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Isaia Sales e Simona Melorio: Le Mafie nel PIL

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Oltre la destra e la sinistra. Firenze, Teatro Verdi, 2 ottobre 2016

Le definizioni di destra e di sinistra per indicare due schieramenti politici contrapposti sono state utilizzate per la prima volta nella fase iniziale della Rivoluzione francese, nel corso della Convenzione Nazionale, l’assemblea incaricata di redigere la costituzione nel 1792. Da allora rappresentano la concretizzazione storica assunta da due orientamenti che caratterizzano da sempre i rapporti sociali: quello di chi ritiene che le diseguaglianze tra gli esseri umani siano un dato naturale non modificabile, e quello di chi ritiene che abbiano un’origine sociale e, quindi, possano essere rimosse o, quanto, meno attenuate.

 

Nel libro Destra e sinistra, pubblicato nel 1984, Norberto Bobbio ha scritto: «Gli uomini sono tra loro tanto uguali, quanto diseguali. Sono uguali per certi aspetti, diseguali per altri […] sono eguali se si considerano come genus e li si confronta come genus a un genus diverso come quello degli altri animali […] sono diseguali tra loro, se li si considera uti singuli, cioè prendendoli uno per uno. […] si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali che diseguali, danno maggiore importanza, per giudicarli e per attribuir loro diritti e doveri, a ciò che li rende uguali piuttosto che a ciò che li rende diseguali; inegualitari, coloro che, partendo dalla stessa constatazione, danno maggiore importanza, per lo stesso scopo, a ciò che li rende diseguali piuttosto che a ciò che li rende eguali. […] Ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che serve molto bene, a mio parere, a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo abituati ormai per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra, da un lato il popolo di chi ritiene che gli uomini siano più eguali che diseguali, dall’altro il popolo di chi ritiene che siano più diseguali che uguali.

A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L’egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l’inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili».

 

Negli anni in cui la contrapposizione tra egualitari e inegualitari assumeva la connotazione storica della contrapposizione tra sinistra e destra, nei Paesi dell’Europa nord-occidentale e negli Stati Uniti si andava affermando il modo di produzione industriale, che Marx, in un famoso passo del Capitale, definisce come il passaggio da un modo di produzione che può essere descritto con la formula M-D-M a un modo di produzione che può essere descritto dalla formula D-M-D1, dove la lettera M indica le merci e la lettera D indica il denaro. Nel modo di produzione pre-industriale, M-D-M, le attività produttive vengono svolte da artigiani che producono merci per clienti che le richiedono perché ne hanno bisogno, e ricevono in cambio del denaro che utilizzano per produrre altre merci richieste da altri clienti che ne hanno bisogno. Il fine del lavoro è la produzione di merci che hanno un valore d’uso e il denaro è il mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale,  D-M-D1, i capitalisti investono del denaro, accumulato originariamente con varie forme di sopraffazione – colonialismo, schiavismo, privatizzazione delle terre comuni ed espulsione dei contadini dalle campagne per costringerli a diventare operai – per produrre con l’uso di macchine sempre più efficienti azionate da motori, quantità crescenti di merci che non sono state richieste da nessuno, allo scopo di venderle per ricavare più denaro di quello che hanno investito per produrle. Il valore di D1 deve pertanto essere superiore al valore di D, altrimenti il processo non avrebbe senso, e la differenza tra i due valori costituisce il profitto. Nel modo di produzione industriale si producono valori di scambio e il denaro diventa il fine della produzione.

 

La destra e la sinistra hanno valutato che il modo di produzione industriale costituisse un progresso rispetto al modo di produzione pre-industriale perché, grazie ai progressi scientifici e tecnologici, ha accresciuto in maniera straordinaria la produzione di merci, consentendo all’umanità di entrare in un’epoca di abbondanza senza precedenti. A partire da questa comune valutazione culturale, lo scontro tra i due schieramenti è stato politico e si è articolato su due punti. Il primo: fa crescere di più l’economia una società che valorizza le diseguaglianze o una società che promuove l’eguaglianza? Il secondo: come suddividere tra le classi sociali i proventi economici derivanti dalla crescita della produzione? Attraverso «la mano invisibile del mercato», come ha sostenuto la destra, o con un intervento correttivo dello Stato per ridurre le diseguaglianze che ne deriverebbero, come ha sostenuto la sinistra? La storia ha dimostrato che dovunque ha governato la destra, l’economia è cresciuta di più di quanto sia cresciuta dove ha governato la sinistra. La partita si è chiusa con la vittoria definitiva della destra, testimoniata emblematicamente dall’abbattimento del muro di Berlino il 9 novembre 1989 e dai flussi interminabili di Trabant che portavano i tedeschi dell’est ad appiccicare i nasi sulle vetrine dei negozi stracarichi di merci tecnologicamente avanzate nella Germania dell’ovest.

 

Il mercato fa crescere la produzione di merci più della programmazione e dei piani quinquennali. L’economia che distribuisce in maniera più iniqua il profitto (la differenza tra D1 e D) riduce la quota destinata ai consumi e accresce la quota destinabile agli investimenti, per cui fa crescere la produzione di merci più di un’economia che, distribuendo in modi più equi il profitto, fa crescere di più la quota destinata ai consumi e riduce la quota destinabile agli investimenti. Se la sinistra condivide con la destra la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è strategicamente perdente. E ha perso. Ma la sua sconfitta non è la sconfitta della pulsione all’eguaglianza, che la sinistra ha incarnato per appena due secoli e mezzo. È la sconfitta dell’interpretazione storica che ne ha dato. Pertanto i sostenitori dell’eguaglianza non possono non domandarsi come il loro ideale possa trovare una nuova concretizzazione storica, liberandosi dai limiti, dagli errori e dai vincoli di quella interpretazione.

 

L’errore di fondo della sinistra è stato di credere che si potesse realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani distribuendo in maniera più equa il profitto generato dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ovvero governando in maniera diversa dalla destra un sistema economico e produttivo che, come la destra, considerava un progresso perché attraverso i progressi della scienza e della tecnologia accresceva sempre di più il potere della specie umana sulla natura, consentendole di ricavare quantità sempre maggiori di risorse e di produrre quantità sempre maggiori di beni. Questa concezione della scienza e della tecnologia come strumenti di dominio, è stata teorizzata dal filosofo inglese Francis Bacon nella prima metà seicento. Pochi anni dopo il filosofo francese René Descartes avrebbe sostenuto che gli esseri umani sono ontologicamente diversi da tutti gli altri esseri viventi, a cui li accomuna il corpo, la res extensa, ma da cui li distingue la capacità di pensare e la coscienza, la res cogitans, per cui non fanno parte della natura, ma vi agiscono come attori sulla scena di un teatro. La res cogitans, che condividono con Dio, li rende superiori a tutti gli altri viventi e li autorizza a considerare che tutti i viventi non umani siano stati creati per soddisfare le loro esigenze, per cui hanno il diritto di utilizzarli ai propri fini. Su questa concezione antropocentrica si è fondato lo sfruttamento crescente delle risorse naturali che ha consentito di finalizzare l’economia alla crescita della produzione di merci e che, in poco più di due secoli, ha progressivamente aggravato la crisi ecologica fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie umana. Sulla base di questa concezione, che accresce le iniquità tra la specie umana e le altre specie viventi, vegetali e animali, la sinistra ha ritenuto che la crescita delle merci prodotte di anno in anno costituisse la premessa per realizzare una maggiore equità tra gli esseri umani.

 

Le conseguenze di questa concezione antropocentrica sono sotto gli occhi di tutti, a eccezione dei politici di destra e di sinistra, degli economisti, degli imprenditori e dei sindacati. La crescita della produzione di merci ha oltrepassato le capacità del pianeta di fornirle con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili di cui ha bisogno, ha ridotto drasticamente i giacimenti di molte risorse non rinnovabili, in particolare quelli di fonti fossili, accrescendone i costi di estrazione e aumentando l’incidenza dei danni ambientali che provoca, ha superato le capacità della biosfera di metabolizzare gli scarti biodegradabili che genera, in particolare le emissioni di anidride carbonica, ha accresciuto le quantità delle sostanze di sintesi chimica tossiche e non tossiche (le plastiche) non metabolizzabili dalla biosfera. La riduzione delle disponibilità delle risorse non rinnovabili ha indotto a scatenare con sempre maggiore frequenza guerre per tenere sotto controllo le zone del mondo dove insistono i giacimenti più ricchi. I consumi delle risorse rinnovabili hanno superato la loro capacità di rigenerazione annua e per sostenere la loro crescita economica i popoli ricchi ne accaparrano quantità crescenti per sostenere i loro sprechi, sottraendo ai popoli poveri il necessario per vivere. Dal 2008 la globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale, che è indispensabile per continuare a far crescere l’economia in questa fase storica, ha strozzato la crescita economica e i costi dei tentativi di ripresa, sino ad ora fallimentari, sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri continuano ad essere privati del necessario per vivere, per cui sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre e a sottoporsi a sofferenze inenarrabili nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.

 

Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un’estensione della sopraffazione della specie umana sulla terra in quanto organismo vivente e su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente, in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani. Le conseguenze più gravi della crisi ecologica e della crisi economica vengono pagate e saranno pagate in misura sempre maggiore dai più poveri tra gli esseri umani. Solo una maggiore equità tra la specie umana e le altre specie viventi consente di accrescere l’equità tra gli esseri umani. Una maggiore uguaglianza tra gli esseri umani si può realizzare soltanto abbandonando l’antropocentrismo che caratterizza la concezione occidentale del mondo e sviluppando una concezione del mondo biocentrica. Questo è il primo elemento di una nuova declinazione dell’uguaglianza rispetto all’interpretazione che ne ha dato storicamente, per 250 anni, la sinistra.

 

Un secondo elemento che caratterizza l’iniquità insita nella concezione dell’eguaglianza sviluppata dalla sinistra può essere riassunto con questa formulazione: non si può fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi sull’iniquità nei confronti delle generazioni a venire. I debiti pubblici accumulati dalla seconda metà del novecento per sostenere lo stato sociale sono il frutto di un patto non scritto, ma condiviso dalla destra e dalla sinistra, per accrescere il benessere materiale delle classi subalterne senza intaccare i profitti delle classi dominanti. Hanno garantito la crescita economica e la pace sociale a spese di chi non era ancora nato. Le politiche keynesiane, che ne sono state il suggello, hanno cancellato la consapevolezza che i debiti monetari contratti per continuare a far crescere la produzione e la domanda di merci nelle fasi in cui si inceppa, sono gli epifenomeni di debiti contratti nei confronti della natura e delle generazioni future. Se la spesa pubblica in deficit ha svolto questa funzione in passato, nella fase attuale crea più problemi di quanti ne risolva. A livello ambientale perché la produzione di merci a livello mondiale eccede già le capacità del pianeta di fornirle le risorse di cui ha bisogno e di metabolizzare i suoi scarti, per cui spingerla ulteriormente non può che aggravare la crisi ecologica fino al collasso. A livello sociale perché il sovraconsumo delle risorse che ha indotto, ha creato per le giovani generazioni prospettive di vita peggiori di quelle dei loro padri e dei loro nonni. Una nuova declinazione dell’uguaglianza, che consenta di superare questi problemi, richiede lo sviluppo delle tecnologie che riducono il consumo di risorse per unità di prodotto, ovvero una decrescita selettiva e guidata degli sprechi. Questo non è soltanto l’unico modo di creare occupazione, e quindi di restituire un futuro desiderabile ai giovani, ma l’occupazione che si crea in questo modo è utile perché riduce il consumo di risorse e paga i suoi costi d’investimento con i risparmi che consente di ottenere. Fondare una maggiore equità tra gli esseri umani viventi senza prendere in considerazione le conseguenze negative che può scaricare sulle generazioni future, come ha fatto la sinistra, è una scelta della massima iniquità. Per superarla occorre riscoprire uno dei fondamenti della cultura contadina. I vecchi contadini piantavano, come lascito ai loro nipoti, alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti e lo facevano perché da bambini avevano mangiato frutti di alberi che erano stati piantati per loro dai loro nonni.

 

Un terzo elemento generatore d’iniquità che occorre rimuovere dall’interpretazione storica data dalla sinistra all’eguaglianza, è la convinzione che le diseguaglianze tra le classi sociali nei Paesi ricchi e tra i Paesi ricchi e i Paesi poveri si misurino sostanzialmente con le differenze di reddito monetario. Tutte le statistiche sulla crescita della povertà su cui gli intellettuali di sinistra fondano le loro critiche alla concezione economica oggi dominante, che definiscono neo-liberismo, si fondano su dati monetari. In realtà il reddito monetario può essere considerato una misura adeguata della ricchezza soltanto nelle società che hanno finalizzato l’economia alla produzione di merci, cioè di oggetti e servizi fatti per essere venduti allo scopo di far crescere il profitto di chi li ha prodotti. Soltanto nelle società che finalizzano il lavoro umano non alla soddisfazione dei bisogni della vita, ma alla crescita del profitto, e fondano i rapporti sociali sulla competizione. In queste società l’autoproduzione di beni e i rapporti fondati sulla solidarietà e la collaborazione sono disprezzati e banditi, perché riducono la necessità di comprare e quindi fanno crescere di meno i profitti. Solo se si accetta questo sistema di valori e si pensa che tutto ciò che serve si può solo comprare, si può ritenere che le diseguaglianze si misurino con le differenze di reddito. Le merci sono indispensabili perché nessuno può autoprodurre tutto ciò di cui ha bisogno e nessuna comunità può essere totalmente autosufficiente. Ma le merci non possono soddisfare tutte le esigenze umane e, se tutto ciò che risponde a un bisogno si deve comprare, accrescono la dipendenza dal mercato, riducono l’autonomia delle persone e delle comunità, inducono a identificare il benessere col consumismo, lacerano i rapporti sociali fondati sulla solidarietà. Un sistema economico che si proponga di migliorare il benessere degli esseri umani e a ridurre le diseguaglianze non si lascia ingabbiare nella dimensione monetaria. Non trascura l’importanza del benessere materiale e si propone di creare le condizioni per cui tutti possano accedervi, ma sa che il benessere dipende in misura ancora maggiore dalla tutela dei beni comuni, dei più deboli, della bellezza dei luoghi in cui si vive, della sovranità alimentare, dell’autosufficienza energetica, del sapere tradizionale, delle possibilità di coltivare la propria creatività e di soddisfare le proprie esigenze di conoscenza disinteressata. In una parola di tutto ciò che non si può comprare col denaro e dà un senso alla vita molto più di ciò che si può comprare.

