunte soluzioni miracolose in grado di garantire un apporto illimitato di energia pulita, oltre ad alimentare l’illusione che non sia necessario impegnarsi per aumentare l’efficienza e ridurre gli sprechi, hanno drenato ingenti quantità di denaro pubblico senza aver fornito a tutt’oggi alcun risultato tangibile. Una politica energetica impostata sulla priorità della sostituzione delle fonti sostenuta da contributi di denaro pubblico va a vantaggio di chi produce e vende energia da fonti rinnovabili. Una politica energetica impostata sulla priorità della riduzione dei consumi alla fonte a parità di servizi finali mediante un aumento dell’efficienza, riduce le emissioni in tempi più brevi e va a vantaggio dei consumatori.

In Italia la politica energetica è stata impostata sull’assunzione aprioristica di una crescita tendenziale dei consumi, dal momento che tutto l’impegno della politica economica è volto a rilanciare la crescita del prodotto interno lordo, peraltro con scarsi risultati. Di conseguenza la riduzione delle emissioni di anidride carbonica è stata affidata principalmente all’aumento delle forniture di metano e allo sviluppo delle fonti rinnovabili. I partiti meno sensibili ai problemi ambientali perché li considerano meno importanti della crescita economica, hanno dato la priorità all’aumento delle forniture di metano, che rilascia meno anidride carbonica del gasolio, ma ne rilascia. Pertanto, se aumentano i consumi energetici, le emissioni aumentano, meno di quanto aumenterebbero se si bruciasse gasolio, ma aumentano. Le associazioni ambientaliste e gli installatori di impianti eolici e fotovoltaici hanno dato la priorità allo sviluppo delle fonti rinnovabili sostenute da contributi di denaro pubblico. Ma il bilancio dello Stato, come tutti i bilanci, ha limiti e voci di spesa che non si possono comprimere. Se lo sviluppo delle fonti rinnovabili dipende dai contributi statali, quando i contributi si esauriscono si blocca. Per evitare che ciò avvenga occorre che le fonti rinnovabili consentano di ottenere diminuzioni dei consumi di fonti fossili sufficienti ad ammortizzare i loro costi d’investimento in tempi accettabili dai potenziali acquirenti. Solo l’aumento della loro efficienza è in grado di liberarle dalla dipendenza dai sussidi pubblici. E l’eliminazione dei sussidi pubblici è indispensabile per promuovere le innovazioni tecnologiche in grado di renderle economicamente appetibili.

 

LA CONVERSIONE ECONOMICA DELL’ECOLOGIA

La conversione economica dell’ecologia è la strada da percorrere non solo per attenuare la crisi ambientale, ma anche per far uscire l’economia dalla stagnazione e accrescere l’occupazione in attività utili. In questa prospettiva l’obbiettivo principale della politica economica e industriale deve essere la promozione della ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente mediante l’uso di formule contrattuali che consentano di utilizzare i risparmi sulle bollette per ammortizzare i costi d’investimento nelle tecnologie che consentono di ottenerli.

 

Maurizio Pallante