 

Nelle società che finalizzano l’economia alla crescita della produzione di merci, gli esseri umani devono comprare le quantità crescenti di merci che vengono prodotte, altrimenti non si potrebbe continuare a produrne, per cui devono identificare il benessere con il consumismo. Il consumismo deve diventare l’asse portante del sistema dei valori. La realizzazione umana degli individui deve identificarsi con la loro capacità di spesa, con la quantità e la qualità degli oggetti e dei servizi che possono comprare. Coloro che hanno di più diventano il modello di coloro che hanno di meno. Ciò genera uno stato di insoddisfazione permanente anche in chi ha molto più della media, perché c’è sempre qualcuno che ha di più. Il consumismo ha operato, per riprendere le parole di Pier Paolo Pasolini, una mutazione antropologica, appiattendo gli esseri umani sulla dimensione materialistica e cancellando dal loro orizzonte mentale la spiritualità. Il recupero della dimensione spirituale è indispensabile per percepire l’intreccio delle relazioni che legano tutte le specie viventi tra loro e con i luoghi della terra in cui vivono, come insegna la scienza dell’ecologia. Per sentire come una sofferenza propria la sofferenza di chi non ha il necessario per vivere, dei giovani che non trovano un’occupazione, di coloro che non sono ancora nati per le condizioni in cui troveranno ridotto il mondo, degli animali negli allevamenti industriali, il taglio di un bosco, l’annullamento della fotosintesi clorofilliana sotto i sudari d’asfalto e di cemento, il sacrificio della bellezza al profitto. La spiritualità non è la fede, anche se non ci può essere fede senza spiritualità. La fede è credere in qualcosa che non è dimostrabile razionalmente. Fede è sustanza di cose sperate è argomento delle non parventi, ha scritto Dante. Non tutti hanno la fede, ma la spiritualità è un elemento costitutivo della natura umana. Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica, la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile che consente di recuperare la dimensione della solidarietà non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi, e di conferire alla pulsione all’eguaglianza una connotazione non solo politica, ma esistenziale.

 

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GHIACCIAIO CIARDONEY (GRAN PARADISO): ESTATE 2016 LUNGA E CALDA, NUOVO FORTE REGRESSO

I cambiamenti climatici sono talmente in atto che riusciamo a scrutarne gli effetti anche quotidianamente. Tuttavia è sempre stata una mia prerogativa quella di dare fondamento a quanto dico e scrivo, con dei dati scientifici. Per questo motivo propongo a voi tutti questo interessante studio – con foto e dati – del professor Luca Mercalli […]

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Massimo Angelini, “Participio Futuro”, Pentàgora, Savona 2015. RECENSIONE

Dafni Ruscetta

Esiste un modo delicato, penetrante, poetico di descrivere il nostro tempo. E’ quello di Massimo Angelini, filosofo ligure, ricercatore di bellezza in controcorrente, ‘eretico’ dei nostri giorni. La delicatezza, l’equilibrio, la saggezza e la poesia, rimangono nell’aria per molto tempo dopo un suo intervento, dopo uno dei tanti racconti appartenenti alla narrazione che porta in giro per l’Italia, per esprimere una visione del mondo alternativa, ‘eretica’ appunto. Massimo Angelini è anche autore di pubblicazioni sulla storia delle mentalità, sulle tradizioni rurali, sul sacro e sulla visione simbolica della realtà. Tutti elementi che accomunano quegli studiosi – guarda caso quasi mai aderenti al mainstream accademico tradizionale – e moderni ‘predicatori’ di un mondo nuovo, di un paradigma culturale realmente differente per una rinnovata fase della storia dell’umanità.

Nel suo ultimo libro, ‘Participio Futuro’, Angelini mette insieme un vasto repertorio di considerazioni filosofiche, antropologiche e socio-culturali provenienti dalla lunga esperienza di osservazione delle tradizioni contadine della sua terra. Così si sviluppano riflessioni sulla necessità di nuovi simboli per la nostra cultura, sull’importanza della parola (spesso oggetto di artifici linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società), sulla differenza tra segno e significato, tra cultura ed erudizione, tra cultura e intrattenimento, tra proprietà e custodia dei luoghi, tra razionalità e narcisismo; riflessioni sulla frammentazione dell’uomo, sull’assenza di archetipi, sul consenso comune e sulle comunanze, sulla metafisica del mondo rurale e sulla circolarità dell’esistenza, sull’arte e sulla bellezza.

Il simbolo, scrive Angelini, è elemento di unità, ricomposizione dell’unità spezzata. Dopo il tentativo degli uomini di dare la scalata al cielo gli dei decisero di punirli: allora Zeus stabilì di tagliarli in due parti, condannandoli a cercare la parte mancante per ritrovare l’unità. La frammentazione, la scissione tra corpo e spirito, la spaccatura di un mondo simbolico (cioè unitario) ha modificato la capacità di concepire la realtà e noi al suo interno. E’ su questa frattura che s’innesta la modernità, rovesciata al proprio interno fino alla completa perdita di sensi, all’insensibilità del contesto. Un distacco che rescinde i legami, spezza la comunità degli uomini, riducendola a un “arcipelago di solitudini”. Le donne e gli uomini chiusi nel proprio io, nelle proprie astrazioni, vivono in un’apnea esistenziale. Fuori da una visione simbolica e concreta, fuori dall’unione di tutto quanto è nella realtà, alla lunga resta la frammentazione progressiva, fino alle sue estreme conseguenze: la specializzazione esasperata, il relativismo che sotto l’abito borghese della tolleranza maschera l’indifferenza, il distacco dalla realtà che manifesta la virtualità, il primato dell’astrazione, il disprezzo verso il corpo, la non realtà. Angelini ricorda ancora come il contrario di ‘simbolico’ sia ‘diabolico’. Diabolico è, dunque, questo nostro tempo fondato sulla separazione, sulla frattura, sullo scisma interiore e comunitario. E non basta nemmeno la fede, perché senza simboli e segni visibili fatti di gesti, parole, oggetti, essa rischia di essere astratta, eterea, e perciò non comprensibile, perché i simboli rendono visibile e concreto il contatto con il piano della trascendenza.

Angelini ricorda poi l’importanza della parola. E’ il modello di tanta parte del parlare vuoto che in questi decenni ha inquinato la comunicazione pubblica e il mestiere della politica. “La parola” – scrive riferendosi agli artifici linguistici per mantenere gli attuali assetti corporativi della società – “non può essere usata con leggerezza. Il suo uso impone responsabilità, perché ogni limite alla comprensione porta con sé conseguenze di espropriazione ed espulsione sociale. Con la frammentazione dell’unità della conoscenza nel particolarismo e nell’iperspecializzazione si sono moltiplicate le barriere linguistiche per escludere dalla comprensione chi non appartenga alle corporazioni che pretendono di detenere il sapere in forma di monopolio”.

Da qui il passo per una definizione nuova di cultura è breve: la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. La cultura – ecco il nucleo della nuova definizione di Angelini – porta a crescere, ad elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti tra le persone. Chi invece parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non eleva, non fa crescere, ma inaridisce. Di per sé, un lungo addestramento scolastico e l’accumulazione di informazioni non hanno propriamente a che fare con la cultura. Lo stesso dicasi per l’uso della parola ‘cultura’ nell’attuale civiltà dello spettacolo, in cui essa viene utilizzata per lo più come sinonimo di ‘intrattenimento’ e occupazione del tempo libero.

Ci sono un sentire e un pensare umano che si formano, si raffinano, si correggono, si integrano e si tramandano nel tempo lento delle generazioni, che riflettono la verità del consenso comune e anche solo per questo testimoniano che nessuno è vissuto invano. Anche questo è cultura. Le esperienze comuni a tutti contribuiscono a formare un patrimonio di sensibilità e conoscenze condivise. E da queste esperienze nasce tanta parte del senso comune che si forma nel tempo e che nel corso del tempo si consolida. Sulle esperienze (precedenti) si fonda ampia parte del sapere della gente, prima di ogni grado di istruzione, ed è un sapere che nasce da un rapporto con il mondo diretto, quotidiano, manuale, sensoriale, emozionale, che parla il linguaggio dell’evidenza: quello che tutte le persone possono facilmente condividere; è un sapere che si forma nel corso degli anni e dei secoli. I gesti e le sensibilità condivise dalla gente hanno in sé un elevato grado di aderenza alla realtà interiore delle cose che non necessita di dimostrazioni. In quei gesti c’è il lascito di un’intera umanità e la compresenza di più mondi. Sono segni, oggetti, comportamenti che animano la metafisica concreta del mondo contadino, una relazione con il tempo e con lo spazio informata dalla circolarità, dalla sincronia, dalla ripetizione appunto, dal ritmo.

Con lo smarrimento della fiducia nei sensi, l’evidenza è stata sostituita da teorie che contraddicono l’esperienza comune a tutti…”Ma io dubito che l’esplorazione dello spazio, la sua militarizzazione e la pervasività delle comunicazioni satellitari abbiano reso il mondo migliore e le persone più felici”.
Angelini conclude con un messaggio positivo: “in fondo, basterebbe ridare a ciò che ci circonda il proprio posto e a noi il nostro…riconoscere che il razionalismo è una forma cinica di superstizione e le ideologie incubatrici di idolatria; che la bellezza esiste e non ha a che fare con ciò che piace. “Orientati al ringraziamento e al bene comune e alla ricomposizione simbolica della realtà, quando siamo allineati alle sensibilità e alle certezze vagliate nel tempo delle generazioni, uniti con i padri dei nostri padri e con i figli dei nostri figli, non abbiamo bisogno di affermare nulla di nuovo”.

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Pesca eccessiva e distribuzione incontrollata. Fao: “Uso responsabile delle risorse ittiche”

L’ultimo rapporto sullo Stato della pesca e dell’acquacoltura dell’agenzia dell’Onu segnala la preoccupante crescita del commercio e del consumo, che mette a repentaglio la biosostenibilità

di GIAMPAOLO CADALANU

 

Il miracolo di moltiplicare i pani, alla Fao lo sanno bene, è tutt’altro che facile. Ma ora serve anche qualcuno che sappia moltiplicare i pesci, perché la generosità degli oceani sta per raggiungere il limite. Le abitudini alimentari stanno cambiando in tutto il pianeta, l’attenzione ai prodotti della pesca aumenta, e secondo l’ultimo rapporto dell’agenzia Onu sullo Stato della pesca e dell’acquacoltura ormai il consumo pro capite è arrivato a 20 chilogrammi l’anno, pari a circa il 6,7 per cento delle proteine totali. Il consumo è a livelli doppi rispetto agli anni Settanta, e cresce a ritmi molto superiori alla crescita della popolazione. Come dire che la passione per il pesce aumenta proprio mentre il patrimonio sottomarino dà evidenti segni di esaurimento. Ma più che un allarme, quello della Fao è un invito all’utilizzo responsabile, tanto più che l’allevamento è ormai in grado di fornire quasi la metà del pesce che finisce in tavola.

Secondo il rapporto dell’agenzia, “quasi un terzo degli stock di pesce sono prelevati a ritmi biologicamente insostenibili”, cioè a livelli triplicati rispetto a quarant’anni fa, con una velocità che non permette il ricambio. La situazione è ancora più preoccupante per il Mediterraneo e per il mar Nero: nelle acque di quest’ultimo il pesce pescato a livelli insostenibili raggiunge il 59 per cento. A rischio sono i pesci sui piatti di tutti i giorni: orate, merluzzi, muggini, sogliole. “Ormai i margini per aumentare le catture sono molto ridotti”, dice il biologo Alessandro Lovatelli, tecnico della Fao, “ci sono invece spazi di miglioramento nel sistema di distribuzione, è un’area in cui si può fare molto per evitare gli sprechi”.

Nel 2014 il prelievo ha raggiunto 93,4 milioni di tonnellate: in testa il merluzzo d’Alaska, definito “la più grande riserva di pesce commestibile nel mondo”, ha superato l’acciuga del Cile, ma è andata bena anche la pesca di tonno, gamberi, crostacei e cefalopodi. A inseguire il tesoro sommerso sono 4,6 milioni di barche da pesca, il 90 per cento attive nelle acque di Asia e Africa. E in gran parte si parla di attività di piccola scala: secondo il rapporto Fao solo 64 mila sono lunghe 24 metri o più.

L’esportazione del pesce “vale”, stando ai dati del 2014, attorno ai 148 miliardi di dollari: ma è fondamentale soprattutto per i paesi in via di sviluppo, che ne ottengono ricavi superiori all’esportazione di carne, tabacco, zucchero e riso messi insieme. Ma più che la pesca, la carta vincente è l’acquacoltura, attualmente in grado di produrre 73,8 milioni di tonnellate di pesce, crostacei e molluschi per l’alimentazione umana. E metà di questa produzione viene da specie non alimentate dall’uomo, e dunque non comporta il sacrificio di altre proteine sottraendole all’uso umano. “E bisogna smentire il mito della minore qualità del pesce allevato: in genere il prodotto dell’acquacoltura è più controllato, perché si può scegliere l’alimentazione e monitorare la fase di produzione primaria. Prendiamo il salmone: nonostante sia per la maggior parte di allevamento, è di fatto un pesce di qualità. Ha un prezzo elevato perché l’offerta non basta a soddisfare la domanda”, spiega Audun Lem, vice direttore della Divisione Politiche Ittiche e Acquacoltura della Fao: “Quello che conta è che il lavoro sia fatto bene e che si rispettino le buone pratiche. L’acquacoltura è un lavoro che non si può improvvisare, l’allevatore che sbaglia va fuori mercato”. Meno ottimista Serena Maso, della campagna Mare di Greenpeace, secondo cui “al momento l’acquacoltura comporta ancora problemi di inquinamento che ci fanno considerare più sostenibile il consumo di pesce pescato”.

A guidare il boom nell’allevamento subacqueo non sono in genere i Paesi sviluppati, a parte la Norvegia, che è il secondo esportatore mondiale: in testa c’è la Cina, ma anche Vietnam, Cile, Indonesia e tante nazioni africane stanno facendo la loro parte, tanto che la Nigeria ha moltiplicato per venti la sua produzione negli ultimi vent’anni.
Gli esperti però sanno che il contributo dell’acquacoltura non compensa i danni della pesca illegale, con prelievi sproporzionati, spesso non autorizzati dai paesi costieri oppure concordati da regimi autoritari, a danno dei piccoli pescatori. Adesso però qualche motivo di ottimismo c’è: nei giorni scorsi è entrato in vigore l’Accordo internazionale sulle misure per gli stati di approdo, che impone controlli ai pescherecci nei paesi dove vanno a scaricare il pescato. “E’ una novità positiva, ma solo un primo passo”, chiarisce Serena Maso, “i controlli riguardano le barche straniere, ma servirebbero anche per le flotte nazionali”. E resta il problema dello sfruttamento eccessivo, delle monster-boat, navi immense che svuotano i mari, stivando anche 3700 metri cubi di pesce e di fatto rendendo impossibile la concorrenza impossibile dei pescatori artigianali. “Ma è la pesca tradizionale, con mezzi non industriali, ad avere effetti economici positivi sulle comunità costiere. E invece ormai i pescatori non trovano mercato per i loro pesci, troppo cari. E finisce che nelle mense scolastiche anziché prodotti del Mediterraneo per risparmiare si serve il pangasio del Mekong, pescato in uno dei fiumi più inquinati del mondo”.

Fonte: Repubblica.it

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La febbre del Pianeta è salita ancora nel 2015

Il rapporto “Lo Stato del Clima nel 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi evidenzia le allarmanti prospettive che si presenteranno a livello globale a seguito degli impressionanti record raggiunti da una serie di indicatori climatici.

 

Il 2015 è stato inequivocabilmente l’anno più caldo mai registrato per la Terra con 1,0 °C in più rispetto all’era preindustriale, le concentrazioni dei 3 principali gas a effetto serra (diossido di carbonio, metano e protossido di azoto) hanno raggiunto livelli record, l’innalzamento delle acque dei mari ha toccato il suo livello più alto con un incremento di 3,3 mm e la quantità di precipitazioni è aumentata di 70 mm rispetto alla media degli anni ’90, ma al contempo il Pianeta ha anche sofferto di severe siccità su una superficie complessiva doppia rispetto al 2014: dall’8% al 14%.

Questi ed altri impressionanti risultati dei 50 diversi indicatori climatici dell’anno trascorso che continuano a riflettere le tendenze coerenti con la febbre della Terra che aumenta, sono contenuti nel Rapporto “State of the Climate in 2015” redatto da oltre 450 scienziati di 62 Paesi, coordinati dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) e publicato il 2 agosto 2016 nel Supplemento speciale del Bollettino della Società Meteorologica Americana.
Credo che il tempo di chiamare il medico sia stato nei decenni trascorsi – ha dichiarato Deke Arndt, a capo della Divisione il monitoraggio del clima della NOAA  e tra i principali autori del Rapporto – Ora siamo di fronte ha una molteplicità di sintomi“.

Ecco in sintesi i 10 risultati più eclatanti contenuti nel Rapporto 2015.
1. La temperatura globale della superficie terrestre è stata la più alta mai registrata. Nel 2015 il record stabilito appena l’anno prima è stato battuto con un +0,1 °C, superando per la prima volta di 1 °C i livelli di temperatura media globale dei livelli preindustriali.
2. Le temperature superficiali dei mari sono risultate egualmente le più alte mai registrate. La temperatura media marina è stata di 0,33-0,39 °C sopra la media, superando la media precedente di 0,10-0,12 °C. La più alta temperatura rispetto alla media si è verificata nella parte nord-est del Pacifico e nel Pacifico equatoriale orientale, mentre il nord Atlantico e il sud-est della Groenlandia sono rimasti più freddi rispetto alla media. Queste acque molto più calde hanno notevolmente aumentato l’attività dei cicloni tropicali.
3. La quantità di calore immagazzinata dagli oceani è stata la più alta mai registrata. A livello globale il calore accumulato negli strati superiori degli oceani è stato il più alto mai registrato. Gli oceani assorbono circa il 90% del calore in eccesso della Terra.
4. Il livello globale dei mari è il maggiore mai registrato. Si è raggiunto nel 2015 il nuovo record di 70 mm rispetto alla media del 1993, l’anno che segna l’inizio del record misurato con i satelliti. Nel corso degli ultimi due decenni, il livello del mare è aumentato ad un tasso medio di 3,3 mm all’anno, con i più alti tassi di crescita negli Oceani Pacifico e Indiano occidentale.
5. Il fenomeno di El Niño è stato di eccezionale portata. Oltre ad elevare le temperature globali, l’El Niño ha sollevato il livello del mare, ha intensificato l’attività del ciclone tropicale del Pacifico e provocato siccità nelle parti dei tropici con crescità di incendi e rilascio di anidride carbonica.
6. La concentrazione di gas serra ha raggiunto il livello più alto mai registrato. Il biossido di carbonio (CO2), il metano e il protossido di azoto, sono saliti a valori record durante il 2015. La concentrazione media annua di CO2, secondo l’osservatorio di Mauna Loa (Hawaii), è risultata pari a 400,8 parti per milione (ppm), superando per la prima volta il limite simbolico delle 400 ppm, con 3.1 ppm oltre il 2014, il più grande incremento annuo osservato nel corsi di 58 anni.
7. I cicloni tropicali sono stati ben al di sopra della media generale. Ci sono stati 101 cicloni tropicali in tutti i bacini oceanici nel 2015, ben al di sopra della media 1981-2010 di 82 tempeste. Il Pacifico centrale ha visto succedersi 26 cicloni. Anche la parte occidentale del Nord del Pacifico, e i bacini settentrionali e meridionali dell’Oceano Indiano hanno registrato un’intensa attività. Viceversa, l’attività dei cicloni nel nord Atlantico è stata più debole del 68% del valore medio del periodo 1981-2010, con l’uragano Joaquin che ha coperto quasi la metà di tale valore.
8. Il ghiaccio marino artico ha avuto la sua minima estensione. Nel febbraio 2015, la massima estensione del ghiaccio marino nell’Artico è stato del 7% inferiore della media 1981-2010, il livello più piccolo mai registrato. Le temperature della superficie terrestre artica è stata superiore di 2,8 °C a quella dei primi anni del 20° secolo.
9. I ghiacciai hanno continuato la loro contrazione. L’anno scorso ha segnato il 36° anno consecutivo del contrarsi dei ghiacciai alpini a livello globale. I numeri sono del tutto in linea con quelli rilasciati nello Studio del Politecnico federale di ZurigoContrasting climate change impact on river flows from high-altitude catchments in the Himalayan and Andes Mountains” e pubblicati lo stesso giorno sulla PNAS, secondo cui sull’Himalaya e sulle Ande gli effetti del riscaldamento globale saranno addirittura opposti: il primo nei prossimi decenni sarà soggetto a inondazioni sempre più frequenti, mentre il secondo vedrà acuirsi la siccità.
10. I fenomeni estremi hanno raggiunto la loro maggiore intensità.

schema cambiamenti climatici

Fonte: regioneambiente.it

 

 

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Decrescita e democrazia nell’epoca della globalizzazione

Il 28 maggio 2013 la società finanziaria J P Morgan Chase&Co, leader nei servizi finanziari globali con sede a New York, ha reso pubblico un documento di sedici pagine, intitolato Aggiustamenti nell’area euro, in cui alle pagine 12 e 13 vengono indicati i problemi che, secondo i suoi analisti, rendono difficile applicare nei paesi dell’Europa meridionale le politiche di austerity, che essi ritengono indispensabili per far ripartire la crescita.

 

All’inizio della crisi si pensò che i problemi nazionali preesistenti fossero soprattutto di natura economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire una maggiore integrazione dell’area europea.

I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo.

I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; il diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. Le conseguenze di tale eredità politica sono state rivelate dall’incedere della crisi: i paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali perché i loro esecutivi sono limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia).

 

La JP Morgan è stata una delle protagoniste dei progetti di finanza creativa che hanno provocato nel settembre del 2007 la crisi dei mutui subprime. Una crisi che, sebbene sia stata presentata come finanziaria, in realtà era di sovrapproduzione e derivava dal fatto che l’offerta di case era molto superiore alla domanda, per cui gli istituti di credito, per evitare fallimenti nel settore dell’edilizia che si sarebbero estesi a tutto il sistema produttivo, incentivavano a comprarle concedendo mutui anche a clienti che essi stessi classificavano nella categoria dei subprime, ovvero degli inaffidabili, perché erano stati protestati, o non avevano pagato bollette, o avevano fatto bancarotta. La crisi dei subprime è stata la causa scatenante della crisi economica che si è estesa a tutti i Paesi industrializzati a partire dal mese di settembre del 2008, ma le difficoltà del settore dell’edilizia riflettevano la situazione di tutto il sistema produttivo ed erano una conseguenza del processo di globalizzazione.

 

La globalizzazione: l’ultima fase dell’economia della crescita

La globalizzazione, cioè l’estensione a tutto il mondo del modo di produzione industriale,[1] costituisce l’ultima fase di una tendenza insita nella finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Per accrescere la produzione di merci è necessario ampliare progressivamente il numero dei produttori e dei consumatori di merci, che sono due aspetti della stessa figura sociale, perché i produttori di merci ricevono in cambio del loro lavoro un salario che li mette in condizione di comprare sotto forma di merci tutti i beni di cui hanno bisogno. Per ampliare il numero dei produttori/consumatori di merci le società industriali hanno incentivato e/o costretto quantità sempre maggiori di persone che autoproducevano gran parte dei beni necessari per vivere (i contadini), o producevano valori d’uso (gli artigiani), a trasferirsi dalle campagne e dai paesi nelle città, dall’agricoltura di sussistenza e dall’artigianato all’industria e ai servizi. Sin dai primordi la storia dell’industrializzazione è stata caratterizzata da flussi migratori che sono cresciuti in proporzione con la crescita della produzione industriale.[2] Poiché i produttori di merci non hanno la possibilità di lavorare per autoprodurre i beni di cui hanno bisogno, ma devono e possono comprarli sotto forma di merci, l’aumento del numero dei produttori fa aumentare sia l’offerta che la domanda di merci, ma non in misura proporzionale, perché contestualmente la concorrenza induce ad introdurre nei cicli produttivi innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività, cioè la produzione nell’unità di tempo, riducendo l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto. Pertanto, se l’adozione di queste tecnologie non viene accompagnata da riduzioni degli orari di lavoro, il numero degli occupati per unità di prodotto diminuisce e agli incrementi dell’offerta non corrispondono analoghi incrementi della domanda. Da ciò deriva una tendenza intrinseca alla sovrapproduzione, che nei trent’anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale è stata tenuta sotto controllo tenendo alta la domanda attraverso i debiti pubblici – le spese in deficit per i servizi sociali, l’assistenza, il sovradimensionamento del pubblico impiego, le pensioni di anzianità – e incentivando i debiti privati col credito al consumo. Ciò nonostante, il divario tra gli incrementi sempre maggiori dell’offerta e i più ridotti incrementi della domanda ha continuato ad aumentare. E ha ricevuto un forte impulso dall’aumento della concorrenza internazionale indotta dalla globalizzazione. Questa è la causa della crisi iniziata nel 2008, di cui dopo 8 anni non si intravede ancora la fine e non è escluso che possa ancora aggravarsi.
La globalizzazione ha coinvolto in tempi brevi, sostanzialmente dall’abbattimento del muro di Berlino (ottobre 1989) e dalla fine del socialismo reale che ne è conseguita, alcuni Paesi in cui vive metà della popolazione mondiale, i cosiddetti BRICS: Brasile, Russia, India, Cina (e sud est asiatico), Sud-Africa. La diffusione del modo di produzione industriale in questi Paesi ha aperto nuovi mercati alle aziende multinazionali dei Paesi occidentali ed è stata indispensabile per consentire all’economia mondiale di continuare a crescere, ma ha creato al contempo una serie di problemi politici, economici e ambientali, che non solo rendono sempre più difficile all’economia di continuare a crescere, ma riducono la desiderabilità di un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per sostenere la concorrenza esercitata dalle aziende industriali dei BRICS, dove le retribuzioni e le tutele sindacali sono inferiori a quelle dei Paesi di più antica industrializzazione, le aziende multinazionali che operano sul mercato mondiale hanno agito in tre direzioni:

– hanno utilizzato l’informatica per sviluppare innovazioni tecnologiche che sostituiscono i lavoratori con macchine automatiche e robot;

– hanno ridotto i salari e le tutele sindacali dei lavoratori dipendenti;

– hanno delocalizzato gli impianti nei Paesi in cui il costo del lavoro e le tutele sindacali sono inferiori.

 

Queste scelte comportano un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro nei paesi industrializzati: oltre alla riduzione delle tutele sindacali e dei redditi degli occupati, un aumento del numero dei disoccupati, una maggiore precarietà nei rapporti di lavoro, sempre maggiori difficoltà dei giovani a trovare un’occupazione. Queste dinamiche inevitabilmente conflittuali non possono essere gestite esclusivamente a livello sindacale, ma richiedono il sostegno di interventi legislativi. In particolare le modifiche nella legislazione sul lavoro che peggiorano le condizioni dei lavoratori dipendenti possono essere attuate solo da un’alleanza strategica tra governi e associazioni imprenditoriali. In Italia nel biennio 2014-2015 è stato approvato da un governo sedicente di sinistra il jobs act, che ha abolito lo Statuto dei lavoratori in vigore dal 1970 introducendo criteri di flessibilità nei rapporti di lavoro, con la conseguenza di renderli più precari senza aumentare l’occupazione, come era stato sbandierato per agevolarne l’accettazione sociale. In Francia nel 2016 un governo altrettanto sedicente di sinistra ha proposto l’adozione di alcune misure legislative analoghe che, quanto meno per rispetto della propria lingua, sono state raccolte sotto la definizione di loi travail. La proposta di legge ha suscitato una forte resistenza sindacale, che si è manifestata con scioperi e mobilitazioni di piazza in tutto il Paese, senza tuttavia intaccare la determinazione dell’esecutivo, che l’ha fatta approvare ricorrendo tre volte al quesito di fiducia per evitare il voto del Parlamento.
Contestualmente, per rilanciare la crescita le agenzie di rating, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e l’Unione Europea hanno imposto agli Stati maggiormente indebitati di ridurre i loro debiti pubblici, che nel 2013 ammontavano da un minimo del 90,6 per cento del prodotto interno lordo in Gran Bretagna, a un massimo del 175,1 per cento in Grecia, riducendo la spesa per i servizi sociali, adottando criteri privatistici nella loro gestione e/o favorendone la privatizzazione per consentire nuove opportunità di profitto agli operatori economici. Le linee guida degli interventi che sono stati imposti ai governi nazionali per ridurre i loro debiti sono state le seguenti:

– riduzione della spesa per i servizi sociali: pensioni, scuola, sanità, assistenza;

  • aumento dei carichi di lavoro e riduzione delle retribuzioni dei dipendenti pubblici;
  • – posticipazione dell’età pensionabile e riduzione dell’entità delle pensioni mediante il passaggio dal calcolo contributivo al calcolo retributivo;[3]
  • privatizzazione dei servizi pubblici locali;
  • introduzione di criteri di gestione privatistica nei servizi sociali: nella scuola, nella sanità e nei trattamenti pensionistici;
  • svendita di importanti settori del patrimonio pubblico.

Il 29 settembre 2011 il presidente uscente e il presidente entrante della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, hanno scritto al Presidente del Consiglio italiano una lettera, che avrebbe dovuto restare segreta (in nome della trasparenza e della democrazia?) in cui indicavano le misure a loro parere indispensabili per rilanciare la crescita economica:

 

1.Vediamo l’esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. […] Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del mercato del lavoro. a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. b) C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. […] c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.

  1. Il Governo ha l’esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.

L’obiettivo dovrebbe essere […] un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico. […] Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione). C’è l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province) […]

[…] consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare […]

 

Queste misure concorrono a scaricare i costi della crisi e la riduzione dei debiti pubblici sui redditi delle classi lavoratrici e di ampi settori dei ceti intermedi. Nel loro insieme si configurano come un rilancio in grande stile della lotta di classe, condotta, al contrario di quanto ipotizzava il marxismo, dalle classi privilegiate contro le classi subalterne (con sviluppi che vanno oltre le analisi di Luciano Gallino, pubblicate nel libro La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012). Una lotta di classe che in Italia è stata aggravata da vere e proprie rapine dei piccoli risparmiatori da parte delle banche, con la complicità del potere politico. Il carattere di classe delle misure con cui sono stati scaricati sulle classi subalterne i costi di risanamento dei deficit pubblici, è stato occultato mediaticamente presentandole come le premesse per superare la crisi e rilanciare la crescita, mentre la riduzione dei redditi degli occupati con cui si è tentato di sostenere la concorrenza dei BRICS, è stata presentata come la premessa per affrontare il grave problema dell’occupazione giovanile. Queste linee sono state seguite senza sostanziali differenze da tutti i governi, indipendentemente dal fatto che fossero guidati da partiti di destra o da partiti di sinistra traslocati a destra.
Destra e sinistra addio

Nel tentativo di tenere sotto controllo la conflittualità sociale che sarebbe derivata dall’adozione di queste misure antipopolari, le già elencate istituzioni sovranazionali, private e pubbliche, preposte al governo dell’economia mondiale, hanno affidato la loro gestione ai partiti della sinistra moderata nei Paesi in cui questi partiti avevano mantenuto un consenso di massa. In Gran Bretagna e in Italia hanno inserito ai loro vertici rappresentanti dei loro interessi: Tony Blair nel Labour Party e Matteo Renzi nel Partito Democratico. In Francia si sono limitati a manovrare il Presidente della Repubblica, nonché segretario del Partito Socialista, François Hollande, che per la sua inettitudine poteva essere tenuto facilmente sotto controllo. Non hanno avuto bisogno di usare i partiti di sinistra in Germania e in Spagna dove i partiti di centro-destra hanno mantenuto la loro presa sull’elettorato; né, per le stesse ragioni, in Gran Bretagna, quando la destra è tornata al potere dopo che il Labour Party aveva messo in minoranza il loro rappresentante al suo interno, Tony Blair, costringendolo alle dimissioni da primo ministro; né negli Stati Uniti, dove i già labili confini tra destra e sinistra si sono dissolti quasi del tutto.[4]

 

In Grecia la gestione delle misure che, sotto l’etichetta apparentemente tecnico-economica dell’austerity, scaricano sulle classi popolari i costi del risanamento del bilancio statale, è stata affidata alternativamente alla destra e alla sinistra storiche, il partito liberal-conservatore Nuova Democrazia e il partito socialdemocratico PASOK, con scarsissima efficacia in un caso e nell’altro per l’incapacità di entrambi i raggruppamenti politici di stroncare le resistenze che hanno incontrato a livello sociale. Alle elezioni del 2015 la resistenza sociale alle misure antipopolari imposte dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale e dalle agenzie di rating ha dato la maggioranza a una nuova formazione politica di sinistra, Syriza, che, differenza del partito socialista, era dichiaratamente ostile alla loro applicazione. Dopo essere arrivato inaspettatamente al governo, il suo leader Alexis Tsipras le ha sottoposte a un referendum popolare che le ha respinte. In risposta, l’Unione Europea e le istituzioni bancarie sovranazionali lo hanno costretto a compiere una rapida mutazione genetica e a farle approvare dal parlamento, annullando l’espressione della volontà popolare espressa nel referendum.

 

Nella fase della globalizzazione la crescita della produzione di merci richiede che vengano posti limiti alla democrazia

Non era la prima, anche se è stata la più clamorosa attuazione delle indicazioni contenute nel documento in cui la J P Morgan ha sostenuto la necessità di porre limiti alla democrazia nei paesi in cui le costituzioni conferiscono alle istituzioni elettive, i parlamenti nazionali e regionali, o direttamente al popolo attraverso forme di democrazia diretta, il potere di impedire all’esecutivo l’attuazione delle riforme economiche e fiscali che la finanza internazionale, il grande capitale e le istituzioni sovranazionali ritengono indispensabili per superare la crisi, o in cui vigono «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e «il diritto di protestare se vengono proposte modifiche sgradite dello status quo».

 

Nel 2013 sono state avviate trattative segrete tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea per la definizione di un accordo denominato TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti) finalizzato a far crescere gli scambi commerciali e gli investimenti tra le aziende multinazionali dei due continenti al fine di dare impulso alla crescita economica.[5] La bozza dell’accordo prevedeva di togliere agli Stati il potere di applicare le norme legislative nazionali che costituissero degli impedimenti alla piena attuazione del trattato, ad esempio le normative sanitarie e ambientali più rigorose poste alle attività produttive in uno Stato europeo rispetto agli Stati Uniti. Evidentemente si tratta di un testo funzionale alla globalizzazione, che subordina la democrazia alle esigenze della crescita economica.

In Italia nel 2011 un referendum popolare ha abolito le norme che consentivano alle aziende private la gestione dei servizi idrici a scopo di profitto, andando a colpire gli interessi delle aziende multinazionali del settore e delle società per azioni a prevalente capitale delle amministrazioni pubbliche locali: comuni, associazioni di comuni, province, regioni. Le più importanti di esse appartenevano a comuni amministrati da decenni dal Partito Democratico. Da allora all’esito del referendum non è ancora stata data attuazione, sia dalle amministrazioni di centro-destra, sia da quelle di centro sinistra, con le sole eccezioni di un capoluogo di regione e di un capoluogo di provincia, mentre almeno un’assemblea regionale ha votato una delibera che lo respinge.

In Francia nel 2010 e in Italia nel 2015 sono state istituite le città metropolitane, che di fatto consentono alle principali città capoluogo di assumere decisioni vincolanti anche per gli altri comuni che vi sono inseriti, riducendo la loro autonomia. Sempre nel 2015 in Italia sono state abolite le elezioni provinciali e la scelta dei consiglieri provinciali è stata affidata ai consiglieri comunali tra i consiglieri comunali dei Comuni insistenti nel loro ambito territoriale. Nel 2016 il governo italiano ha invitato i cittadini a boicottare il referendum sulle trivellazioni petrolifere in mare e sulla terraferma, cioè a non esercitare un potere decisionale previsto dalla costituzione, per non interferire con le decisioni prese dal governo in base al potere che il popolo gli conferisce pro-tempore. La stessa volontà di esautorare la democrazia e di concentrare il potere nell’esecutivo, secondo le indicazioni della J P Morgan, caratterizza la riforma costituzionale approvata in Italia lo stesso anno, utilizzando forzature procedurali e la forza dei numeri a scapito non solo della ragione, ma anche, in molti passaggi, della razionalità e della logica. Lo scopo principale sembra essere arrivare nel più breve tempo possibile a mettere di fatto nelle mani del governo la composizione degli organi istituzionali a cui, in base al principio della divisione dei poteri, è demandato il compito di controllare il suo operato e di impedire che fuoriesca dai suoi limiti: il Parlamento, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, la Presidenza della Repubblica. L’anno precedente era stata approvata una riforma elettorale che garantisce l’elezione dei capilista indicati dai partiti, riducendo drasticamente la possibilità da parte dell’elettorato di scegliere i suoi rappresentanti nel Parlamento, conferisce un premio di maggioranza esorbitante al partito che al ballottaggio riceva la percentuale più alta di voti senza indicare una soglia minima, esclude la possibilità di eleggere i senatori, che vengono scelti dai consigli regionali tra i consiglieri regionali e i consiglieri comunali dei Comuni insistenti sul territorio regionale.

 

I tentativi di ridurre la democrazia nei Paesi in cui questa forma istituzionale si è affermata duecentocinquanta anni fa insieme al modo di produzione industriale, rispondono all’esigenza di superare le difficoltà poste dalla globalizzazione alla crescita delle loro economie dalla fine del secolo scorso e al superamento della crisi che li affligge dal 2008. Poiché la scelta fatta dagli organismi della finanza internazionale e delle aziende multinazionali per rilanciare la crescita in questi Paesi presuppone, come si è detto, che i costi del risanamento dei loro bilanci statali siano sostenuti da una riduzione delle spese per i servizi sociali, e che la concorrenza con i costi del lavoro molto inferiori dei BRICS sia sostenuta da una riduzione delle tutele sindacali e delle retribuzioni degli occupati, queste misure di politica economica, industriale, amministrativa e sindacale così penalizzanti per le classi sociali subordinate, possono essere adottate soltanto riducendo il potere delle istituzioni democratiche che consentono ad esse di opporsi. In realtà, in conseguenza di questi interventi non solo non si è aperta una nuova fase di crescita nei Paesi industrializzati, ma la domanda è diminuita e si è accentuata la tendenza alla sovrapproduzione, per cui la crisi anziché attenuarsi si è aggravata. In questa fase storica, in cui il modo di produzione industriale ha raggiunto il suo apice, la globalizzazione è necessaria per far crescere la produzione di merci, ma inducendo a ridurre le retribuzioni nei Paesi di più antica industrializzazione, incentivando la delocalizzazione delle imprese nei Paesi in cui il costo della manodopera è più basso e riducendo la spesa pubblica fa aumentare la domanda meno dell’offerta, per cui la strozza. Di conseguenza, le tradizionali misure di politica economica finalizzate a rilanciare la crescita non possono consentire di superare la crisi, nemmeno se la loro applicazione viene facilitata dalla limitazione degli spazi democratici. Il fallimento dei tecnocrati portati al potere negli ultimi anni, scavalcando le procedure democratiche, lo ha già dimostrato. Senza, naturalmente ridurre di una briciola la loro supponenza.

 

L’economia della crescita ha bisogno delle migrazioni

Una conseguenza ancor più devastante della globalizzazione è stata l’attivazione d’imponenti flussi migratori dai Paesi dell’Europa dell’est, dell’Africa e del Medio Oriente verso i Paesi dell’Europa occidentale. Innanzitutto perché, come si è già detto, la crescita della produzione di merci richiede un aumento del numero dei produttori e dei consumatori di merci, che si può ottenere soltanto con forti trasferimenti di popolazione dalle campagne alle città, dall’economia di sussistenza all’economia mercificata. Anche in questa fase, come nelle precedenti, sono state utilizzate le due leve della persuasione e della costrizione. Per incentivare, soprattutto le fasce giovanili dei Paesi in cui ancora persistono ampie situazioni d’economia di sussistenza, a emigrare in cerca di fortuna nei Paesi industrializzati, sono stati utilizzati in maniera massiccia i mezzi di comunicazione di massa. Le reti televisive, soprattutto private, dei Paesi dell’Europa occidentale hanno svolto nei confronti di quelle popolazioni lo stesso ruolo del cinema americano nei confronti dei popoli europei alla metà del secolo scorso, diffondendo il desiderio d’imitazione degli stili di vita consumistici e disinibiti delle società industriali. Insieme a questo potentissimo strumento di persuasione, lo strumento di costrizione principale sono state le guerre combattute, direttamente o indirettamente, dai Paesi occidentali contro i Paesi in cui si trovano i giacimenti di fonti fossili e di altre materie prime indispensabili alle loro economie per crescere. Quando non intervengono con i loro eserciti supertecnologici, i Paesi occidentali fomentano le ostilità tra le differenti etnie, o confessioni religiose, che nel secolo scorso hanno incluso forzatamente all’interno degli stessi confini, per costringerle in uno stato di conflittualità permanente. La loro politica estera viene dettata dalle esigenze delle società multinazionali dell’energia, delle armi e dell’edilizia (che interviene per ricostruire quanto viene distrutto dalle guerre), quando non è gestita direttamente dai loro manager, e utilizza in maniera spietata la violenza e il terrorismo di massa per mantenere alti i profitti aziendali, garantire sostanziosi dividendi agli azionisti, consentire alle popolazioni di continuare a mettere benzina nelle loro automobili e trascorrere le domeniche nei centri commerciali.

 

Attratti dalle sirene di un consumismo di cui, a parte casi eccezionali, raccolgono solo le briciole, o costretti a fuggire dalle atrocità delle guerre, gli immigrati che arrivano nei Paesi europei, quando trovano un lavoro regolare svolgono le mansioni meno qualificate e meno retribuite, fanno crescere il prodotto interno lordo di questi paesi e non il benessere di quelli in cui sono nati, con i contributi sulle loro retribuzioni consentono di pagare le pensioni dei nativi. Una serie di vantaggi che sarebbe insensato rifiutare, come dicono i sostenitori di un’accoglienza tutt’altro che disinteressata. Ma molti lavorano in nero come schiavi e s’accampano in bidonvilles, o vivono di espedienti, non sempre legali, e trovano sistemazioni precarie per le strade e in edifici abbandonati dei quartieri periferici delle grandi città, aggravandone il degrado a cui già sono ridotti dal disinteresse delle amministrazioni comunali. Tra gli abitanti di quei quartieri, dove la sofferenza sociale raggiunge i picchi più elevati, l’inserimento di gruppi di immigrati in condizioni precarie provoca tensioni e acuisce il risentimento per le differenze crescenti tra le pessime condizioni in cui sono costretti a vivere e il benessere delle classi sociali privilegiate che abitano nei quartieri dove quei problemi non esistono.[6] Rimaste prive di rappresentanza politica dalla mutazione genetica dei partiti di sinistra, che condividono con quelli della destra moderata la valutazione della globalizzazione e, quindi, delle migrazioni, come fattore di crescita, progresso, modernità e ricchezza culturale, inevitabilmente queste classi sociali si sono rivolte alle formazioni politiche, in particolare le destre xenofobe, che le valutano negativamente e cercano di contrastarle, facendo leva cinicamente sulla paura e alimentando l’odio verso lo straniero, spesso nelle maniere più becere, per accrescere il loro consenso elettorale.

 

La resistenza alle limitazioni della democrazia nell’epoca della globalizzazione

Nel pieno dell’offensiva finalizzata a ridurre gli spazi della democrazia per imporre le scelte di politica economica che la finanza internazionale e le società multinazionali ritengono necessarie per rilanciare la crescita, due scadenze elettorali nel mese di giugno del 2016 hanno dimostrato che la strategia messa in atto per applicarle incontra forme di resistenza inaspettate e rischia di provocare un effetto Wile Coyote.[7] In Italia, il Partito Democratico, che da difensore degli interessi dei lavoratori si è trasformato in docile esecutore delle volontà del capitale internazionale, è stato sconfitto inaspettatamente alle elezioni amministrative della città di Torino e in misura inaspettata alle elezioni amministrative della città di Roma, dal Movimento 5 Stelle, un soggetto politico dalla fisionomia non del tutto definita, ma sicuramente alternativa ai due schieramenti di destra e di sinistra, su cui si è articolata la dialettica politica nel novecento fino all’abbattimento del muro di Berlino, che ormai rappresentano due sfumature parzialmente differenti del pensiero unico dominante in tutto il mondo. In Gran Bretagna la maggioranza della popolazione ha inaspettatamente votato di uscire dall’Unione Europea in un referendum promosso dal primo ministro per consolidare il suo consenso politico, in cui la quasi totalità dei principali esponenti dei partiti di destra e di sinistra avevano sostenuto la necessità di restare. In Francia la contrapposizione tra la popolazione e il blocco dei partiti di destra e di sinistra si è manifestata a livello politico con il consenso elettorale crescente al partito nazionalista di estrema destra Front National, a livello sociale con gli scioperi di massa e le manifestazioni di piazza contro la loi travail. In Spagna, nel bipolarismo tra il Partito Popolare di centro-destra e il Partito Socialista di centro-sinistra, che si era formato dopo la fine della dittatura franchista, si è introdotto inaspettatamente con un peso elettorale equivalente a quello dei due partiti storici, il movimento politico Podemos, che si è fatto interprete delle istanze espresse dalle grandi manifestazioni di massa, per lo più giovanili, degli indignados contro la classe politica. In Grecia l’esito politico delle manifestazioni di piazza contro le politiche di austerity imposte dall’Unione Europea è stata la vittoria elettorale del partito di sinistra Siryza, immediatamente stroncata dall’intervento congiunto di Unione Europea, Banca centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.

 

La città di Torino è stata governata dal 1993 al 2016 da un blocco di potere in cui sono confluite le componenti politiche di centro-sinistra che hanno faticosamente costituito il Partito Democratico, le associazioni imprenditoriali, il mondo della finanza, le istituzioni culturali pubbliche e i mass media.[8] Nello stesso periodo un blocco di potere analogo, con un sostegno mediatico analogo, ha governato la città di Roma, con l’interruzione degli anni 2008-2013, quando il centro-sinistra è stato temporaneamente sostituito dal centro-destra, senza che il blocco di potere subisse modificazioni e mutassero gli orientamenti amministrativi. L’unica differenza rilevante tra le due esperienze, durate quasi un quarto di secolo, è stato un sostanziale rispetto della legalità nella gestione amministrativa della città di Torino, mentre la gestione amministrativa di Roma è stata pesantemente infiltrata dalla malavita organizzata. Alle elezioni del 2016 il Partito Democratico ha superato il 50 per cento dei voti solo nei quartieri ricchi delle due città e ha registrato le percentuali più basse nei quartieri popolari, dove la sinistra era sempre stata maggioritaria. Sarebbe miope vedere nella sua sconfitta ai ballottaggi con Movimento 5 Stelle, che si è ripetuta in altri 17 comuni per un totale di 19 su 20, solo una bocciatura della politica perseguita dalle amministrazioni comunali di centro-sinistra. A Roma questa motivazione ha avuto certamente un suo peso, che a Torino è stato molto minore. Nell’orientamento dell’elettorato hanno influito due fattori di carattere generale. In primo luogo il voto per il Movimento 5 Stelle è stato motivato non solo dal dissenso nei confronti delle politiche amministrative locali, che hanno perseguito la riduzione dei deficit tagliando soprattutto le spese per i servizi sociali, le manutenzioni, il decoro e la vivibilità dei quartieri periferici, ma dalla consapevolezza che quelle scelte erano l’applicazione a livello locale della strategia seguita dal Partito Democratico a livello nazionale, di ridurre il debito pubblico scaricandone i costi sulle classi popolari, in ottemperanza alle direttive delle istituzioni politiche, economiche e finanziarie internazionali. E il Movimento 5 Stelle si è presentato come l’alternativa politica al Partito Democratico, non solo nelle amministrazioni locali, ma anche livello governativo. Inoltre nella scelta elettorale ha influito l’indignazione per il divario crescente tra i disagi sempre maggiori in cui gli abitanti dei quartieri periferici erano costretti a vivere in conseguenza di quelle decisioni, e i privilegi di cui continuavano a godere gli appartenenti ai blocchi di potere che le avevano assunte. Significativamente l’ex sindaco di Torino, sconfitto alle elezioni, ha sostenuto che il voto al Movimento 5 Stelle sia stato dettato dall’invidia sociale. Qualche giorno dopo l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, in un dibattito televisivo ha usato la stessa locuzione di invidia sociale per definire l’indignazione suscitata dall’assunzione del fratello del Ministro dell’Interno alle Poste, senza concorso e con una retribuzione annua lorda di 160 mila euro all’anno.[9] Gli esponenti dell’ancien régime non avrebbero usato parole diverse.[10]

 

Promuovendo un referendum popolare sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, il primo ministro inglese David Cameron era sicuro della vittoria dei favorevoli, tra cui si annoverava insieme a tutta l’élite economica e finanziaria. Era convinto di rafforzare in questo modo il suo consenso e di ridimensionare il peso politico di coloro che sostenevano la necessità di uscirne, in particolare il partito nazionalista dell’eurodeputato Nigel Farage. La vittoria dei contrari è stato un fulmine a ciel sereno che ha suscitato reazioni isteriche da parte dei perdenti. La maggioranza dei mass media ha improvvisato un’analisi del voto sostenendo che i fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea erano stati gli anziani, le persone con bassi livelli culturali e gli abitanti delle zone rurali, mentre a favore della permanenza avevano votato i giovani, le persone colte e gli abitanti delle grandi città. I dati utilizzati per costruire la storia della contrapposizione generazionale erano il risultato di una indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, una settimana prima del voto, su un campione di 1652 persone, di cui appena 73 sopra i 65 anni. Sulla base di questi elementi, su cui nessuna persona che si proponga di capire le dinamiche sociali in corso farebbe il minimo affidamento, i mass media hanno scatenato una campagna di stampa accusando i vecchi di essere egoisti, raccontando di lacerazioni all’interno delle famiglie tra genitori chiusi mentalmente e figli aperti alle innovazioni e al futuro. Alcuni sono arrivati a mettere in discussione il diritto di voto su questioni così delicate a persone ignoranti e arretrate culturalmente, come notoriamente sono i contadini. L’economista di fama internazionale Mario Monti, ex presidente dell’Università Bocconi, più volte commissario europeo, nominato senatore a vita dall’ex Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, ex presidente del Consiglio, socio dei più importanti consessi finanziari internazionali, lo ha detto con estrema chiarezza: «Non sono d’accordo con chi dice che questo referendum sia una splendida forma di espressione democratica. Sono contento che la nostra Costituzione, quella vigente e quella che forse verrà, non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei trattati internazionali».[11] Gli hanno fatto eco autorevoli giornalisti, mettendo in discussione il suffragio universale e paventando sfracelli economici e sociali in conseguenza della confusione della democrazia col populismo (uno di loro è arrivato a scrivere che con l’esito del referendum l’Inghilterra era tornata a essere un’isola!). È stata avviata una raccolta firme per rifare la consultazione, a cui i giornali hanno dato per giorni un rilievo straordinario come se fosse possibile e facendo sparire di colpo la notizia quando l’assurdità dell’iniziativa è diventata palese.

Un’analisi dei dati provenienti dai seggi dopo le operazioni di conteggio dei voti ha dimostrato che in realtà le decisioni degli elettori erano riferibili, nell’ordine, al loro livello scolastico, allo status sociale e alla ricchezza pro-capite.[12] Dalle sintesi grafiche pubblicate sul Guardian è risultato che il voto contrario alla permanenza nell’Unione europea proviene dalle zone in cui vivono le classi lavoratrici, anche nelle grandi città. A Londra ha prevalso nei quartieri periferici, mentre i favorevoli hanno prevalso nei quartieri centrali. E così è avvenuto anche Manchester, Liverpool e in tutte le principali città del Regno Unito. La similitudine con quanto è avvenuto nelle elezioni amministrative in Italia 15 giorni prima è troppo evidente per non essere presa in considerazione.

Il 27 giugno 2016, all’incontro annuale del comitato Bretton Woods il vicedirettore del Fondo Monetario Internazionale David Lipton ha detto senza mezzi termini che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea decretata dal risultato del referendum è «l’inizio della fine della globalizzazione». Probabilmente si tratta dell’interpretazione più adeguata di quanto è avvenuto, che spiega anche le motivazioni di tanto accanimento contro l’esito referendario e la proposta indecente di ridurre la democrazia, impedendo alle classi subordinate dei Paesi industrializzati di dire no alle scelte con cui il potere economico e finanziario pretende di scaricare su di loro i costi necessari a sostenere l’illusione di rilanciare la crescita mediante la globalizzazione.

 

Wile Coyote

La cesura storica segnata dall’abbattimento del muro di Berlino ha sancito che il capitalismo è il sistema di gestione del modo di produzione industriale più efficiente, cioè più adeguato a far crescere la produzione di merci. Di conseguenza i partiti di sinistra, che hanno condiviso con i partiti di destra l’identificazione del progresso con la crescita della produzione di merci, chiamata anche pudicamente sviluppo, hanno abbandonato ogni riferimento al socialismo e si sono progressivamente spostati a destra, aderendo all’ideologia liberista. Con estremo sprezzo del ridicolo, alcuni dirigenti dei partiti di sinistra hanno rivendicato di averla sempre condivisa, anche mentre la combattevano! In conseguenza dello spostamento della sinistra a destra, il capitalismo ha ritenuto di aver stroncato ogni alternativa,[13] senza rendersi conto che le ingiustizie sociali e i problemi ambientali causati dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci avrebbero fatto emergere altri antagonisti, diversi e più radicali, perché, a differenza della sinistra, non si sarebbero limitati ad avversare la gestione di un modello economico e produttivo di cui condividono le finalità, ma avrebbero visto nel modello in sé stesso la causa dei problemi da risolvere. Problemi che non investono soltanto le relazioni degli esseri umani tra loro, che tutto sommato si possono affrontare anche tentando di ridurre a forza gli spazi della democrazia, ma coinvolgono il rapporto della specie umana con l’ecosistema terrestre, dove le prove di forza politiche e militari non possono essere utilizzate. Nella critica alle conseguenze negative che la globalizzazione ha prodotto nei paesi industrializzati e nell’ecosistema terrestre, sono confluite sensibilità e orientamenti politici molto diversi: il rimpianto delle fasce anziane delle popolazioni per la perdita della sicurezza sociale e la riduzione del benessere, l’angoscia dei giovani che non trovano lavoro e dei ceti medi per il peggioramento delle loro condizioni lavorative e retributive, la preoccupazione per la gravità della crisi ecologica derivante dall’estensione di un modello economico e produttivo che ha già superato i limiti della compatibilità con le risorse della terra, la paura del terrorismo, la difesa delle identità nazionali minacciate dai flussi migratori, la difesa dei beni comuni, la lotta contro l’aumento delle diseguaglianze sociali, contro la riduzione della democrazia, contro il potere della finanza internazionale e delle società multinazionali. Uno schieramento composito e disomogeneo, che sta frapponendo una resistenza inaspettata alle scelte politiche funzionali alla globalizzazione e sta riproponendo la valorizzazione delle economie locali, anche se in due prospettive molto diverse tra loro: una prospettiva finalizzata a soddisfare la maggior parte delle esigenze vitali dei gruppi umani con le risorse degli ambienti in cui vivono, senza eccedere il valore 1 dell’impronta ecologica, e una prospettiva nazionalistica, che ripropone rapporti conflittuali e di prevaricazione tra i popoli. In relazione ai Paesi europei queste due tendenze sono rappresentate da chi dice no a questa organizzazione dell’Unione Europea e da chi dice no all’Unione Europea. La storia induce a credere che la seconda abbia più possibilità di affermarsi, ma solo la prima ha capacità di futuro ed è anche in grado di recuperare in positivo le pulsioni che l’altra tende a indirizzare in senso distruttivo, come la valorizzazione delle identità culturali di ogni popolo, ovvero dei modi in cui le generazioni precedenti si sono rapportate con i luoghi in cui vivevano, hanno organizzato le relazioni umane e rapporti sociali, hanno elaborato il sistema dei valori, i modelli di comportamento, il rapporto col sacro. Non perché si ritengano superiori ad altri modi, ma perché le società si organizzano in modi differenti in relazione alle differenti caratteristiche dei territori in cui vivono.

 

I limiti che i sostenitori della globalizzazione vogliono porre alla democrazia, accentrando il potere negli esecutivi e riducendoli a esecutori di decisioni prese da organismi internazionali non elettivi che rappresentano gli interessi del grande capitale, sono la risposta all’inaspettata resistenza sociale incontrata dalle misure di politica economica finalizzate a rilanciare la crescita mediante l’estensione del modo di produzione industriale in tutto il mondo. Ma questa strategia si basa su un errore di fondo e può dare un esito opposto a quello che si propongono i suoi promotori.

L’errore di fondo consiste nel credere che gli ostacoli alla globalizzazione provengano principalmente dalle resistenze delle classi sociali che dovrebbero pagarne i costi, che pure non possono essere sottovalutate. In realtà sono costituiti da due fattori oggettivi che non dipendono dalla volontà degli esseri umani e, quindi, non sono gestibili né politicamente, né militarmente. In primo luogo, come si è ripetuto più volte, la globalizzazione potenzia la tendenza, insita nel modo di produzione industriale, a far crescere la domanda meno dell’offerta e, quindi a determinare crisi di sovrapproduzione, che sino ad ora sono state superate grazie alla progressiva estensione dell’economia di mercato a paesi in cui l’economia era ancora fondamentalmente di sussistenza. Con la globalizzazione questi margini stanno per finire. In secondo luogo il sistema produttivo industriale ha già superato la capacità dell’ecosistema terrestre di fornirgli le risorse di cui ha bisogno per continuare a crescere e la sua capacità di metabolizzare gli scarti, liquidi, solidi e gassosi che emette. Questi margini sono finiti. La crescita della produzione di merci non può che aggravare entrambi i problemi e portare in tempi più brevi di quanto si immagini all’autoannientamento dell’umanità.

Il risultato molto diverso da quello sperato che possono dare le misure finalizzate a ridurre la democrazia e ad accentrare il potere politico nell’esecutivo è costituito dal già citato effetto Wile Coyote. Non è detto che i risultati elettorali diano la maggioranza ai partiti che vogliono concentrare in questo organo costituzionale un potere incontrollabile dal potere legislativo e dal potere giudiziario. Gli esiti delle elezioni amministrative in Italia e del referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea sono un’anticipazione di ciò che può accadere. Non si può escludere che nella trappola preparata per gli oppositori finiscano coloro che l’hanno predisposta con cura. Come succede a Wile Coyote, che finisce con l’essere regolarmente vittima degli attentati che prepara al road runner Beep Beep.

Se la volontà di porre limiti alla democrazia risponde a una necessità intrinseca della crescita nell’epoca della globalizzazione, come testimoniano il documento della J P Morgan, la lettera di Trichet e Draghi al presidente del Consiglio italiano, l’intervento della Troika per annullare l’esito del referendum in Grecia, il TTIP, la riforma del sistema elettorale e della Costituzione italiana, le proposte di limitare il diritto di voto, il jobs act, la loi travail e tutti gli altri interventi nell’ottica della decostituzionalizzazione e della deparlamentarizzazione, per usare le definizioni du Barbara Spinelli, allora la difesa della democrazia diventa un tassello della rivoluzione culturale della decrescita.[14] In un tornante della storia in cui l’umanità, appiattita sulla dimensione materialistica e accecata dall’avidità, ha posto le premesse del suo autoannientamento, l’accusa di voler imporre scelte esistenziali basate sul pauperismo e sulle rinunce che alcuni sostenitori della crescita rivolgono a chi ritiene che solo una decrescita felice, cioè selettiva e governata, ci può salvare, acquista connotazioni grottesche, perché sono stati i sostenitori della crescita a uniformare i modelli di comportamento di massa usando spregiudicatamente la pubblicità, sono i sostenitori della crescita a cercare oggi di ridurre gli spazi democratici, mentre le persone libere, autonome e orgogliose di esserlo fino all’irriverenza, che si rifiutano di subordinare le loro scelte esistenziali al pensiero unico e agli imperativi del consumismo, non possono non essere democratiche. E oggi non possono non schierarsi tra coloro che difendono la democrazia da chi, nella vana speranza di rilanciare la crescita, sta usando tutti i mezzi di cui dispone per ridurne i poteri.

 

 

 

 

 

[1]             Nel modo di produzione pre-industriale il lavoro è finalizzato a produrre beni per soddisfare dei bisogni, sia nel caso in cui vengano prodotti per autoconsumo (i contadini), sia nel caso in cui siano prodotti per essere venduti a clienti che li richiedano (i prodotti artigianali e le eccedenze agricole rispetto al fabbisogno dei contadini). Pertanto il denaro è un mezzo di scambio. Nel modo di produzione industriale il lavoro è finalizzato a produrre merci, cioè oggetti e servizi da vendere, allo scopo di ricavare più denaro di quanto ne sia stato investito per produrle. Pertanto il denaro diventa il fine della produzione e la misura della ricchezza. L’indicatore con cui si misura il benessere di una nazione diventa il prodotto interno lordo, ovvero il valore monetario delle merci a uso finale prodotte e comprate in un periodo di tempo determinato.

[2]             Questo processo è iniziato in Inghilterra nel Settecento con le leggi sulla recinzione dei campi e la privatizzazione delle terre comuni, che hanno impedito ai contadini di continuare a praticare un’economia di sussistenza e li hanno costretti a diventare operai nelle fabbriche. È proseguito con la concorrenza esercitata dalle prime fabbriche tessili nei confronti degli artigiani. Da allora si è esteso progressivamente. Su questo tema, di cui analizzo brevemente le caratteristiche attuali in un capitolo di questo libro, mi permetto di rimandare al mio pamphlet Decrescita e migrazioni, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2009, e al mio libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 20016, capitolo 3: La guerra ai contadini, agli artigiani e alle comunità, pagg. 49-81.

[3]    In Italia le modifiche al regime pensionistico sono state introdotte dalla legge Fornero (gennaio 2013)

[4]    A questo proposito mi permetto di rimandare al mio libro Destra e sinistra addio, Lindau, Torino 2016

[5]             «L’obiettivo del TTIP è far crescere il commercio e gli investimenti tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, da cui ci si aspetta il risultato di creare occupazione e crescita economica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Dato questo obiettivo, in primo luogo valutiamo l’impatto economico derivante dal TTIP. Ci sono alcuni studi sull’impatto economico del TTIP. Il principale, preparato per l’EC, è il CEPR (2013), che stima, quando il TTIP sia a pieno regime, una crescita del PIL tra lo 0,3 e lo 0,5 per cento in più rispetto a quella che si avrebbe se il TTIP non fosse in vigore». Un incremento davvero strepitoso. Il testo è tratto dal documento Initiating a public dialogue on environment protection in the context of the Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP negotiations). Background Report. AAVV. Institute for European Environmental Policy. April 2016

[6]   Dopo aver perso le elezioni, l’ex sindaco PD di Torino Piero Fassino ha detto di aver verificato per esperienza diretta che l’immigrazione è problema «più sentito nella aree a maggiore sofferenza sociale, dove gli immigrati sono visti in competizione per la casa, il lavoro, il welfare. Si tratta delle stesse aree nelle quali abbiamo avuto i risultati peggiori. Per esempio nell’assegnazione delle case popolari, il criterio basato sulla composizione dei nuclei familiari premia sempre più spesso le famiglie immigrate, che fanno più figli. Bisogna domandarsi fino a quando la graduatoria unica è sostenibile. Questo per non alimentare conflitti tra chi quel diritto lo esige». Repubblica Torino, 9 luglio 2016

[7]    Personaggio di un fumetto che, per catturare il suo antagonista, il road runner Beep Beep, escogita una serie di trappole, per lo più a base di esplosivi, di cui finisce regolarmente per essere vittima. È stato evocato in un dibattito televisivo dall’onorevole Gianni Cuperlo del Partito Democratico, per commentare la sconfitta del suo partito e la vittoria del Movimento 5 Stelle alle elezioni amministrative del 2016, paventando che un risultato analogo possa ripetersi al referendum sulla riforma costituzionale, voluta a tutti i costi dal primo ministro italiano Matteo Renzi per rafforzare il suo potere politico e annullare quello dei suoi avversari. L’immagine si attaglia perfettamente anche al primo ministro inglese David Cameron, che ha promosso il referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea convinto di vincerlo e di indebolire strategicamente i suoi avversari antieuropeisti, col risultato di aver subito una sconfitta che ha concluso anzitempo la sua carriera politica.

[8]    Alle elezioni comunali del 1993 la sinistra moderata sostenuta dal grande capitale e dalla finanza si presentò con una lista alternativa a una lista di sinistra impedendole di eleggere il sindaco al primo turno e superando di poco, inaspettatamente, la lista di centro-destra. Al ballottaggio con la lista di sinistra, che al primo turno aveva ricevuto quasi il doppio dei suoi consensi, raccolse i voti del centro-destra ed elesse il sindaco.

[9]    La retribuzione annua lorda di un insegnante di scuola media con 35 anni di servizio è circa 26.000 euro.

[10] In un’intervista rilasciata a Sebastiano Messina e pubblicata su Repubblica on line il 21 giugno 2016, Piero Fassino ha dichiarato: «Il Movimento 5 Stelle ha la responsabilità di aver alimentato l’invidia sociale, in questi anni». Gabriele Albertini ha usato le stesse parole il 7 luglio nella trasmissione televisiva Omnibus sulla rete 7.

[11]  Dichiarazione rilasciata al quotidiano La Stampa il 18 giugno 2016.

[12] Andrea Coccia, Altro che la guerra vecchi contro giovani raccontata dai giornali. Il conflitto che emerge dalla brexit non è generazionale, ma di classe. E per non farlo esplodere dobbiamo saperlo vedere, Linkiesta, 29 Giugno 2016

[13]  È nota l’affermazione di Margaret Tatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990: There is no alternative, entrata nel linguaggio politico con l’acronimo TINA.

[14]          Barbara Spinelli, L’apatia della democrazia, in Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2015

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La decrescita non è e non può essere uno slogan

Di Alessandro Perosa

  1. In principio era un grido di battaglia

 

Sluaghghairm, da cui slogan, è una parola di derivazione gaelica – composta dai termini ghairm ‘grido’ e sluagh ‘guerra’ – che significa grido di battaglia lanciato dai componenti di una tribù o di un clan contro i propri nemici. La sua prima attestazione in italiano risale al 1905, quando il termine viene usato per significare sentenza o massima, così come anche talvolta leitmotiv, parola d’ordine di una causa o linea di partito.

Parallelamente a questi significati, nel XX secolo, il mondo occidentale ha declinato il termine slogan anche – e soprattutto – in ambito pubblicitario come sinonimo di motto creato per caratterizzare un prodotto. E così, nel processo di onnimercificazione compiuto negli ultimi duecento anni dalla razionalità capitalista, prima, e da quella tecnologico-capitalista[1], poi, da originario grido di battaglia ha finito per significare in modo quasi esclusivo «frase ad effetto, brevissima e incisiva, della pubblicità commerciale»[2].

L’orizzonte semantico contemporaneo lo considera, quindi, uno strumento espressivo sintetico, rapido ed efficace, spesso orecchiabile, pronunciato con l’intento di enunciare un concetto, magari risaputo e spesso ovvio, destinato a restare impresso il più possibile nella mente del destinatario. Si tratta di una frase fatta, di una locuzione che serve a blandire, a circuire le persone, persino a confonderle, e non certo a coinvolgerle in un processo relazionale paritetico e linguisticamente significante. Chi ha interesse a spostare l’attenzione delle masse su un oggetto o su un fatto minore, usa la tecnica dello slogan come arma di «distrazione» collettiva. Così come chi vuol convincere i consumatori della bontà di un prodotto, ne esalta a dismisura le qualità con frasi ad effetto, che colpiscono l’attenzione e condizionano i gusti di chi ascolta.

Si pensi, a tal proposito, al fenomeno commerciale delle mode o alla tecnica con cui il potere economico riesce a garantirsi ‘nuove’ crescite del volume d’affari, attraverso la spinta compulsiva all’acquisto, stimolata dall’obsolescenza percepita e sorretta dalla pubblicità, che dello slogan si nutre.

Nella società dell’immagine, in cui ci troviamo a vivere, il ‘grido di battaglia’ non può che essere suadente e capace di orientare il senso estetico e i bisogni delle masse, facendosi ben presto strumento di tortura psicologica. Chi opera nel mondo pubblicitario sa che una «frase fatta» e una rima ben assestata consentono di memorizzare senza sforzo un prodotto, che diventa desiderabile principalmente in quanto portatore di novità. Perché il nuovo, in un mondo abitato da chi crede di camminare nel solco dell’innovazione continua e illimitata, è sempre meglio del vecchio. E lo slogan serve proprio a convincere l’acquirente che il prodotto stipato nello scaffale sia davvero il migliore in circolazione: «Acquistalo, e non rimarrai deluso!», è il refrain più noto. «Non seguire il gregge, fai la pecora nera e compra la nostra auto», recitava uno spot di una nota casa automobilistica: salvo però omettere che se tutti i possibili acquirenti fanno le pecore nere, finiscono inevitabilmente per seguire il gregge, non si distinguono più dagli altri e si conformano al gusto mediano.

La «parola pubblicitaria» serve a comunicare messaggi e simboli in modo rapido, attraente e facilmente comprensibile. Per questo motivo, anche il suo stile è linguisticamente mediocre: non si tratta di fare letteratura, di affascinare con narrazioni raffinate, o di viaggiare verso l’utopia coi piedi ben piantati in cielo fra i sogni. Qui si deve solo persuadere l’acquirente della bontà del prodotto: e per farlo non resta che elaborare frasi fatte, facilmente memorizzabili e semplici nella sintassi.

Se si osserva con attenzione il contesto relazionale entro cui agisce questo tipo di linguaggio, ci si accorge però che proprio il proliferare di discorsi concisi e orecchiabili produce una degenerazione sociale e politica. Perché questo tipo di linguaggio non solo controlla e orienta i comportamenti economici della massa, ma finisce per trasformare per intero la lingua – e con essa l’orizzonte culturale – della società.

Il parlare è un atto originario di fondamentale importanza. Chi parla e nomina le cose in modo compiuto e col rispetto necessario, conferisce a queste stesse cose realtà. La realtà quindi non è data una volta e per sempre, ma è parlata. Ovvero, una res è proprio quella res, e non un’altra, perché nell’atto di nominarla s’innesca un percorso di ri-conoscimento linguistico che costituisce la cosa stessa e la rende vitale. La realtà non sarebbe ciò che appare – e non si darebbe a ognuno di noi nelle forme in cui siamo abituati a ri-conoscerla – se non esistesse la possibilità di dire le cose (enti) che appaiono, chiamandole per nome. E dare un nome agli enti significa de-finirli, porli in ordine, collocarli all’interno di un contesto ontologico unitario, costituito dai variegati ‘modi d’essere’ (forme delle res), che chiamiamo realtà.

Non è certo il caso di aprire in queste righe una riflessione sul rapporto generativo tra il parlante e la «cosa nominata», ma è pur sempre utile notare che la parola pronunciata modifica il mondo che abitiamo, e il mondo, a sua volta, condiziona il nostro modo di esprimerci.

Per questo motivo, chi impoverisce il linguaggio attraverso il sistematico ricorso allo sluaghghairm trasforma anche l’orizzonte in cui vive, rendendolo sempre più uniforme e monodimensionale. In un contesto sociale in cui lo slogan assurge a gesto linguistico prioritario, l’intero orizzonte sociale, culturale e politico non può far altro che mostrare lo spazio sloganistico come segno del tempo. Se tutto è riconoscibile linguisticamente attraverso lo slogan, diventano tali anche le parole che nominano l’amore, le relazioni sociali, politiche, le dinamiche interpersonali, che per mostrarsi in forma realmente umana avrebbero invece bisogno di profondità, di riflessione, di pazienza linguistica, di tempo generativo. Un amore soggetto a slogan può essere consumato, ma non certo vissuto con la pienezza necessaria. Lo slogan è il sesso che vince sull’eros; è il bisogno che schiaccia il desiderio; è l’oppressione che annulla la libertà di un’esperienza vissuta in pienezza e gratuità: perché l’atto di donare all’altro tutto se stesso palesa una complessità irriducibile e non rappresentabile in uno spot. Quando tutto è slogan, la donazione di sé diventa anch’essa sloganistica: lo slogan quindi trasforma il mondo e l’uomo in res condizionate dal «grido di battaglia» del mercato. Dove tutto ha un prezzo, soggetto alla domanda e all’offerta.

Ora, non è necessario essere dei raffinati glottologi per capire che la semplificazione linguistica sta trasformando radicalmente gli esseri umani e le relazioni che essi costituiscono con l’ambiente circostante. E d’altra parte, chi ha un minimo di profondità intellettuale, comprende molto bene che questo tentativo di compiere una sorta di reductio ad unum linguistica e culturale è volto a uniformare gusti e orientamenti, in vista di una maggiore ottimizzazione del sistema produttivo. La comunicazione per slogan serve a divertire e a rendere orecchiabile un’idea, una pro-posta commerciale (che diventa surrettiziamente im-posta), un messaggio pubblicitario, che puntano a collocare in tutto il mondo i medesimi prodotti. Chi parla non si preoccupa di sapere se la merce reclamizzata o l’ostentazione di una certa idea sia (almeno per lui) davvero buona o nociva, condivisibile o inaccettabile, dispotica o conviviale, sostenibile o distruttiva. L’importante è che la frase ad effetto resti piantata bene in mente agli ascoltatoti, e sappia sovrastare le altre «grida di battaglia» che si affacciano nell’agone con sempre maggior violenza, tenacia e ostinazione.

In un mondo in cui le informazioni sono sovrabbondanti, è necessario andare rapidamente al dunque, e per farlo bisogna ridurre il vocabolario ai soli termini che abbagliano. Per questo motivo, l’uso reiterato di questa tecnica comunicativa finisce per imbarbarire il linguaggio, che punta soltanto all’eufonia e alla pronta memorizzazione, conseguite attraverso metodiche di costruzione sintattica prese in prestito – non prima di averle stravolte – dalla poesia[3]. D’altra parte lo slogan è spesso in rima e costruito secondo una metrica che gli conferisce un andamento ritmico suadente, tale da prestarsi alla facile memorizzazione. La sua fortuna è anzitutto musicale: strutturalmente è di certo più vicino al rap che alla musica «colta». Ovvero, si presenta con un’idea schematica e superficiale, che si esprime in poche formule approssimative[4]. La musica ritmica e le parole eufoniche si fanno jingles, si insinuano nei meandri della memoria e consentono di accomunare una frase ad effetto a un determinato prodotto.

Chi abita dentro l’orizzonte tecnologico-capitalista fa ogni giorno esperienza di questa neolingua. Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno può pensare di farla franca, neppure chi crede di appartenere all’élite culturale. Perché gli stessi pubblicitari sono vittime dei messaggi che inventano: d’altronde se il limite del mio linguaggio è il limite del mio mondo, chi inventa o parla per slogan finisce per vivere irrimediabilmente nel mondo sloganistico che ha creato. Egli ne è parte, ne viene condizionato come tutti gli altri. È questa, se si vuole, la vittoria dello strumento sulla razionalità: è il dominio del mezzo che prende pieno possesso dell’essere umano, trasformandolo dalle fondamenta.

Lo slogan s’impadronisce di tutti noi rendendoci marionette in mano altrui. Slogan è la voce del potere impersonale, è la voce di chi vuole massimizzare il dominio e punta dritto al sodo, ben sapendo che questo sodo è violenza, sopruso, proprietà: ma disconoscendo, al contempo, che proprio quel sodo a cui aspira è la lama affilata con cui l’homo publicitarius sta tagliando il ramo sul quale è seduto.

 

 

  1. Lo slogan è la forma violenta della parola economica

 

Lo sluaghghairm è una lama di coltello che entra nel cuore dell’essere, fino a sfibrarlo; è uno strumento linguistico feroce, che abita la scissione ontologica, se ne nutre, e cibandosene approfondisce il solco che separa il singolo dal contesto in cui si trova[5]. Per colmare questa frattura violenta è necessario portare a compimento l’orizzonte entro cui si rende pensabile ogni parola, ogni azione, ogni istituzione, ogni potere del «nostro» mondo ontologicamente frammentato; è necessario condurre al tramonto l’occidente, ovvero farlo morire, ch’è poi un portarlo alle estreme conseguenze, per vederlo finalmente schiantare sulla linea estrema del proprio mondo; sì che lì, al confine tra cielo e terra, possano scorgersi un giorno le luci di una nuova alba utopica.

Se lo slogan porta all’eccesso la frammentazione ontologica (ovvero la scissione fra l’Io e il contesto naturale, fra l’Io e l’altro da sé: umano e non umano), il logos paziente, rispettoso e pronunciato sottovoce – quasi sibilando – apre le porte a una relazionalità conviviale e fraterna di tipo orizzontale, in cui tutti si riconoscono reciprocamente come parlanti. La parola, che si affranca dalla voracità, conferisce una pacifica realtà al mondo; il discorso conviviale fa partorire lentamente le cose, le ordina sullo spazio esperienziale e le pone in una relazione costitutiva non-violenta: le une senza le altre sarebbero impensabili, perché ogni cosa è proprio quella cosa in virtù dei rapporti ontologici e linguistici che la parola stessa costituisce con l’essere circostante. Mentre il tecnicismo sloganistico scinde i legami e s’impone sulla scena come un Deus ex machina che condiziona il mondo, manipolando le facce esterne (che sono gli elementi formali chiamati significanti) e talvolta anche quelle interne (i significati) dei termini. Per questo lo slogan è lo strumento prediletto dall’ideologia, che pretende di dire il vero e costringe la realtà poliedrica ad entrare all’interno di uno schema preordinato, sfinendo la realtà stessa e coartando la libertà d’ognuno.

Chi vuole liberare il proprio linguaggio dalla violenza non può far altro, allora, che ripensare dalle fondamenta nuove forme sintattiche capaci di «prendere tempo». Il discorso paziente e-duca i parlanti, che dalla relazione conviviale traggono nuova linfa esistenziale; si vive nel discorso, perché le parole che nominano le cose, consentono un reciproco riconoscimento. Chiamare qualcosa col proprio nome significa dargli realtà, portarlo in superficie, relazionarsi al suo modo d’essere, ovvero alla sua forma. E non è forse proprio questa l’idea di Simone Weil, quando nel ragionare sul bene e sul male scrisse: «È bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie»[6]?

 

L’uso sistematico dello slogan non è ristretto al solo ambito economico, ma in una società dell’onnimercificazione tutto viene ridotto a mercato e a relazioni mercantili. Si pensi ad esempio al condizionamento subito dallo sport e dalla politica, che dello slogan continuano a fare ampio uso con conseguenze incalcolabili sulla riduzione dell’immaginario sociale. Il motto politico imbarbarisce il discorso e lo rende commerciale. Le proposte programmatiche si trasformano in banali consigli per gli acquisti, in promesse vuote, anche se magari di particolare effetto. E non è un caso che la politica sia scomparsa ormai da tempo dalle sedi di partito, dai luoghi storici d’aggregazione, dalle piazze, dai cortei, dai luoghi di cultura, finendo relegata negli angusti ambiti dei talk show televisivi. Luoghi fittizi in cui maschere parlanti urlano e cercano il consenso senza curare minimamente la profondità della riflessione e il rigore del pensiero.

Ma c’è di più. Un di più rappresentato dal web, ch’è ormai la dimensione principale in cui si trova a vivere l’homo technologicus. E questo di più è una voragine senza fondo, che rischia di inghiottire ciò che incontra, ricacciandolo nel ventre dell’insignificanza. Perché la parola pronunciata nello spazio virtuale è parola che vive a nessun dove: ma questa, più che anelare all’utopia, spinge difilato verso la distopia ideologica del potere tecnico che sottomette ogni cosa all’incremento del suo dominio.

Quando si ragiona sul linguaggio in rapporto al mondo virtuale, è necessario cercare di capire quale sia la dimensione verbale di quel mondo. O per dirla altrimenti: dato che i limiti del mio mondo significano i limiti del mio linguaggio, quando mi trovo a chattare sui social, che tipo di parole uso? E che mondo è quello dei social? Dove si trova? E che valore hanno le parole mediate da una tastiera e da uno schermo? E l’altro, con cui entro in relazione, esiste davvero, è una persona che conosco e che immagino stia parlando con me in questo momento, o ignorando chi sia (perché non lo conosco, non l’ho mai visto, non so neppure dove abiti), io suppongo che il tizio con cui credo di parlare esista sul serio, quando invece potrebbe essere un fake, magari anche autogenerato dal computer?

Ma non è ancora tutto. La tecnologia ha finito per trasformare dalle fondamenta il mondo, e con esso anche l’essere umano: le sue abitudini, il suo linguaggio, le sue passioni. A fronte di una scissione ontologica, di una frantumazione della relazione sociale, si cerca la connessione continua col mondo virtuale. Nessuno è più in grado di stare con se stesso, di abitare il silenzio, e paradossalmente ciò avviene all’interno di un contesto sociale che spinge sempre più alla frammentazione, alla disgregazione dei legami sociali. Perché quando si è soli si è anche più facilmente preda del mercato. E così, l’homo technologicus abita da ignaro la separazione, il rintanamento sociale, per poi connettersi alla grande rete virtuale che collega singole monadi in tutto il mondo. Egli incarna realmente la solitudine, per vivere relazioni artificiali sui social. E nel percorrere a perdifiato la contemporaneità tecnica, arriva al paradosso per cui i ritmi di vita sono così pressanti e disumani da rendergli impossibile qualunque altro tipo di rapporto che non sia mediato dallo schermo di un computer. Perché deve lavorare, consumare, produrre a ritmi sempre più sostenuti. E al contempo – è qui l’inganno – crede a torto che quello spazio di vita sociale perduto, lo possa recuperare in maniera fittizia navigando in internet: con l’illusione di avere il vento in poppa e il mondo a portata di mano.

Ma sui social non si può parlare davvero, ed è impossibile esprimere un ragionamento sul serio, un pensiero profondo che abbia un minimo senso, che intenda esprimere un sentimento, una visione, una lettura del mondo e della vita. Davanti allo schermo non ci sono gli occhi dell’altro a guardarti. Non si sente il suo respiro affannato o gioioso, non vedi le emozioni scintillargli dagli occhi, e non esiste il mondo con le sue luci e i suoi colori cangianti. Hai solo uno spazio bianco virtuale su cui scrivere uno stato (d’animo?) che qualcuno commenterà, probabilmente senza neppure averlo letto bene. D’altra parte non c’è tempo, e le parole sono sempre troppe. Così, per fare in fretta, non resta che esprimersi per slogan, per frasi fatte, masticate e vomitate una miriade di volte da pubblicitari che intendono orientare gusti e bisogni. Frasi che non significano niente, perché sono decontestualizzate, perché non si ha l’agio di difenderle, di argomentarle, di criticarle. Nei social è come se le parole calassero dall’alto, da un altrove insondabile, sconosciuto. E allora tutto diventa inutile: non ha più senso distinguere, articolare pensieri, ragionare. La parola non significa più niente, ma serve soltanto a lanciare un grido. Che maschera spesso un’accorata richiesta di riconoscimento. D’altronde cos’altro è la lotta per emergere sugli altri, per scalare la piramide sociale, per la fama? Cos’è la rincorsa al successo televisivo e mediatico in genere? È un disperato bisogno di vedersi riconosciuti in un mondo che ha distrutto le relazioni ontologiche, i legami sociali e familiari, lasciando tutti soli e in balia del mercato.

Per tutta questa serie di motivi sin qui discussi, la decrescita felice – che si propone di ricucire le scissioni ontologiche, riequilibrando i rapporti fra gli esseri umani e il resto della natura – non può assumere in alcun modo le caratteristiche di una «parola bomba», né tanto meno venir confusa con lo slogan. Perché lo slogan è la forma violenta della parola economica.

 

 

 

[1] Per comprendere in quale senso debbano essere intese la cultura capitalista e quella tecnologico-capitalista si rimanda al saggio: A. Pertosa, Dall’economia all’eutéleia. Scintille di decrescita e d’anarchia, Edizioni per la decrescita felice, Roma 2014, (si veda in particolare il capitolo III).

[2] M. Cortellazzo – P. Zolli, Il nuovo etimologico, Zanichelli, Bologna 2015, p. 1540 (nota relativa alla voce slògan).

[3] Cfr. F. Sabatini, Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, «Il Ponte» 24 (1968), pp. 1046-1062 (il saggio è stato ristampato in Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità. Antologia, a cura di M. Baldini, Armando, Roma 1987, pp. 91-98; poi in Chiantera 1989, pp. 121-138); A. Stefinlongo, L’italiano che cambia. Scritti linguistici, Aracne, Roma 2008, pp. 195-219.

[4] Il vocabolario Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2003, p. 1690.

[5] Della scissione ontologica ho parlato diffusamente in Pertosa, Dall’economia all’eutéleia, cit. (si vedano in particolare i capitoli III e V).

[6] S. Weil, Quaderni (volume primo), Adelphi, Milano 2010, p. 199 (or. Cahiers, I, Librairie Plon, Paris 1970).

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Il cemento mangia 8 chilometri di costa all’anno

I dati del rapporto Ambiente Italia di Legambiente, che intanto con Goletta Verde sta verificando lo stato delle acque

roberto giovannini

In Italia ci sono oltre 7mila km di coste con bellezze storiche, ambientali, geomorfologiche. Ma oggi il 51% dei litorali italiani è stato trasformato da case e palazzi e la cifra, senza un cambio delle politiche, è destinata a crescere: negli ultimi decenni al ritmo di 8 km all’anno, più della metà dei paesaggi costieri sono stati letteralmente `mangiati´ da palazzi, alberghi e ville. Non solo cemento: un terzo delle spiagge è interessato da fenomeni erosivi in espansione; 14.542 sono le infrazioni accertate nel corso del 2014 tra reati inerenti al mare e alla costa in Italia, 40 al giorno, 2 ogni km. L’habitat marino è costantemente messo alla prova dall’inquinamento, con il 25% degli scarichi cittadini ancora non depurati (40% in alcune località) e ben 1.022 agglomerati in procedura di infrazione europea. Il 45% dei prelievi realizzati da Goletta Verde nel 2015 è risultato inquinato, mentre la plastica continua a invadere spiagge e fondali marini. Solo il 19% della costa (1.235 km) è sottoposta a vincoli di tutela. Questa la fotografia della nostra costa scattata dal rapporto Ambiente Italia 2016, a cura di Legambiente e edito da Edizioni Ambiente, presentato oggi a Roma.

 

 

 

A peggiorare la situazione ci si mette il consumo di suolo: dei 6.477 km di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, 3.291 km sono stati trasformati in modo irreversibile. Nello specifico 719,4 km sono occupati da industrie, porti e infrastrutture, 918,3 sono stati colonizzati dai centri urbani. La diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, interessa 1.653,3 km, pari al 25% dell’intera linea di costa. Tra le regioni, la Sicilia ha il primato assoluto di km di costa caratterizzati da urbanizzazione meno densa ma diffusa (350 km), seguita da Calabria e Puglia; la Sardegna è invece la regione più virtuosa per quantità di paesaggi naturali e agricoli ancora integri.

 

Dal 1988 ad oggi, sono stati trasformati da case e palazzi ulteriori 220 km di coste, con una media di 8 km all’anno, cioè 25 metri al giorno. Tra le regioni più devastate la Sicilia con 65 km, il Lazio con 41 e la Campania con 29. Nelle aree costiere, secondo i dai Istat, nel decennio 2001-2011 sono sorti 18mila nuovi edifici. Ben 700 edifici per chilometro quadrato sia in Sicilia che in Puglia, 600 in Calabria ma anche 232 per chilometro quadrato in Veneto, 308 in Friuli Venezia Giulia, 300 in Toscana, Basilicata e Sardegna.

 

Ad emergere dal rapporto è anche un’aggravante che si va ad aggiungere alle tante criticità: quella dei cambiamenti climatici «con impatti significativi sugli ecosistemi, sulla linea di costa e sulle aree urbane», sottolinea Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. Una sfida, aggiunge, che «deve portare a una nuova e più incisiva visione degli interventi. Occorre rafforzare la resilienza dei territori ai cambiamenti climatici e spingere verso la riqualificazione e valorizzazione diffusa del patrimonio costiero». Le ragioni della fragilità delle aree costiere italiane risiedono in problemi idrogeologici e nelle conseguenze di urbanizzazioni, sia legali che abusive. A questo si aggiungono fenomeni meteorologici come temporali, alluvioni e esondazioni che si stanno ripetendo con nuova intensità e frequenza.

 

I cambiamenti climatici insomma rendono i nostri territori costieri più fragili e mettono in pericolo le persone, insieme al fenomeno dell’innalzamento dei mari. Tra le minacce, l’erosione costiera: oggi più di un terzo delle nostre spiagge è in erosione e il futuro sembra ancora più arduo per l’innalzamento del livello del mare e l’intensificarsi dei fenomeni climatici estremi. In molti casi si è intervenuti con la costruzione di scogliere aderenti alla costa che hanno, di fatto, solo spostato il problema, col risultato che oggi abbiamo interi tratti di costa coperti da scogliere artificiali, che non permettendo il ricambio idrico e la sedimentazione delle sabbie, contribuiscono al progressivo abbassamento dei fondali e ai possibili crolli. La tecnica del ripascimento dei litorali è più efficace ma anche più costosa.

 

«Per il futuro delle aree costiere – ha dichiarato Rossella Muroni, presidente nazionale di Legambiente – abbiamo la possibilità di ispirarci e scegliere un modello che si è già rivelato di successo. Quello delle aree protette e dei territori che hanno scelto di puntare su uno sviluppo qualitativo e che stanno vedendo i frutti positivi anche in termini di crescita del turismo». In Italia ci sono 32 aree protette nazionali con misure di tutela a mare (pari a oltre 2milioni e 800mila ettari di superficie protetta a mare), 27 aree marine protette (o riserve marine), 2 parchi marini sommersi, 2 perimetrazioni a mare nei parchi nazionali e un santuario internazionale per la tutela dei mammiferi marini. Inoltre oggi sono individuate ben 54 aree marine di reperimento dove istituire riserve marine.

Fonte: LaStampa.it

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Altro che la guerra vecchi contro giovani raccontata dai giornali. Il conflitto che emerge dalla brexit non è generazionale, ma di classe. E per non farlo esplodere dobbiamo saperlo vedere

Andrea Coccia, Linkiesta, 29 Giugno 2016

 

È passata quasi una settimana dal referendum britannico sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa e, tra tutte le notizie false, le interpretazioni sbagliate, gli allarmismi, le esagerazioni e le non comprensioni di cui è stato vittima il mondo del giornalismo italiano e internazionale ce n’è una che sta diventando un pericoloso ritornello: quello che vede dietro la sconfitta del Remain e la vittoria del Leave un conflitto generazionale.

Il campo di battaglia sarebbe questo: da una parte le vecchie generazioni, quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni, i nati tra la battaglia della Somme e l’omicidio di Kennedy; dall’altra, le generazioni più giovani, quelle nate dai mesi della contestazione fino alla fine degli anni Ottanta. Sul ring, secondo tantissimi analisti, si sono sfidati i Babyboomers e la Generazione Erasmus. I genitori contro i loro figli. Vecchi contro giovani.

«Per un ragazzo di Londra, l’Europa è la fidanzata spagnola con cui ha amoreggiato durante l’estate del corso Erasmus a Barcellona. Per la vecchietta di Bristol citata dal capo degli ultrà nazionalisti Farage, l’Europa è il migrante nigeriano che attraversa la Manica per togliere il lavoro al figlio inglese della sua vicina ». Lo ha scritto sabato 25 giugno il direttore creativo de La Stampa Massimo Gramellini, uno a caso tra coloro che, non appena il dato ha iniziato a circolare, si sono aggrappati con le unghie ai paramenti del carro dei fini analisti, dei sociologi, degli scienziati politici.

«Ha vinto la vecchietta di Bristol», conclude laconico e retorico Gramellini, «perché ci sono più vecchiette che ragazzi, in questa Europa che non fa più bambini». Hanno vinto i vecchi. E pare veramente che la guerra civile generazionale sia veramente arrivata nelle case degli inglesi, almeno a leggere alcuni articoli del Guardian, che a distanza di quasi una settimana stanno ancora cavalcando quel discorso. Giusto martedì è uscito un articolo dal titolo che non lascia spazio alle libere interpretazioni: «Family rifts over Brexit: ‘I can barely look at my parents’», che in Italiano suona così: «Famiglie spezzate sulla Brexit: “Non riesco quasi a guardare i miei genitori”».

Eppure i fini analisti, i sociologi improvvisati e gli arguti scienziati politici di queste ore hanno preso un abbaglio che manco san Paolo sulla via di Damasco. E abbagliati si sbaglia, e qui lo sbaglio, oltre che macroscopico nel metodo, ha una portata pericolosa.

Questa storia, infatti, è falsa come una banconota da 30 euro. Primo, perché non esiste nessuno dato reale che può indicare la percentuale di voto per fasce d’età. Nessuno. I dati che sono stati usati per costruire questa storia della lotta generazionale sono il risultato di un’indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, ovvero una settimana prima del voto. E sapete quanto è largo il campione degli intervistati da YouGov? 1652 persone, di cui, gli over 65 erano 73.

Ricapitolando: a partire da un sondaggio fatto una settimana prima del voto su 1652 persone, i giornali di mezzo mondo stanno gridando al conflitto generazionale come a una guerra civile che potrebbe trasformare i salotti dei nostri genitori in campi di battaglia. Molto bene, ma non è verificabile in nessun modo. Il che fa di quei dati e di tutte le analisi che hanno generato un mucchio di roba inutile.

I discorsi di questa portata si fanno sulla realtà, non sulle speculazioni statistiche. E qui l’unica realtà consistente sono i dati ufficiali, quelli reali, quelli provenienti dai seggi dopo le operazioni di conteggio dei voti. Sono questi gli unici sui cui si possono basare ragionamenti di tale portata. Sono questi che possono essere interpretati a livello sociologico, confrontandoli con dati precedenti, per esempio, e comparandoli tenendo conto dei dati socio economici dei bacini elettorali che quei dati hanno generato. Il Guardian, da questo punto di vista, ha fatto un ottimo lavoro di sintesi grafica del voto.

Ne emergono dati interessanti che dimostrano — come mostrano i grafici del Guardian — come gli assi che sembrano aver condizionato più le decisioni degli elettori sono, nell’ordine, il livello scolastico, lo status sociale e la ricchezza procapite.

 

Capitale scolastico, capitale sociale, capitale economico. Guarda caso esattamente le categorie usate da Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese, per descrivere le dinamiche tra le classi sociali negli ultimi decenni del Novecento. Classi sociali, non classi di nascita.

 

Qualche esempio: a Londra, dove ha vinto bene il Remain, il Leave ha prevalso nei quartieri della working class dell’East London, «a Havering, Barking e Dagenham», scrive il Guardian e continua: «a Bexley e in molte aree della zona dell’estuario del Tamigi». Storicamente quelle sono zone labour, e alle ultime elezioni hanno visto un aumento del bacino pro Farage. È la working class. E, anche a Londra, ha votato Leave.

Un altro esempio: in città produttive come Manchester e Liverpool, il voto per il Remain ha prevalso nelle zone centrali, quelle più ricche e borghesi della middle class, mente il Leave ha vinto nelle periferie. Ancora una volta, i luoghi della working class. Stesso discorso anche per città come Birmingham, Leeds e Sheffield. Dinamica che si accentua nei centri operai, nel nord dell’Inghilterra, dove città come Doncaster e Middlesbrough il Leave ha vinto con percentuali superiori al 60 per cento.

Il discorso che emerge da queste analisi non c’entra niente con le età dei votanti. È un altro. E ci dice che, se veramente vogliamo fare i sociologi e cercare di capire le dinamiche del voto britannico, dobbiamo smettere di pensare, come fa Gramellini, ai ragazzi della generazione Erasmus, quelli con la fidanzatina spagnola, che sanno le lingue e sono cosmopoliti, che vengono sconfitti dai vecchi conservatori che non hanno visto il mondo. Per capire il voto britannico e trarre qualche lezione sul futuro della nostra Europa, infatti, il discorso che ci tocca fare riguarda un conflitto tra classi.

Owen Jones, columnist del Guardian, ha scritto: «Questo, che è forse l’evento più drammatico avvenuto in Gran Bretagna dalla fine della guerra, è stato, sopra ogni cosa, una rivolta della working class. Può darsi che non sia stata esattamente la rivolta della working class contro l’establishment politico, così come molti di noi pensano, ma è innegabile che questo risultato sia stato raggiunto grazie al sostegno dei voti di una working class alienata e furiosa».

Alienazione. Rabbia sociale. Conflitto di classe. Esattamente quella roba che negli ultimi trent’anni abbiamo cercato di seppellire sotto terra, come gli indiani con le asce di guerra, ma che sta tornando, anzi, non se n’è mai andato. Un fantasma si aggira per l’Europa, scrivevano una volta due che l’avevano vista lunga. Ecco, sono passati 150 anni, ma quel fantasma, forse, è ancora lì. E non è il caso di aspettare che prenda coscienza da solo. Perché quello che potrebbe succedere, non piacerebbe a nessuno.